L’ineluttabilità

di Fiorella Malchiodi Albedi

Nella sala d’attesa, in fila per la mammografia, siamo rimaste in due, io e la Donna Perfetta. Appena entrata, mi è sembrato subito di riconoscerla: longilinea, elegante ma in modo poco appariscente, con un taglio di capelli impeccabile. Il sorriso calmo che ha rivolto a tutte noi è stata la conferma. Perché la Donna Perfetta ama mostrarsi condiscendente con la massa e sa mischiarsi tra gli individui di rango inferiore senza palesare ripugnanza, anzi elargendo benevolenza. Ha preso a sfogliare una rivista con la sua mano affusolata, dove naturalmente splendeva una vistosa fede (va da sé che la Donna Perfetta è sposa felice e madre amorevole). E mentre noi altre poverette, chi più, chi meno, mostravamo segni di nervosismo (certo è un esame di routine, il verdetto sarà senz’altro favorevole, ma sempre di un verdetto si tratta), lei no, tranquilla, non un accenno di ansia a scompigliarle i capelli, a incresparle quella fronte vergognosamente liscia, a spegnerle il sorriso lieve sulle labbra.

Quindi ormai siamo rimaste solo noi due. L’ultima paziente esce dello studio, il medico si affaccia e scandisce:

– Crosetti.

– Sono io – sto per dire, ma per un attimo mi blocco: il mio cognome pronunciato con quel tono perentorio mi riporta indietro nel tempo. Alle elementari, forse, una suora che mi rimproverava? Oppure è stato al liceo? E mentre mi abbandono a quella memoria, ma solo per una frazione irrisoria del nostro tempo infinito, la Donna Perfetta si alza e dice:

– Eccomi – e segue il medico fuori della stanza.

Ma come? Finalmente sono in piedi anch’io.

– Sono io Crosetti! -, dico davanti allo studio, ma la porta chiusa non mi risponde. Che strano, penso, forse era un cognome simile, magari ha detto Corsetti o Rosetti e ho immaginato di sentire il mio, di cognome. Così vado dalla segretaria. La donna ha indosso il cappotto e si vede che sta preparandosi a uscire.

– Mi scusi, hanno chiamato Crosetti?

La donna dà un’occhiata al registro.

– Sì, certo, la signora Crosetti era l’ultimo appuntamento. Mi spiace, ma non posso farla aspettare, il medico lascerà lo studio subito dopo quest’ultima visita.

– Ma Crosetti…

– Mi scusi davvero, ma devo uscire di gran fretta. Mi telefoni, le fisso un nuovo appuntamento.

Rimango sconcertata. È un’incredibile coincidenza, che due donne con lo stesso cognome si siano prenotate per lo stesso giorno. La segretaria avrà pensato a uno sbaglio e ha cancellato il doppione. Dovrei chiedere conto dell’errore, protestare per l’appuntamento mancato. E invece mi metto a pensare che ho scorto una emme puntata dopo il cognome Crosetti, sul registro. Ancora più buffo, ma certo la mia omonima non si chiamerà banalmente Maria, come me. Forse Matilde. O Maddalena.

La donna ora è sull’uscio e mi guarda impaziente. Il tono gentile sta scemando rapidamente.

– Guardi che non posso lasciarla sola nella sala d’attesa, la prego di uscire.

Di nuovo dovrei obiettare, farmi valere, ma sento avvicinarsi l’ineluttabilità, sta per sommergermi. Così la seguo fuori, lei chiude la porta dietro di noi, mi saluta brevemente e poi scende veloce, il ticchettio dei suoi tacchi si perde nella tromba delle scale.

Magda? O magari Melissa. Chissà.

 

Mi sono seduta su una panchina dall’altro lato della strada, sperando di godermi l’ineluttabilità. Chiamo così un sentimento che spesso mi prende di consapevole e rassegnata impotenza: quanto è inutile l’umana fatica che tenta di opporsi al destino! È gradevole, come sensazione; dà un certo sollievo arrendersi di fronte alle difficoltà, rinunciare a combattere. Mi sento un granello di polvere nel turbinio cosmico, come potrei contrastare il divenire dell’universo? È come lasciarsi trascinare da una corrente immaginaria, in un fiume che scorre lentamente verso un lago sterminato. Ha anche un vago sapore di trasgressione, perché una parte di me dice che è sbagliato, che dovrei reagire e continuare a lottare. Ma è un retaggio di età lontane, ed è dolce tacitare quella voce interiore indisponente, ormai è flebile al punto che quasi non la sento più.

Da qualche tempo, però, l’antico meccanismo si è inceppato: mi capita di cedere all’inerzia, come sempre, è ormai la cifra della mia vita, ma senza riuscire ad assaporarne il potere consolatorio. Anche adesso, ad esempio, vorrei starmene qui tranquilla, a gustare il senso di resa e ricavarne il conforto che in genere porta con sé ma non ci riesco. C’è una nota acida. Mi ricorda il sapore agrodolce di certe pietanze delle mie zie, che noi bambini trovavamo rivoltante. Una punta di aspro, inattesa, che rovinava il dolce. Volevano darci un insegnamento, le amate zie? Prepararci alla vita? Questo insolito doloroso fastidio mi scava dentro. Continuo a guardare il portone dello studio medico con un malessere che non comprendo.

Ora il portone si apre ed esce la Donna Perfetta. L’esito dell’esame non ha scalfitto il sorriso sul suo volto; certo le sue ghiandole mammarie non conoscono termini come “cisti”, “sclerosi”, “fibroadenoma”, o peggio “carcinoma”, o altre amenità del genere che toccano invece a noi povere mortali. La guardo dirigersi verso la fermata dell’autobus, che è anche la mia, e di colpo provo un’intensa curiosità di sapere dove vive.  Ma sì, perché no, ho qualcosa di meglio da fare? Oggi andrà così: la seguirò per scoprire la sua Casa Perfetta. Provo un gusto un po’ perverso a perdere tempo dietro a questa follia e forse mi distrarrà dall’amara confusione che oggi mi invade.

Sale sul 60, che è anche la mia linea; almeno non dovrò girare mezza Roma per assecondare questa stravaganza. Il mezzo è semi vuoto; potrebbe sedersi, come ho fatto io, ma no, lei rimane davanti alle porte, dritta come un fuso. Già, dimenticavo che il portamento è un’altra caratteristica della Donna Perfetta: fiero ma senza alterigia, e soprattutto senza sforzo apparente, come se sconfiggere la gravità fosse la cosa più naturale. Senza accorgermene mi trovo a raddrizzare le mie spalle curve e la mia schiena gibbosa, ma è un attimo, il peso della vita ha subito la meglio sulla mia spina dorsale ormai viziata.

Arriva la mia fermata e, che strano, la donna scende. Mi precipito dietro di lei. Ma abita nel mio stesso quartiere? Come mai non l’ho notata prima? Forse è solo in visita. Continuo a seguirla, sempre più sconcertata. Ora siamo proprio nella mia strada e un brivido freddo comincia a scorrermi lungo la schiena. Ecco che si ferma davanti alla mia casa, tira fuori le chiavi, ora è dentro. Fisso immobile, in attesa, le finestre buie del mio soggiorno e ormai non mi stupisco quando vedo che all’improvviso si illuminano.

 

Sono ormai ore che spio la mia casa. Il mio doppio ben riuscito ha preparato la cena per il marito e i figli, poi tutti si sono seduti intorno al tavolo e hanno mangiato, allegri e tranquilli. Ora i ragazzi sono nelle loro stanze, e la Donna Perfetta e il suo marito perfetto sono sdraiati sul sofà, a guardare la TV. Ho visto accendersi e spegnersi le lampade nelle varie stanze, tutte luci allegre, così diverse dalle mie. C’è anche un’illuminazione esterna, e le sedie a sdraio, il tavolino e le fioriere che avevo deciso di mettere anch’io sul terrazzo, tanto tempo fa. Ma che poi non ho messo.

Basta, è inutile restare qui, devo allontanarmi anche se non so dove andare. Neanche l’ineluttabilità oggi mi è di conforto: ha un sapore stantio e reca solo un senso di penoso smarrimento. Ma come alleviarlo, non ho più risorse dentro di me: il fiume immaginario in cui mi lascio trasportare oggi si è inaridito. E allora cercherò dell’acqua in cui immergermi, ma questa volta acqua vera, non sognata. Sì, questo mi aiuterà. Immagino il suo abbraccio liquido; so che mi sentirò accolta, l’angoscia sarà lavata via e proverò di nuovo una sensazione di sollievo. Cercherò dei sassi per riempire le mie tasche.

 

 

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Giorgio Mascitelli
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