Libro di Manuel
di Julio Cortazar
nella traduzione di Dario Valentini
Parte Prima
D’altronde, era come se “quello di cui ti ho parlato” avesse avuto intenzione di raccontare alcune cose, dato che aveva messo da parte una notevole quantità di note e foglietti, apparentemente sperando che finissero per ammassarsi senza troppe perdite. Aspettò più di quanto fosse prudente, a quanto pare, e adesso toccava ad Andrés scoprirlo e dispiacersene, ma a parte quell’errore, ciò che sembrava aver rallentato maggiormente “quello di cui ti ho parlato” era stata l’eterogeneità delle prospettive secondo cui quelle cose erano successe, per non parlare del desiderio – piuttosto assurdo e comunque per nulla funzionale – di non immischiarsi troppo. Questa neutralità lo aveva portato fin dall’inizio a mettersi come di profilo, operazione sempre azzardata in questioni narrative, figuriamoci storiche, che è la stessa cosa, specialmente dato che “quello di cui ti ho parlato” non era né stupido né modesto, eppure qualcosa di difficilmente spiegabile sembrava avergli richiesto di tenere una posizione sulla quale non fu mai disposto a fornire dettagli. D’altra parte, sebbene non fosse facile, aveva preferito fornire sin dal principio diverse informazioni che permettessero di entrare da multiple angolazioni nella breve ma tumultuosa storia della Joda[1] e di persone come Marcos, Patricio, Ludmilla o il sottoscritto (che “quello di cui ti ho parlato” chiamava Andrés senza discostarsi dalla verità), forse sperando che tali informazioni frammentarie illuminassero un giorno la fucina interna della Joda. Tutto questo, chiaramente, se tutte quelle note e pezzi di carta avessero finito per disporsi in maniera intelligibile, cosa che in realtà non avvenne mai del tutto per ragioni che in qualche misura si potevano dedurre dai documenti stessi. Una prova della sua intenzione di entrare subito nell’argomento (e forse mostrare la difficoltà di farlo) venne fornita inter alia dal fatto che “quello di cui ti ho parlato” stesse ascoltando quando Ludmilla, dopo aver giunto e disgiunto le mani come in un esercizio di ginnastica alquanto esoterico, mi guardò lentamente con l’aiuto di un dispositivo oculare profondamente verde e mi disse Andres, ho il presentimento a livello dello stomaco che tutto ciò che accade o che ci accade è molto confuso.
—Polacchina, confusione è un termine relativo —le feci notare—, capiremo o non capiremo, ma quella che tu chiami confusione non è responsabile di nessuna delle due cose. La comprensione, mi pare, dipende solo da noi e per questo non basta misurare la realtà in termini di ordine o confusione. Occorrono altri poteri, altre opzioni come si dice adesso, altre mediazioni come si arci-dice adesso. Quando si parla di confusione, quasi sempre si ottiene gente confusa; a volte basta un amore, una decisione, un’ora fuori dall’orologio perché di colpo il fato e la volontà immobilizzino i cristalli del caleidoscopio. Eccetera.
—Blup —disse Ludmilla, che usava quella sillaba per andare mentalmente dall’altro lato della strada, e adesso valle dietro.
Certo che, fa notare “quello di cui ti ho parlato”, nonostante tale ostruzionismo soggettivo, il filo conduttore è molto semplice: 1) La realtà esiste o non esiste, in ogni caso è incomprensibile nella sua essenza, così come sono incomprensibili le essenze in realtà, e la comprensione è un altro specchietto per le allodole, e l’allodola è un uccellino, e uccellino è il diminutivo di uccello, e la parola uccello ha tre sillabe, e ogni sillaba ha due lettere, e così si vede che la realtà esiste (da allodole e sillabe) ma è incomprensibile, perché poi cosa significa significare, cioè, tra le altre cose, dire che la realtà esiste; 2) La realtà sarà pure incomprensibile ma esiste, o almeno è qualcosa che ci accade o che ognuno di noi fa accadere, così che una gioia o un bisogno elementare ci porta a dimenticare tutto ciò che è stato detto (in 1) e ad andare al punto 3). Abbiamo appena accettato la realtà (in 2), qualunque essa sia o comunque sia, e quindi accettiamo di essere collocati in essa, ma proprio lì capiamo che, assurda o falsa o truccata, la realtà è un fallimento dell’uomo pur non essendolo dell’uccellino che vola senza fare domande e muore senza saperlo. Quindi, inesorabilmente, se abbiamo appena accettato quanto enunciato in 3), dobbiamo passare a 4) Questa realtà, a livello di 3), è una truffa e dobbiamo cambiarla. Qui abbiamo una biforcazione, 5 a) e 5 b):
—Wow—, dice Marcos.
5 a) Cambiare la realtà solo per me – prosegue “quello di cui ti ho parlato”- è cosa vecchia e fattibile: Meister Eckart, Meister Zen, Meister Vedanta. Scoprire che il sé è un’illusione, coltivare il proprio giardino, diventare un santo, trasformarsi da cacciatore a preda. No.
—Stai andando bene— dice Marcos.
5 b) Cambiare la realtà per tutti – continua “quello di cui ti ho parlato” – è accettare che tutti sono (o dovrebbero essere) quello che sono io, e in qualche modo fondare il reale sull’umanità. Ciò significa accettare la storia, cioè la razza umana su una strada sbagliata, una realtà accettata finora come reale e così via. Conseguenza: c’è un solo dovere ed è quello di trovare la strada giusta. Metodo, la rivoluzione. Sì.
—Beh—dice Marcos, —sei il migliore quando si parla di semplificazioni e tautologie.—
— È il mio libretto rosso di ogni mattina—, dice “quello di cui ti ho parlato”, —e devi ammettere che se tutti credessero nelle semplificazioni, non sarebbe così facile per la Shell Mex piazzarti una tigre nel motore.
—È la Esso—, dice Ludmilla, che ha una Citroen due cavalli apparentemente paralizzati dal terrore per la suddetta tigre dato che si fermano ad ogni angolo e “quello di cui ti ho parlato” o io o qualcun’altro deve mettersi a spingerla.
A “quello di cui ti ho parlato” Ludmilla piace per quel suo modo folle di guardare le cose, e forse è per questo che fin dall’inizio Ludmilla sembra avere come il diritto di violare ogni cronologia; è vero che ha potuto parlare con me (“Andrés, ho il presentimento a livello dello stomaco…”), eppure, “quello di cui ti ho parlato” mescola, forse intenzionalmente, i loro ruoli quando fa parlare Ludmilla in presenza di Marcos, dal momento che Marcos e Lonstein sono ancora sulla metropolitana che li conduce, poco ma sicuro, al mio appartamento, mentre Ludmilla sta recitando la sua parte nel terzo atto di una commedia drammatica al Teatro del Vieux Colombier. A “quello di cui ti ho parlato” ciò non importa assolutamente, poiché due ore dopo le persone sopra citate si riuniranno a casa mia; penso addirittura che lo faccia apposta affinché nessuno – compresi noi e soprattutto gli eventuali destinatari dei suoi lodevoli sforzi – si crei false speranze sul suo modo di trattare il tempo e lo spazio; a “quello di cui ti ho parlato” piacerebbe avere il dono dell’onnipresenza, mostrare Patricio e Susana che fanno il bagnetto a loro figlio nello stesso momento in cui Gómez il panamense completa con gran soddisfazione una collezione di francobolli Belgi, e un certo Oscar a Buenos Aires telefona alla sua amica Gladis per informarla di una cosa molto seria. Quanto a Marcos e Lonstein, sono appena tornati in superficie nel quindicesimo distretto di Parigi, e si accendono una sigaretta con lo stesso fiammifero, Susana ha avvolto il figlioletto in un asciugamano blu, Patricio prepara un mate[2], la gente legge il giornale della sera, e via così.
Ludmilla
Gómez
Monique
Lucien Verneuil
Heredia
Marcos
Andrés
Quello di cui ti ho parlato
[Francine]
Oscar
Manuel
Gladis
Lonstein
Roland
Fernando
Per abbreviare le presentazioni, “quello di cui ti ho parlato” immagina qualcosa del genere, tutti sono seduti più o meno nella stessa fila di sedili davanti a qualcosa che potrebbe essere, se si vuole, una specie di muro di mattoni; non è difficile dedurre che lo spettacolo è tutt’altro che maestoso. Chiunque paghi il suo ingresso ha diritto a un palcoscenico in cui accadono cose, e un muro di mattoni, salvo il passaggio più o meno casuale di uno scarafaggio o dell’ombra di chi scende dal corridoio centrale cercando il suo posto, non offre gran che. Ammettiamo dunque – questo a spese di “quello di cui ti ho parlato”, Patricio, Ludmilla o mie, per non parlare degli altri che a poco a poco siedono in fondo alla platea, come i personaggi di un romanzo che si dispongono uno dopo l’altro nelle pagine più avanti, anche se vai a sapere quali sono le pagine più avanti e quelle più indietro di un romanzo, dato che l’atto di leggere significa avanzare nel libro, ma quello di apparire significa tornare indietro rispetto a quelli che appariranno poi, dettagli formali di poco conto – ammettiamo dunque per assurdo che tuttavia queste persone sono lì, ognuna sul suo sedile davanti al muro di mattoni, per ragioni diverse poiché sono individui ma tutti in qualche modo affrontando l’assurdo, per quanto illogico possa sembrare ai vicini di quartiere che proprio in quel momento assistono affascinati nel cinema dell’isolato a fianco, alla clamorosa proiezione made in URSS di Guerra e Pace in technicolor e in due parti su schermo gigante, supponendo che quegli spettatori possano immaginare che “quello di cui ti ho parlato”, eccetera, siano seduti nei loro sedili davanti a un muro di mattoni, e affrontare l’assurdo consiste per Susana, Patricio, Ludmilla, eccetera, nell’essere esattamente dove sono, perché quella specie di metafora in cui tutti si sono infilati consapevolmente e ciascuno a suo modo, consiste, tra varie cose, nel non assistere a Guerra e Pace (sempre seguendo la metafora, perché almeno due di loro l‘hanno già visto), sapendo benissimo dove sono, sapendo ancora meglio che è assurdo, e soprattutto sapendo che non possono essere violentati dall’assurdo in quanto non si limitano ad affrontarlo (sedendosi davanti al muro di mattoni, metafora) ma è proprio l’assurdità di andare verso l’assurdo a far crollare i muri di Gerico, che vai a sapere se erano di mattoni o tungsteno pressato, se è per questo. In altre parole, affrontano l’assurdo perché sanno che lo si può sconfiggere, e che in fondo basta gridargli in faccia (di mattoni, per seguire la metafora) che non è altro che la preistoria dell’uomo, il suo progetto amorfo (qui, innumerevoli possibilità di descrizione teologica, fenomenologica, ontologica, sociologica, dialettico-materialista, pop, hippie) e che è finita, questa volta è finita, non è chiaro come ma a questo punto del secolo qualcosa è finito, fratello, e allora vediamo cosa succede, ed è proprio per questo che stasera, in quello che si fa o si dice, in quello che diranno o faranno i molti che continuano ad entrare e sedersi davanti al muro di mattoni, aspettando come se il muro di mattoni fosse un sipario dipinto che si alzi appena si spengono le luci, e le luci si spengono, certo, e il sipario non si alza, arci-chiaro, perché-i-muri-di-mattoni-non-si alzano. Assurdo, ma non per loro perché loro sanno che quella è la preistoria dell’uomo, guardano il muro perché immaginano cosa possa esserci dall’altra parte; poeti come Lonstein parleranno di regno millenario, Patrick gli riderà in faccia, Susana penserà debolmente a una felicità che non si debba pagare con l’ingiustizia e le lacrime, Ludmilla ricorderà chissà perché un cagnolino bianco che le sarebbe piaciuto avere a dieci anni e che non le regalarono mai. Quanto a Marcos, tirerà fuori una sigaretta (è vietato), la fumerà lentamente, e io mischierò tutto per escogitare una possibile via d’uscita dell’uomo attraverso i mattoni, e naturalmente non riuscirò ad immaginarla perché le estrapolazioni della fantascienza mi annoiano terribilmente. Alla fine ce ne andremo tutti a bere una birra o a prenderci un mate da Patricio e Susana, finalmente comincerà ad accadere davvero qualcosa, qualcosa di fresco giallo verde liquido caldo in mezzo litro, zucche disposte in cerchio, lampadine e come volando sopra l’imponente montagna di panini che avranno preparato Susana e Ludmilla e Monique, quelle menadi pazze, sempre morte di fame quando escono dal cinema.
[1] Joda: gruppo di intellettuali rivoluzionari di cui fanno parte i protagonisti [N.d.t]
[2] Mate: bevanda simile al te, ricavata dall’infusione di foglie di erba mate, pianta originaria del Sud America [N.d.t]