PIER PAOLO PASOLINI 2. Il tempo del disincanto. L’avvento della società dei consumi
di Luca Vidotto
2. Il tempo del disincanto. L’avvento della società dei consumi
Dalla prima parte degli anni Sessanta, in Italia iniziò un periodo che venne definito boom economico: tra il 1959 e il 1960, gli speculatori degli altri paesi europei e dell’altra sponda dell’Atlantico iniziarono a investire massivamente sui titoli italiani, poiché avevano un basso costo e un’alta rendita finanziaria, e questo trend venne seguito dagli stessi italiani. L’euforia generale venne rafforzata dall’entrata nel Mercato Europeo Comune (MEC), con la quale si aprirono le frontiere e le dogane al commercio con gli altri paesi appartenenti all’Unione Europea, favorendo l’aumento degli scambi commerciali e delle esportazioni. Aumentò come mai prima nella storia repubblicana il Prodotto Interno Lordo, a cui corrispose un aumento della ricchezza dei cittadini, che determinò un forte incremento della domanda di beni durevoli. L’evento più significativo nell’Italia di quegli anni fu l’industrializzazione, che aumentò di più dell’80% rispetto a una decina di anni prima, e si concentrò nel cosiddetto triangolo industriale del nord, i cui vertici erano Torino, Milano e Genova.
Fu questo il momento che segnò l’avvento del progresso.
Pasolini, però, senza adagiarsi sulla superficie dell’onda di quel mare tumultuoso, ascrisse il fenomeno del miracolo economico non all’Italia e agli italiani, ma alla rivoluzione borghese che in quegli anni stava avvenendo e che era costituita da due aspetti fondamentali: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazione. Entrambi causarono un avvicinamento tra le periferie e i centri urbani, da una parte “abolendo ogni distanza materiale”1, dall’altra facendo entrare nelle case degli italiani un’unica voce, quella della televisione.
L’industrializzazione fece diminuire il lavoro nelle campagne e in generale nel settore agricolo, distruggendo quel contesto che aveva dato alla luce la cultura particolare del mondo contadino e, parallelamente, abbatteva le distanze con la costruzione di nuove strade, sia a livello locale sia nazionale.
Nelle periferie l’asfalto iniziò a sostituire il fango e la polvere e, tra nord e sud Italia, se crebbe un divario economico ancor più accentuato rispetto al passato, a causa dalla scelta degli investimenti industriali tutti concentrati nel Settentrione, si concretizzarono delle condizioni che rendevano meno complicata l’emigrazione.
Abbattute le mura, vengono a mancare anche quelle fondamenta che permettono a ciò che è diverso di dar vita a un mondo. Inizia cioè a vacillare quell’intraducibilità della cultura che rendeva liberi i suoi appartenenti. Sradicate dalle radici, le culture particolari muoiono, diventano invivibili.
Se la rivoluzione delle infrastrutture ha determinato un tale stravolgimento dal punto di vista materiale, ben peggiore è ciò che opera la televisione. Essa diventa il centro di diramazione dell’euforia edonistica e dei nuovi valori che fatalmente gli italiani saranno costretti a seguire. Nonostante, essendo fondamentalmente una tecnica audio-visiva, utilizzi per esprimersi il linguaggio scritto della realtà, si rivela immorale, infatti “l’unico intervento non naturalistico della televisione è il taglio della censura, fatta in nome della piccola borghesia”3, cosicché il video diventa “una fonte perpetua di rappresentazione di esempi di vita e ideologia piccolo-borghese. Cioè di «buoni esempi». Ecco perché la televisione è ripugnante almeno quanto i lager”4.
Questo potentissimo mezzo di comunicazione è riuscito ad attuare un’acculturazione che ha permesso di assimilare la moltitudine di aree differenziate geograficamente, economicamente, socialmente e linguisticamente a un unico centro, cioè a quella parte della società che si identifica con il boom economico e che – coscientemente o involontariamente – ha causato una disgregazione di ogni particolarismo e di ogni sua reale concretezza. “I poveri così si sono trovati di colpo senza più la propria cultura, senza più la propria lingua, senza più la propria libertà: in una parola, senza più i propri modelli la cui realizzazione rappresentava la realtà della vita su questa terra”[5]. E, continua Pasolini, il segno lampante che fa emergere una tale condizione di crisi è
E se è vero che permane una certa vitalità e musicalità nel modo in cui viene parlato dalle persone, nella voce e nei tratti del viso che lo esprimono e lo rendono caratteristico, tutto ciò si rivela come una mera sopravvivenza, destinata anch’essa a scomparire. Morte del mondo contadino che non è semplicemente tale, infatti non è semplicemente finita un’era, ma un periodo che sembra ormai addirittura lontanissimo nel tempo, remoto: quel “mondo agricolo, […] il mangiare schietto, […] i tempi lenti dell’esistere, le abitudini ripetute indefinitamente, i rapporti duraturi e assoluti”6 rappresentavano quel rito della quotidianità che, ora, inizia a disgregarsi e decomporsi “al di là di un limite già lontano”7. Il campo è ora occupato dalla società dei consumi, che tutto ha divorato, col suo sviluppo economico che è il frutto della volontà della destra economica, del neo-liberismo, e dunque degli industriali che vogliono una produzione intensa e illimitata di beni superflui. E non ci si è resi conto che beni necessari determinano una vita necessaria, i beni superflui una vita superflua.
Magari tutti i cambiamenti che sono avvenuti sono semplicemente il segno dei tempi che mutano e si spostano necessariamente verso un futuro che non può in alcun modo essere negato, e non c’è nessun male nella direzione specifica che essi hanno preso, ma per Pasolini in questo spettacolo si sta consumando un dramma – o una tragedia?9 Per lui è come essere una madre al tempo della guerra, quando vedeva partire i suoi amati figli, giovani e pieni di vita, per affrontare un’avventura che li avrebbe fatti tornare o rinchiusi in una bara o con gli occhi privi del brillio che avevano al momento di partire, bruttati per sempre dalla crudeltà della morte e dalla distruzione a cui hanno dovuto non solo assistere, ma partecipare
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?10
⇨ PIER PAOLO PASOLINI 1. Il tempo dell’innocenza. Il Friuli e Roma
⇨ PIER PAOLO PASOLINI 2. Il tempo del disincanto. L’avvento della società dei consumi
⇨ PIER PAOLO PASOLINI 3. Il tempo della caduta. L’omologazione antropologica degli italiani
- P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 23.↩
- Ivi, p. 163.↩
- P.P. Pasolini, Empirismo eretico, cit., pp. 143-144.↩
- Ibidem.↩
- Id., Scritti corsari, cit., p. 163.↩
- P.P. Pasolini, I Dialoghi, cit., p. 597.↩
- Ibidem.↩
- P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 107.↩
- Il ‘dramma’ ha una conclusione che risolve la drammaticità di quanto è accaduto; la ‘tragedia’ è tragica nel suo essere una dramma irrisolto.↩
- P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, cit., p. 63.↩
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Grazie di questi suoi due articoli su Pasolini.
alberto