Fuori dal respiro del racconto: su Narrazioni, di Sergio Rotino

di Daniele Barbieri

 

Possiamo pensare al verso come a una versione formalizzata del respiro (quale davvero presumibilmente è stato sin quando la poesia è rimasta una forma musicale, cantata o cantillata): in questa prospettiva i versi brevi hanno un movimento complessivo differente dai versi lunghi. Possono apparire più allegri, ma anche più ansiogeni, e in ogni caso portatori di una dinamica emotiva maggiormente energetica – e magari proprio per questo le forme epiche, di dimensione maggiore, preferiscono mediamente i versi lunghi, per non bruciarsi troppo in fretta.

Ma un verso breve troppo breve arriva a uccidere il respiro, perché il fiato si rompe troppo spesso; e un verso lungo troppo lungo ottiene lo stesso risultato con procedimento opposto, perché il fiato non basta mai, non regge la portata del verso. In ambedue i casi la versificazione stessa produce ansia, e qualunque cosa venga detta dalle parole che la costruiscono sarà pervasa da questa ansia. Così sembra funzionare la poesia di Sergio Rotino, che dopo i versi extralunghi di Loro (Dot.Com Press, 2011) e quelli brevissimi di Cantu maru (Kurumuny, 2017), ritorna ora al verso extralungo con Narrazioni (Seri Editore, 2021).

Loro era in qualche modo ancora un racconto, ispirato ai fatti bolognesi della Uno Bianca, mentre Cantu maru è una dolorosa litania, in un petroso dialetto pugliese, così duro e frammentato da non presentare nessuna somiglianza con quella che normalmente si intende come poesia dialettale. Narrazioni riprende apparentemente l’idea del racconto, ma quasi solo per devastarla, per scioglierla nell’acido.

Le narrazioni a cui fa riferimento il titolo e che emergono dalle parole dell’opera sono narrazioni mediatiche, o mediatizzate, luoghi comuni del senso. Prendi una favola come Hänsel e Gretel, ne stravolgi l’andamento della fabula (perché comunque è così nota che non c’è nessun bisogno di raccontarla in ordine), le accosti richiami esterni, per quanto pertinenti, ne distorci il ritmo sintattico e prosodico, anche attraverso la pratica del verso extralungo: il risultato è qualcosa che certo richiama ancora la narrazione di partenza, ma caricandola di un’angoscia che apparentemente non le apparteneva, un’angoscia che sostituisce quella del testo originario, più che aggiungersi a quella.

È chiaro che in questo procedimento possono anche emergere sentimenti, ma essi sono due volte mediati: in primo luogo attraverso la narrazione di origine, in secondo attraverso lo straniamento che se ne sta adesso producendo. Tutti i sentimenti, e persino l’ironia, sono dunque avvolti da uno strato di angoscia, che è il sentimento dominante, da cui non si esce mai.

Il verso extralungo ne è il motore principale: nella sua dinamica ossessiva, ogni verso conduce la lettura a una sorta di picco di tensione accentuale, intorno alla metà, per poi progressivamente esaurirsi andando verso la fine – mentre un’altra tensione prosegue sino in fondo, con il classico effetto di saturazione che è sempre l’effetto di una dilazione troppo prolungata, qui come alla ricerca dell’aria che non arriva mai, perché manca il tempo per inspirare, quasi in apnea. Il verso extralungo diventa in questo modo una sorta di brodo che amalgama qualsiasi cosa, dove tutti i sapori si mescolano, ma nessuno scompare davvero del tutto, e ciascun sapore sembra continuare a richiedere la propria autonomia, il proprio legittimo sviluppo narrativo, ma senza averne il modo, senza averne il tempo, senza avere aria a sufficienza per farlo.

Così, in questo procedimento possono prendere posto anche frasi fatte e luoghi comuni, perché tutto finisce nel frullatore dell’andamento ansiogeno, che li rende luoghi inessenziali di passaggio. E tutto è qui un luogo inessenziale di passaggio, come se la cultura di massa, moltiplicando gli stimoli, rendesse tutto luogo inessenziale di passaggio, e il verso extralungo dovesse apparire come metafora della extrastimolazione sensoriale cui i media ci sottopongono, rendendo tutto inessenzialmente uguale – ma almeno qui restituito all’angoscia rivelatoria del non poter giudicare, del non potersi permettere gerarchie cognitive affidabili, quali quelle che comunque rimarrebbero attive e rassicuranti nelle narrazioni più tradizionali, Superman e Biancaneve compresi.

Le ripetizioni ossessive, che qua e là appaiono, sono altrettanto inessenziali narrativamente; ma sono al tempo stesso ritmicamente importanti, come se alla fin fine l’effetto musicale straniante fosse davvero l’unica cosa che conta, al di là delle parole specifiche stesse, al di là delle storie cui esse accennano. È insomma questa tensione melodica a caratterizzare il tutto, attraverso la sua sistematica negazione delle forme sia sintattiche che metriche, un po’ come a dire: i contenuti narrativi (le narrazioni) alla fin fine contano ben poco, rispetto all’onda anomala che li stritola e conduce avanti e avanti, senza permettere il respiro sufficientemente regolare che permetterebbe loro di avere un senso. Mentre qui l’unico senso davvero presente è quello dell’onda che non si ferma, che determina i suoi andamenti e strania tutto, e stende ansia e angoscia su tutto.

Non c’è dunque un tema complessivo e i temi locali sono a loro volta occasioni sostituibili: qualunque cosa sottoposta a questo trattamento sortirebbe (quasi) il medesimo effetto. Per questo Superman, Biancaneve, Fahrenheit 451, Hänsel e Gretel, madame Bovary e Lolita sono praticamente intercambiabili, tutti meravigliosi e trapassati, o passati nel trituratore (extra)versale.

Ne resta l’evocazione stupita, insieme con il rimpianto, come nella disperazione di non poterli mai più possedere. Un libro vero e feroce, insomma, profondo e cattivissimo; fatto di passioni narrative che tutti conosciamo, e insieme della coscienza della loro artificiosità mediatica, la quale magari non ne uccide davvero le emozioni, ma – pericolosamente – le utilizza per qualcosa di assai meno vero. Lo straniamento che costruisce Rotino ci mette di fronte a tutta questa ambivalenza, rivelandoci – poiché siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni – ancora qualcosa di noi.

 

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Morire di strati

Di Giovanna Conti
[estratti da un'opera verbo-visiva in lavorazione]
I testi poetici e le immagini che ho raccolto interrogano la figura di mio padre a partire dalla sua faccia difficile. [...] La speranza è che i continui passaggi di stato—dall’Italia all’America e poi indietro, dagli sbuffi di mio padre alla sua rabbia dura...

L’esodo da Gaza – non cercavamo la vita quando lasciammo Gaza

Di Yousef Elqedra

Moheeb,

non ti chiedo di rispondere.
Va’, fuma il tuo narghilè e maledici il mondo.
A me basta che tu sappia che ci sono, che esisto nonostante tutto,

porto Gaza nel cuore come una ferita bella,
e Marsiglia sulle spalle come una croce leggera.

L’altro volto della resistenza

Di Yousef Elqedra

La tenda non è casa,
è promessa d’attesa
e ogni refolo di vento
ti rammenta che non sei che un passante
su una terra che non porta il tuo nome.

TLC

Di Federica Defendenti

dimmi tutti i tuoi segreti a cosa pensi
come un file protetto da password
esteso a .zip: secretato
come estrarti? e anche a saperlo
cosa cambia, dovrei hackerarti per leggerti in pieno ma ora
scegli un’altra app, file non eseguibile
ancora ancora un’altra volta riprovare

Palinsesti

Di Alberto Comparini

le ossa hanno dei tempi di guarigione diversi dai legamenti i tendini persino i menischi richiedono interventi più invasivi dei tumori le recidive i trapianti queste false illusioni quanto possono durare le certificazioni di inglese hanno una data di scadenza i controlli annuali i corpi gli effetti collaterali di quegli anni scivolati tra gli appunti delle segreterie

Gli anni degli altri

Di Marco Carretta
Arriva un pacco,
suo padre preme le bolle
come lui le parole.

Forza un pensiero di martello
fuori dalla sua testa.

Il pacco arriva dal passato.
È un pacco vuoto.
È un pacco di foto.
renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: