Diamanti nel cielo del denaro
di Giorgio Mascitelli
La notizia che la vendita di For the Love of God, il teschio tempestato di diamanti opera di Damien Hirst, per 100 milioni di dollari nel 2007, ossia il più costoso affare nella storia del mercato dell’arte, non sia mai avvenuta e sia uno scherzo architettato dallo stesso artista pare non abbia colto di sorpresa alcuni critici ed esperti di quel mercato. I conoscitori infatti sapevano che nel cursus honorum artistico e commerciale di Hirst beffe e raffinati giochi concettuali non sono mai mancati. Io confesso invece di esserci restato di stucco probabilmente perché non conosco i prezzi del mercato e 100 milioni mi suonava più che altro come una cifra tonda e dunque simbolica per indicare un valore altissimo, un po’ come quando la mamma sgrida il bimbo disobbediente con un ‘te l’ho detto un milione di volte’, che non significa che ha contato esattamente le volte in cui ha rivolto la raccomandazione al figlio, ma vuol dire soltanto che lo ha fatto spessissimo. Comunque c’è da dire che se qualcuno mi avesse chiesto chi era il più famoso o il più importante artista contemporaneo avrei indicato senz’altro Hirst per via di questa storia dei 100 milioni ( colpa mia del resto che scambio il valore venale dell’opera con la sua rilevanza artistica e culturale come se non fosse arcinoto che le due cose non coincidono) e immagino che tante altri appartenenti al pubblico medio non scaltrito dell’arte contemporanea avrebbero detto lo stesso.
Certo è che uno a cercare di capire i sottili movimenti dell’arte contemporanea si sente un po’ tonto, però nella mia tonteria mi sembra di aver capito che, ammettendo questo fatto della mai avvenuta vendita, Hirst abbia tolto alla sua opera l’aura di unicità che la contraddistingueva. Che il denaro abbia reintrodotto un’aura, magari non più sacrale ma feticistica, è sotto gli occhi di tutti: tu puoi riprodurre quante volte vuoi l’immagine del teschio, ma ce n’è uno solo sul quale si era spesa la somma favolosa di 100 milioni. E’ anche un’aura più concettuale, che non abbisogna dell’hic et nunc per essere colta, per esempio io il teschio non l’ho mai visto né dal vivo né riprodotto, eppure era salda nella mia testa l’idea che quest’opera fosse la pietra angolare dell’arte contemporanea. Non c’è dubbio che con le sue dichiarazioni Hirst abbia tolto alla sua opera quest’aura e probabilmente adesso varrà quanto valgono i diamanti che la compongono. Egli, tuttavia, cancellando l’aura della sua opera ha creato una seconda opera, una potente performance che mette in scena, forse un po’ tautologicamente, la perdita di questa seconda aura tramite una semplice parola.
A noi del pubblico medio non scaltrito non resta a questo punto che chiederci qual è il messaggio di questa nuova opera, sì insomma che interpretazione dare e qui il discorso si fa complesso perché non tutte le interpretazioni sono alla nostra portata. Una prima interpretazione è quella che si potrebbe definire neoneodadaista ossia non una semplice provocazione nei confronti delle ritualità dell’arte, che sono convenzioni vuote, significanti senza significato, ma una provocazione contro la provocazione: se una merda d’artista ha un certo valore di mercato e ciò è ironico, a maggior ragione dovrà avere un valore incalcolabile il gesto che cancella il valore più alto mai espresso nell’opera d’arte, ma questo valore è inesigibile, il che è molto più ironico. Il neodadaista non crede a nulla salvo che al mercato, magari senza saperlo, ma qui l’opera in questione è la scomparsa stessa dello sterco del demonio d’artista, che non è valutabile né commerciabile, questo vuol dire che il neoneodadaista crede coscientemente nel mercato ma deve rinunciare al suo credo, deve diventare un apostata per potere adempiere all’ultima possibile provocazione.
Un’altra possibilità è l’interpretazione postconcettuale: con questa performance non c’è nemmeno bisogno del manufatto nel quale si deve scorgere il lavoro mentale dell’artista, appunto il gioco ideologico o filosofico che si appoggia sull’oggetto opera. In questa performance l’aspetto mentale è l’unico che esiste e così si realizza l’opera perfetta, l’opera senza supporto materiale, di puro significato, grazie alla quale l’artista postconcettuale va oltre l’ardimento del concettuale che prende o fotografa l’oggetto fatto da altri attribuendogli il significato che ci vede. Questo significato senza significante porta al culmine l’arte, perlomeno per chi crede in un’arte puramente ideale e non sensuale, ma allo stesso tempo l’arte si esaurisce perché non è commerciabile esattamente come non lo è una preghiera pronunciata con fervore a bassa voce in un momento oscuro di una vita.
Un’ulteriore interpretazione possibile è quella che definirò pseudosituazionista: qui la performance produce effetti di miracolo e di spaesamento, giacché questi effetti non nascono direttamente dalla sua osservazione sur place o in qualche riproduzione, ma altrove, alla semplice notizia che essa è avvenuta. Gli effetti infatti li troviamo nel mercato dell’arte dove le altre opere firmate dall’autore dell’opera più costosa del mondo, che poi si è rivelata non esserlo, seguiranno le dinamiche di prezzo prima miracolose e poi spaesanti della performance stessa. Questo però significa che il vero autore dell’opera non è l’autore delle dichiarazioni che costituiscono la performance, l’autore autentico andrà cercato negli effetti strutturali del mercato o, se si preferisce, nella situazione. In questo modo vengono superate le due istituzioni, ossia l’autore e l’oggettualità, che ancorano l’opera alla sua commerciabilità. L’opera allora non vale niente come merce.
Sicuramente è possibile proporre interpretazioni ancora più sottili, non alla portata di chi come appartiene al pubblico medio non scaltrito. Eppure mi sembra che anche le interpretazioni più sofisticate , al pari di quelle grossolane, finirebbero tutte per indicare la stessa verticalizzazione: l’arte deve andare sempre più in alto, portando il suo livello di gioco provocatorio a livelli stratosferici. Ma se l’arte vuole salire sempre di più, se vuole continuare il novecentesco assalto al cielo, deve sapere che oggi il cielo è fatto di denaro e per toccarne il culmine eccelso non bastano i diamanti, deve bucare la soglia del denaro, giungere alla sfera dell’incalcolabile e quindi del gratuito, che poi è come dire la sfera del silenzio nella nostra società, in cui non si parla delle cose che non hanno prezzo. Per realizzare un programma del genere però ci vorrebbe quello che Kafka ha chiamato un artista della fame e probabilmente da solo non basterebbe perché ci vorrebbero anche dei controllori che osservino che non imbrogli. E questi ultimi nel nostro mondo così materiale e sensuale, non si troveranno mai, perlomeno non in misura sufficiente a organizzare un sistema di controlli socialmente accettato, ma perché disperarsene? Senza bisogno di salire al cielo del denaro, all’artista che resta a terra è possibile fare tante mosse, un passo a lato, girare di sbieco o addirittura la mossa del cavallo. Certo per restare a terra occorre l’umiltà di non stare sul promontorio estremo dei secoli, di sentirsi modesta creatura della storia, consapevole di non essere né il primo né l’ultimo.