L’assurda evidenza. Un diario filosofico
Si pubblica di seguito l’introduzione a: L’assurda evidenza. Un diario filosofico, in uscita il 16 febbraio per Tlon.
di Francesco D’Isa
Quando avevo diciassette anni, una grave malattia mi costrinse a una prolungata degenza e al prematuro confronto con la domanda: «Perché si soffre?». Da allora, nonostante la mia completa guarigione, quell’interrogativo ha avuto modo di ripresentarsi spesso. Durante il mio ricovero in ospedale, nella mia stessa stanza c’era una signora sulla settantina, che purtroppo morì in poco più di un mese. Era una donna intelligente, che non aveva potuto permettersi un percorso di studi, ma che per via della sua indole curiosa si perdeva di frequente in letture disordinate e in lunghe conversazioni con chi, a differenza sua, aveva avuto l’opportunità di formarsi sui libri. Quando scoprì che studiavo filosofia iniziò a tempestarmi di domande, a cui rispondevo per lo più con altri interrogativi. Nonostante la differenza d’età stringemmo subito amicizia e a distanza di anni mi rendo conto che fu proprio questo strano sodalizio a declinare la mia domanda al plurale: «Perché soffriamo?».
La donna mi propose una risposta brillante o, per meglio dire, avanzò una nuova e più profonda questione, che posso sintetizzare così: ogni credenza sottintende un giudizio sul mondo. «Non puoi separare una tua convinzione da quel che pensi del resto del mondo» disse, «se credi di avere delle zucchine nel frigo, ad esempio, pensi anche che la tua memoria dica il vero, che le zucchine non possano spostarsi, trasformarsi, scomparire e molto altro ancora» – la più semplice delle opinioni, insomma, porta con sé profonde convinzioni metafisiche. Questo non vale solo per le mie idee ma, in forma estesa, anche per ogni sensazione, percezione, piacere o dolore, perché anch’essi si danno nella forma di un giudizio sul mondo. È facile notare – soprattutto dal letto di un ospedale – come talvolta, per esempio nel caso del dolore, questo giudizio si imponga in automatico. In ogni istante preferisco la mia forma vivente e in salute rispetto a quella come cadavere in putrefazione – ma perché? Questo giudizio mi sembra così ovvio che non è stato facile capire che non era figlio di una mia decisione, ma di una qualche forza che trascende la mia volontà.
Se chiudo gli occhi e osservo i miei stati mentali con animo equanime, come insegnano alcune tecniche meditative che ho imparato anni dopo il ricovero, ogni sensazione allenta la presa, perde un po’ del suo significato e con esso la sua valenza, positiva o negativa che sia – poi mi distraggo e la mente torna ad annodare l’istante a una visione, plasmando un mondo dall’indifferenziato. Poco prima che prenda forma però si intravede un antico limite ereditario, quello di un mondo abitabile, in cui posso sopravvivere e riprodurmi. Non solo la mia forma, ma anche tutto ciò che penso si struttura all’interno di questo vincolo che, più che col “vero”, coincide col “vivo”. In un passo di un libro che trova una felice sintesi nel suo titolo, Al di là del bene e del male,[1] Nietzsche aveva anticipato questa riflessione quando scrisse che
la falsità di un giudizio non è ancora, per noi, un’obiezione contro di esso; è qui che il nostro linguaggio ha forse un suono quanto mai inusitato. La questione è fino a che punto questo giudizio promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse addirittura concorra al suo sviluppo; e noi siamo fondamentalmente propensi ad affermare che i giudizi più falsi (ai quali appartengono i giudizi sintetici a priori) sono per noi i più indispensabili, e che senza mantenere in vigore le finzioni logiche, senza una misurazione della realtà alla stregua del mondo, puramente inventato, dell’assoluto, dell’eguale-a-se-stesso, senza una costante falsificazione del mondo mediante il numero, l’uomo non potrebbe vivere – che rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare alla vita, una negazione della vita.[2]
Immobile all’interno di confini cognitivi che mi definiscono, mi chiedo se posso fidarmi di quel che credo. In un articolo del 1952 Bertrand Russell usò una teiera per mettere in guardia dal pensiero teista. Il filosofo britannico affermava che è possibile immaginare l’esistenza di una teiera di porcellana in orbita tra Marte e la Terra che, proprio in questo momento, si trovi in moto di rivoluzione attorno al Sole. Se si postula che la teiera sia troppo piccola per essere osservata da un qualunque telescopio, l’affermazione di cui sopra risulta impossibile da contraddire. Per Russell il concetto di “Dio” funziona un po’ allo stesso modo. Sebbene però non possa essere certo che la teiera di Russell non gironzoli davvero nello spazio profondo, non ho neanche alcun motivo di ipotizzarne l’esistenza. La presenza di questo libro davanti a noi, in fondo, è altrettanto discutibile (e se in questo momento stessimo sognando?), ma alcuni indizi come il tatto e la vista ci portano a supporre che sia proprio qui. Alcune credenze sono delle necessità psicologiche ed è difficile metterle in dubbio, come ad esempio che tu stia leggendo queste parole o che una martellata su un piede faccia male.
Nel corso dei millenni l’umanità ha creduto a tante cose, alcune delle quali suonano ora poco plausibili (come la Terra piatta o il geocentrismo). Inoltre, per quanto ci siano cose estremamente convincenti, il loro livello di persuasività non mi dice nulla sulla loro effettiva realtà, soprattutto se riscontro in me la presenza di filtri cognitivi. Lo spettro della luce visibile all’essere umano, ad esempio, è un piccolo sottoinsieme delle radiazioni elettromagnetiche, ma ci sono animali e insetti che percepiscono colori che noi non possiamo vedere, come gli ultravioletti o gli infrarossi. Lo stesso vale per quasi tutti i sensi: ci sono colori che non vediamo, suoni che non udiamo, odori che non percepiamo. Grazie allo sviluppo tecnologico e culturale, nei secoli siamo riusciti a individuare l’esistenza di moltissime cose oltre la nostra portata sensoriale: con telescopi e microscopi abbiamo percepito lontane galassie e minuscoli microbi. La contemporaneità ci ha educato alla modestia per quel che riguarda la vastità del micro e macrocosmo, ma nel farlo ci ha portato a credere che quel che sfugge all’occhio non scappa al cervello. Così come l’ultravioletto risplende sui nostri volti inconsapevoli, è possibile che ci siano cose ben più inafferrabili e che la realtà trascenda di molto – anzi infinitamente – quel che la nostra mente reputa possibile. Il celebre rimbrotto shakespeariano di Amleto a Orazio si conferma alla lettera: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia». Sognare, non capire.
Sentivo le mie credenze sempre più come una forza imposta, ingiustificata, estranea. Ero pressato verso una meta non mia, come se a guidare ogni gesto fosse una forza che non ho scelto e su cui non ho potere. Dal bere un caffè al chiacchierare con amici, dallo spazzolare una giacca a uscire per una passeggiata, ho sempre avuto l’impressione di non avere un reale controllo su gesti e pensieri. Può sembrare folle, e per molto tempo ho pensato che lo fosse, finché non ho riconosciuto come, di fatto, ogni mia sensazione o pensiero sia qualcosa che accade, non che scelgo. Accade che io pensi a questo e quello, accade che io interpreti uno stimolo come doloroso o piacevole, accade che io voglia fare qualcosa, accade che fugga da altro… ma le leggi che generano questo susseguirsi di eventi mentali, la loro interpretazione e il conseguente giudizio di valore non sono una scelta. Perché una martellata sul piede è un dolore? Quale che sia il motivo non dipende da me, è così e basta. D’altra parte, anche se potessi controllare la mia volontà, secondo quali criteri potrei stabilire che cosa desiderare? Come decido cosa volere, se non ho desideri e avversioni? Ciò che è assolutamente privo di vincoli è libero, ma di conseguenza è anche privo di identità, dunque di volontà.
Eppure è proprio nell’abbandonare la direzione delle mie azioni che ho trovato le mie più strane e profonde gioie. Mi accadeva per caso, in concomitanza a eventi importanti o banali: un bacio alla persona amata come lo spazzar via delle briciole di pane dalla camicia. Lo ha descritto bene Pavese:
Non ti sei chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva. Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque. Altre volte la pioggia che insiste da giorni. O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di aver già veduto. Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero piú.[3]
Quel che sento in comune tra questi atti è la consapevolezza che non abbiano scopo – una scoperta sorprendente, considerato che all’assurdità della vita viene spesso attribuita una valenza negativa. Soffrire perché la vita manca di senso, però, è ancora conferirgli un senso, mentre la felice assurdità che vivevo abita un mondo che va al di là delle regole che ci sono imposte, privo di desideri, ambizioni e paure. Com’è questo nulla che trapela dal vivere quotidiano, oltre ogni possibile punto di vista? Ovviamente in nessun modo, o non sarebbe un nulla. E che effetto fa? A tutta prima atterrisce, disgusta, adira o intristisce. Ma lo spettatore insoddisfatto è servo dei desideri, per i quali non c’è nulla di peggio che essere vanificati; se questa lente si frantuma, invece, il paesaggio cambia drasticamente.
Valuto un lutto un male, una malattia un danno, la povertà una disgrazia. È un giudizio quasi automatico, ma ciononostante è basato su determinati criteri – sui quali, in gran parte, non ho alcun potere decisionale. Ma è possibile riscrivere la nostra convinzione più profonda? Posso, come dire, cambiare idea sul dolore? Parlando di Nietzsche, Klossowski scrive che il giorno in cui l’essere umano sarebbe riuscito a comportarsi come i fenomeni privi di intenzione questa nuova creatura manifesterebbe l’integrità dell’esistenza.[4] In un certo senso questa nuova umanità è sempre stata qui, basta saperla cogliere. Tra i koan Zen raccolti da Mumon,[5] ce n’è uno di rara chiarezza (per ammissione dello stesso autore) che recita: «Quando non pensi il bene e quando non pensi il non-bene, che cos’è il tuo vero io?». La realtà al di là di ogni filtro è un’inafferrabile assurdità che terrorizza chiunque non voglia abbandonare il proprio sistema di valori, ma una volta riconosciuto in esso non una libera scelta, ma un’imposizione genealogica, la perdita dell’Io coincide con la liberazione da una schiavitù.
È alla ricerca di tale luminosa follia che ho incontrato gli enigmi e i paradossi di questo libro, che mi hanno portato lentamente verso un’inusuale via di uscita: l’accettazione dell’assurdo. A differenza di quanto suggeriva Camus, infatti, e in linea appunto coi maestri Zen, credo che vivere all’interno dell’assurdo non sia una condanna, ma una liberazione.
In estrema sintesi, quel che penso è questo: che qualcosa esiste è l’unica certezza. La natura di questo qualcosa potrebbe essere al di là di ogni conoscenza corretta – ma anche l’ipotesi precedente potrebbe esserlo, dunque non resta che accantonare il dubbio (§1). Qualunque cosa esista però, è tale solo in relazione a qualcos’altro, che ne stabilisce i limiti e le caratteristiche – in caso contrario sarebbe priva di identità e non sarebbe più “qualcosa” (§2). Ogni relazione implica necessariamente una differenza; quale che sia la relazione tra due elementi, infatti, tra loro vi dev’essere una divergenza, oppure coinciderebbero. La condizione necessaria e sufficiente per essere qualcosa è dunque non essere qualunque altra cosa: necessaria, perché altrimenti una cosa coinciderebbe con un’altra, sufficiente, perché esaurisce tutte le relazioni possibili; se una cosa non è tutte le altre, non può che essere se stessa. Se qualcosa non esiste, però, non può essere diversa da tutto il resto o esisterebbe per via di quanto detto sopra. Di conseguenza è uguale a qualcosa: dunque esiste. È quindi impossibile che qualcosa non esista (§3).
Ancor più in breve, essere esattamente qualcosa equivale a non essere tutte le altre cose, ma questa definizione rende impossibile non esistere, dunque se qualcosa esiste, esiste tutto. Questa idea, soprattutto in forma condensata, è poco più di un gioco di parole – ma quando viene vissuta assume un altro significato, che spero di trasmettere in queste pagine. La fine del mio ricovero fu l’inizio di un percorso che mi ha portato sempre più lontano, spinto dalla feroce gratuità del dolore, della gioia e dell’inesorabile bellezza che si cela al di là di essi. Simone Weil disse che «noi sappiamo per mezzo dell’intelligenza che ciò che l’intelligenza non afferra è più reale di ciò che essa afferra».[6] Raggiungere questo confine è spossante, ma solo da lì ho potuto contemplare il dolore come un paesaggio, per riconoscervi, finalmente, qualcosa di nuovo.
[1] F.W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, tr. di F. Masini, Adelphi, Milano 1977.
[2] Ibidem.
[3] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 2020.
[4] P. Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso, tr. di E. Turolla, Adelphi, Milano 1983.
[5] Mumon, La porta senza porta, tr. di A. Motti, Adelphi, Milano 1987.
[6] S. Weil, Quaderni, vol. 2, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 172.