Opera animale. Appunti sul Teriantropismo e sulla metamorfosi
[Opera animale è un’Isola delle Edizioni Volatili]
L’Età della Asimmetria ricorda l’epoca dell’arte simbolica, perché i materiali hanno guadagnato una nuova «vita». Ma gli esseri umani non possono ignorare ciò che già sanno.
Timothy MortonAprendo e chiudendo le porte naturali, puoi essere una gallina?
Comprendendo tutto ciò che ti circonda, puoi fare a meno delle conoscenze?
Lao-tzuBasta guardare. Guarda l’animale e vedrai il divino automanifestarsi.
James Hillman
Il Teriantropo
Che cos’è il Teriantropismo e chi è il Teriantropo?
Nel tentativo di rispondere a queste domande, bisognerà tornare indietro nel tempo, fino al principio, lì dove i nostri antenati hanno lasciato una traccia del loro pensiero.
Entrare nelle rinomate grotte di Lascaux o di Chauvet significa porsi di fronte a ciò che Georges Bataille ha indicato come «la nascita dell’arte». Il momento in cui Homo ha iniziato a concepire la forma, il simbolo, il mito, l’immagine.
Parlando di arte figurativa in generale, vi sono dei contesti culturali, situati storicamente e geograficamente, analizzando i quali è particolarmente adeguato l’uso del termine «teriomorfismo» (più comune nella lingua italiana), ovvero la rappresentazione di una o più divinità in forma animale.
Basti pensare alla cosmologia egizia, per fare un esempio celebre.
Quando però torniamo all’arte preistorica, tutto cambia.
Guardando i dipinti rupestri più antichi, pur non avendo ancora gli strumenti per comprenderne esattamente il significato, possiamo sicuramente intuire qualcosa. Sentire qualcosa.
Non sappiamo, e forse non sapremo mai se effettivamente sia stato proprio questo il primo atto creativo e artistico di un essere umano – o di un essere in assoluto. Io non credo, onestamente. Tuttavia, non è importante sapere se possiamo parlare della primissima traccia di questo cambiamento. Sappiamo che è una traccia.
Il Teriantropo è un ibrido: uomo e bestia.
Il termine proviene dal greco θηριον (da thēr/thērós) che significa «bestia», «belva», «bestia selvaggia» o «feroce»; e ανθρωπος (ánthrōpos) ovvero «uomo».
Questa parola indicherebbe una compresenza, nella stessa figura, nella stessa immagine, nello stesso corpo, di un essere umano e un altro animale di una specie differente.
Nei dipinti parietali che gli uomini preistorici disegnarono decine di migliaia di anni fa, nelle grotte di mezza Europa – le più studiate al momento – la figura dell’essere umano è praticamente assente, o quasi. Il centro di queste opere d’arte è la bestia: l’altro animale.
In questo senso gli animali raffigurati possono anche essere definiti «teriomorfi», poiché le immagini – la loro forma e la loro posizione – suggeriscono una venerazione di qualche tipo per le figure rappresentate, da parte degli artisti e delle loro comunità. I soggetti centrali, di queste mastodontiche opere tracciate a più mani, non sono certo ibridi uomo|bestia; i protagonisti dei dipinti non hanno quasi mai sembianze umane, e dove queste emergono, i disegni diventano spesso malfatti, appena abbozzati, oppure marginali, o “nascosti” in profondità, come la «scena del pozzo» nella grotta di Lascaux, o «Lo stregone» di Trois-Frères.
Sempre Bataille, uno dei primi ad aver speculato generosamente sui dipinti preistorici di Lascaux, ha suggerito un’interpretazione che trovo molto interessante e sensata, benché priva di scientificità. Questi enormi disegni, lasciati nella profondità delle grotte, rappresenterebbero «il gioco complesso di sentimenti in cui l’umanità andava formandosi». Come se Homo, arrivato a quel punto, stesse esperendo la divisione interna di un rapporto che finisce o che sta per finire; una relazione che si basava sulle somiglianze, col tempo, porterà Homo e il resto dei viventi a una separazione, a causa delle differenze.
Se questo fosse davvero il modo corretto di interpretare i segni e i simboli dell’arte parietale preistorica – le cosmogonie che rappresenta – a distanza di migliaia di anni, apparirebbe evidente che gli uomini preistorici avessero davvero ragione.
Tanti altri hanno azzardato ipotesi alquanto diverse sul significato dell’arte preistorica. Alcune davvero interessanti e “credibili”, scientificamente parlando, più accreditate. Altre molto meno.
André Leroi-Gourhan e Annette Laming-Emperaire, nella seconda metà del Novecento, rivoluzionarono il modo di studiare e interpretare i dipinti rupestri del paleolitico, formulando l’ipotesi – basata sull’analisi di decine di grotte – che gli esseri umani stessero sviluppando, in quelle immagini, un sistema simbolico duale: maschile e femminile che entrano in relazione.
Non è forse questo un atto di separazione?
L’animale – compreso l’umano – non sa di essere diverso dalla pianta o dal fungo, o da un altro animale. (E in effetti: è esattamente così. Siamo un tutt’uno. O meglio: tutto è uno. E non voglio dirlo in termini mistici o sapienziali: gli esseri viventi fanno parte di un complesso ecosistema, formato da tanti più piccoli ecosistemi che s’influenzano vicendevolmente. Se la foresta amazzonica venisse bruciata tutta in un giorno solo, moriremmo tutti. Pochissime specie si potrebbero salvare da un tale disastro. In questo senso, anche molto prosaico, e in ogni altro senso possibile: tutto è uno).
Ecco che nel momento in cui l’animale si rende conto di essere “diverso”, allora succede qualcosa di inaudito: diviene “umano”. Si separa dagli altri animali, la relazione finisce, ci si allontana.
Dal nostro modo di vedere, questa frase andrebbe corretta: l’animale crede di essere diverso, quindi crede di divenire umano e di potersi separare dalla Natura. Per poi sentirsi solo, lontano da tutto.
E invece: l’uomo è sempre e solo un animale.
Da un’altra prospettiva si potrebbe anche dire che il concetto di «animale» non esiste, poiché pensarla così significherebbe ammettere una separazione tra l’animale e il vegetale, per esempio, o tra gli animali, gli oggetti e l’ambiente.
Il senso però è che l’animale non sa di essere animale. O meglio: non concepisce la differenza, la separazione tra sé e tutti gli altri sé, siano essi viventi, animati o inanimati.
Troviamo in natura animali che imitano piante o pietre. E l’animale diviene sé stesso per imitazione. Lo dimostrano, in qualche modo, paradossalmente, anche gli esseri umani. Siamo divenuti umani guardando gli altri animali, somigliando a loro.
L’arte preistorica è forse l’ultimo omaggio alle bestie, dell’essere umano che comincia un percorso di separazione e rimozione?
Si tratta del canto del cigno prima della rottura definitiva, durata migliaia di anni e ancora in corso? Una storia d’amore che termina, che viene spezzata.
Proviamo, allora, a ipotizzare nel significato dell’arte rupestre la presenza di un messaggio (che evidentemente ha il sapore del rimorso) per i posteri: «guardate agli animali, guardate con le bestie, insieme ai vostri simili. Venerate l’animale che è in voi. Aspirate a divenire animali».
Metamorfosi come prospettiva
Sono diversi gli studiosi che, forse erroneamente, hanno provato ad afferrare il significato delle pitture rupestri del paleolitico attraverso l’analisi delle culture delle popolazioni “primitive”.
Il concetto di ciò che è “primitivo” dovrebbe essere stato del tutto superato, grazie all’essenziale lezione del multiculturalismo e alla rivalutazione totale dell’idea di “progresso” intesa in senso novecentesco. Non ci sarebbe quindi alcun motivo per paragonare le espressioni culturali e artistiche di quei popoli che venivano considerati primitivi a quelle dell’uomo preistorico, non avrebbe senso, da un punto di vista scientifico. Sorprende tuttavia notare le somiglianze tra gli usi e i costumi delle popolazioni che sono rimaste isolate dal contesto delle società occidentali industrializzate e le ipotesi, le intuizioni degli archeologi rispetto al significato dei ritrovamenti preistorici.
Richiamo a questo punto un termine senza tempo che ha attraversato l’intera storia del pensiero: la metamorfosi.
Anche metamorfosi è una parola greca, μεταμόρϕωσις, che significa: mutazione di forma.
Etimologicamente parlando, quindi, il termine in sé non sta a indicare esclusivamente una trasformazione fisica, biologica, estetica o semplicemente razionale. La forma, muta.
Questa definizione apre a una serie di interpretazioni piene di senso. Cosa significa, allora, metamorfosi?
Voglio intendere qui la metamorfosi nel senso che è stato sviluppato, a partire dallo studio delle cosmologie amerindie, da alcuni degli antropologi e delle antropologhe che consideriamo parte del «prospettivismo cosmologico», ovvero: la metamorfosi come cambio di prospettiva o, più precisamente, come una condizione di costante intercambiabilità di tutte le prospettive.
Il punto di vista, in questo ragionamento, non è però un luogo astratto, è situato esattamente nel corpo. La metamorfosi non è quindi un atto rappresentativo, e basta; ma diviene anche fisico, coinvolge ogni aspetto dell’essere. Poiché sono un tutt’uno, la prospettiva e|è il mondo. Soggetto e mondo coincidono nell’istante in cui l’essere è compreso nel mondo, e lo comprende a sua volta, in esso s’immerge e si discioglie.
Non solo questo slittamento di prospettiva ci consente di osservare gli altri animali per ciò che sono davvero: esseri animati, tutt’uno con l’ambiente; non solo ci permette di vedere anche la compresenza degli altri enti del cosmo: vegetali e inanimati; infine, e soprattutto, ci dà l’opportunità di compiere praticamente questa trasformazione, di guardare con gli occhi dell’animale, della bestia selvaggia.
Come è possibile che avvenga questa magia?
Proviamo a esprimere il concetto in termini più semplici, tramite un esempio di Eduardo Viveiros de Castro che credo funzioni molto bene: compiere la metamorfosi sarebbe – in termini esemplificativi – come indossare una muta da sub, che non serve a travestirsi da pesce ma “semplicemente” a nuotare come un pesce. Questo non significa che basta indossare muta, maschera e pinne per divenire pesce, il cambiamento di cui stiamo parlando coinvolge la prospettiva ontologica dell’individuo.
Ancora (bisogna essere precisi): non voglio nemmeno suggerire che l’individuo debba pensare di essere un pesce. Sono sicuro, però, che la maggior parte delle persone che usano fare immersioni o, più comunemente, andare nei boschi o in montagna, capiranno quando dico che compiere la metamorfosi significa sentire il mondo come dalla prospettiva di un animale.
Non basta e non è essenziale il travestimento.
Eppure, una maschera non serve solo a nascondere.
La maschera è la rappresentazione esteriore di una trasformazione che avviene all’interno; o che può avvenire, quantomeno.
La maschera è uno stato dell’anima.
Questo testo non vuole dare una risposta alle molte domande che pone e che il lettore attento, spero, potrà far proliferare dentro e fuori di sé. Piuttosto vuole rimanere nel dubbio. Nella prospettiva del non sapere: come può avvenire questa metamorfosi? Non lo so. Possiamo però raccontare come già avviene ed è avvenuta.
Bisogna fare a questo punto un atto di fede: comprendere le istanze dello sciamano che si trasforma in albero o che si perde nel vento; oppure quella del cacciatore che vede con gli occhi della preda; e ancora del meditante che lascia il corpo per muoversi nello spazio circostante. Può succedere a tutti, nel mondo onirico, di divenire l’Altro. E se provassimo a considerare i sogni come vissuto reale? Non influiscono, gli eventi del sogno, nelle nostre vite e nel nostro modo di attraversare e vedere il mondo?
Sciamanismo trasversale
«Ogni punto di vista è “totale”, e nessun punto di vista ne conosce di equivalente o di simile: lo sciamanesimo orizzontale non è dunque orizzontale, ma trasversale».
(Eduardo Viveiros de Castro)
Compiere lo sforzo di comprendere profondamente la prospettiva dell’Altro significa divenire l’Altro. Lo si può osservare nelle sue più semplici conferme: quando ci «mettiamo nei panni» di chi abbiamo di fronte, del nostro interlocutore, oltre a capire la sua situazione, potrebbe accadere di comprendere delle cose di noi stessi, di cambiare quindi il nostro modo di vederci e di vedere il mondo. Per fare questo c’è bisogno di considerare la prospettiva dell’Altro nella sua perfetta completezza e totalità. Di crederci.
Vediamo quindi come questo meccanismo possa applicarsi anche a dinamiche più complesse. Osservando il comportamento degli elefanti è stato possibile comprenderne i bisogni, e capire, per esempio, il valore sociale complesso che l’elefante dà alla morte dei suoi simili, l’effetto che ha sulla comunità e sulle famiglie; come la morte di un elefante può – attraverso un complicato e invisibile sistema di relazioni e di rapporti di causa ed effetto – generare decine di altre morti. Questo ci ha permesso – eccetto dove la cecità umana non ha consentito comunque di intervenire – di istituire aree protette, di vietare il commercio di avorio e così via.
È senz’altro vero che la metamorfosi coinvolge l’intimità del singolo individuo, ma può avere effetti politici e sociali di enorme portata. Basti pensare all’impatto che stanno avendo certi movimenti basati sull’ascoltare finalmente le voci delle minoranze indigene. Ovvero sul prendere seriamente in considerazione l’opinione e le idee dell’Altro, la diversità come una somiglianza.
In questo senso potremmo intendere lo sciamanesimo trasversale. Lo sciamano è chiunque ma non chiunque è uno sciamano. Per diventarlo, il primo passo potrebbe essere esercitare la propria propensione all’ascolto, in ogni senso possibile: dal meditare nel silenzio qualche minuto al giorno, al prendersi carico della lotta yanomami, come scelta di vita. Oppure vivere nella foresta per anni, o in una piccola casetta, davanti a un lago, alla ricerca dell’essenziale. È un percorso, e come tale va rispettato in ogni sua parte, poiché è sacro, è la vita stessa, la ricerca di Sé, e il sé è nel mondo, è in ogni cosa esistente e inesistente. In ogni momento del percorso è racchiuso l’intero cammino.
Compartecipazione mistica
Guardare gli animali, quegli esseri che restituiscono il nostro sguardo, che guardano con noi e che in sostanza sono anche parte di noi, può dirci qualcosa. Può raccontarci come ciò che giace “oltre” l’umano ci sostenga e ci renda gli esseri che siamo e quelli che potremmo diventare. (Eduardo Kohn)
«Ogni animale è uno psicopompo», questa frase di James Hillman è perfetta per il discorso che stiamo portando avanti.
Abbiamo ampliato l’idea di animale, o quantomeno l’idea di cosa sia un animale dal punto di vista dell’animale stesso.
Non c’è separazione tra l’animale – noi – e il resto del mondo.
E allora, per logica: il mondo è uno psicopompo.
Coltivando una propensione alla compartecipazione nell’essere del mondo, è possibile accedere alla propria presenza animale. Perdersi nella compartecipazione ci permette di attuare la metamorfosi. Il cacciatore deve divenire preda per osservare con gli occhi della bestia e così seguirne le tracce. Per farlo deve perdere un po’ di sé, dimenticare di essere il cacciatore.
Così come nel mondo dei sogni, il sognatore che crede, il sognatore consapevole della verità delle sue visioni, può trovare delle suggestioni, nuove prospettive, scoprire qualcosa che prima non sapeva, crescere, divenire animale, scoprire il suo autentico Sé.
Compiere l’opera animale coincide allora, forse, con la costruzione del proprio sé, che avviene per imitazione dell’Altro. La metamorfosi non è niente di più che l’ascolto, il movimento che chiunque potrebbe compiere: nasce da fuori di noi ma agisce all’interno. È una perdizione che porta al cuore delle cose. L’animale non è ‘privo di mondo’ ma ‘perso nel mondo’.
E allora compiere l’opera animale significa perdersi.
Perdere la propria umanità e|è divenire animali.
Immagini di Giuditta Chiaraluce.
Bellissimo (e verissimo) intervento, molto molto profondo (e in linea col mio credere, vivere e sentire). Grazie.