Davide Cortese: rubando all’emporio del gobbo
Piace la cioccolata
al piccolo demonio
non dividere in sillabe
la parola abominio.
Vuole il gesso nero
per scrivere alla lavagna.
Manda al cimitero
la maestra che si lagna.
Non vuole saperne d’ a, e, i, o, u.
Ama la ricreazione
il piccolo Zebù
A chi aspramente lo rimprovera
per qualche suo scherzo atroce
“L’ho imparato dagli uomini”
ogni santa volta dice.
Quando in petto lo strugge
un arcano bisogno d’amore
va a rubare all’emporio del gobbo
un lecca lecca a forma di cuore.
Factum loquendi
Strumentario «per vedere il buio pesto»
di Mattia Tarantino
A Nicea, nella chiesa dell’Assunzione, è conservato un antico mosaico. Erano gli anni di Procopio e di Agazia: ancora una generazione ed Eraclio sarebbe entrato nel cuore della Persia, tra le alture dell’Iran, preparando il terreno a nomadi e mercanti che da Sud, in poco tempo, avrebbero pregato sulle rive del Bosforo. Il mosaico ci mostra due angeli. Vestiti da funzionari di corte, mantengono gli stessi stendardi dei soldati romani. Hanno uno sguardo obliquo, come sapessero che per reggere ciò che resta del mondo occorre scrutare le trame da sempre cadute fuori dalla figura. Fuori dalla figurabilità, il rovescio dell’icona – le cose Là Fuori, quelle che si sottraggono alla dialettica, il neutro che scalcia nelle forze, quanto resta lontano dallo scheletro[1]. Quando facoltà della morte, Fähigkeit des Todes, e facoltà di linguaggio si incontrano, quando il linguaggio e la voce si arrestano perché una Voce ormai maiuscola sorga, essa sarà «anche il punto, in sé dileguante e inafferrabile, in cui si compie l’articolazione originaria delle due facoltà»[2]. Questo punto dileguante e inafferrabile sembra lo spirito, lo spirito come riposo, di Novalis: il punto neutro privo di contraddizione. Ma Novalis deve scontare Schleiermarcher, il punto nella soglia in cui – da cui, forse – siamo rivoltati, e l’aspirazione a dissolversi nella morte di Schlegel, quel poco che è semplicemente di troppo, «la soglia di pericolo in cui è in gioco il rivolgimento»[3]. Occorre qualcos’altro, qualcosa che ci dica del rischio e ci induca alla soglia, qualcosa che ci permetta, rischiando, di indicare la soglia. Per trovarlo, ci esporremo dall’estremo del linguaggio: tuttavia, «non c’è nulla di estremo se non nella dolcezza. […] Pensare, cancellarsi: il disastro della dolcezza»[4]. Parlando, e parlando dolcemente, svanendo, il poeta ci ricorda la nostra mortalità e, insieme, il nostro aver a che fare – fare un che – col linguaggio:
«L’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi della voce e l’evento di significato è l’altra Voce, la cui dimensione onto-logica abbiamo visto emergere nel pensiero medievale e che, nella tradizione metafisica, costituisce l’articolazione originaria (l’ ἄρθρον) del linguaggio umano. Ma, in quanto questa Voce […] ha lo statuto di un non-più (voce) e di un non-ancora (significato), essa costituisce necessariamente una dimensione negativa. Essa è fondamento, ma nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché l’essere e il linguaggio abbiano luogo»[5].
Così, col compito di custodire e, al contempo, esporre das ursprüngliche Wort, di testimoniarla come sempre-già-dileguata, il poeta aprirà la Voce sull’altra voce, quella del padrone, e ci dirà che del suo godimento – del suo discorso – potremo liberarci – e potremo spostarci dall’ombra e dall’eco che produce – volgendo gli occhi da una sagesse ridicule, volontairement comique, «ce qui fait coincider la sagesse et l’objet du rire» alla sovranità «du sage à la fin de l’histoire» in cui «l’identité de la satisfaction et de l’insatisfaction devient sensible», come Kojève scrive al giovane Bataille[6]. Al poeta – lo scomunicato, il balbuziente, l’insonne che veglia – non resterà che dire, allora: «Scoccano insieme/ la mezzanotte e il mezzogiorno». È la visione di Zebù, il bambino con le ali «da angelo randagio» che inganna il tempo a dadi, tempo di cui è ancora impossibile dire «How […] has ticked a heaven round the stars»[7]. Zebù, satira – satiro – della parodia, che dà fuoco agli angeli perché anneriscano, che «Tira le trecce a Maria, sua madre» giocando alla storia di Cristo tentando – attentando – la soglia, lo strano nesso, tra volontà e immaginario («Vuole un sole che non sia giallo./ Vuole andar piano ma arrivare presto/ accendere la luce per vedere il buio pesto»), è la figura di una ninna-nanna che buca il paradosso: che lo buca – e, per questo, vi si sottrae – proprio perché proviene da quel punto in cui il conflitto fugge dalla forma che gli abbiamo attribuito e fuggendo – slittando – indica un’altra via, qualcosa come un torrente appena sotto la struttura, annuncia una ricreazione, (Non vuole saperne d’a, e, i, o, u./ Ama la ricreazione/ il piccolo Zebù) l’inizio di un’altra Settimana e di un Giudizio ancora dove il linguaggio finisce di iniziare e non inizia – ristabilendo e dissimulando continuamente questa stessa simmetria – mai a finire. Come nella pseudocabala di Zanzotto («dài baranài tananài tatafài,/ sgorlemo i sissi missiemo i sonai»)[8] il linguaggio si fa factum loquendi, mero-fatto che si parli. Zebù, angelo del logos – e del logos stravolto, guarda l’Abgrund e ripete più volte e tentennando, come un rito che non riesce a ricordare, Nir-Garten: può parlare a ancora, e ancora può morire. Come coloro che «Dall’abisso tendono mani/ che già non si vedono più».
Aversa, luglio – agosto ‘21
[1] Per le categorie di «Fuori» e «neutro» cfr. Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, Il Saggiatore 2021.
[2] Giorgio Agamben, Quinta giornata, in Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino, Einaudi 1982, p. 62.
[3] Per l’interpretazione dei passi di Schlegel cfr. Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, Il Saggiatore 2021, pp. 15 – 16.
[4] Ibidem, p. 14.
[5] Giorgio Agamben, Quarta giornata, in Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino, Einaudi 1982, pp. 48 – 49.
[6] Ibidem, Excursus 4, pp. 65 – 66.
[7] Dylan Thomas, The force that through the green fuse, in The poems of Dylan Thomas, New York, New Directions 2003, pp. 43 – 44.
[8] Andrea Zanzotto, Recitativo veneziano, in Filò, in In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938 – 2009, Macerata, Quodlibet 2019, pp. 64 – 65.