L’oscenità dell’intimismo

Cristina Vezzaro intervista Sophie Daull

CV Dopo trent’anni come attrice di teatro hai pubblicato tre romanzi nel giro di pochi anni e ce n’è un quarto in arrivo. Come nasce la Sophie Daull romanziera?

SD È vero, la Sophie romanziera è nata a 50 anni, ma ha avuto una gestazione molto lunga.
Se vogliamo filare la metafora della nascita: la mia matrice sono le parole; la placenta, la sintassi; il mio cordone ombelicale la mia lingua, il francese, che sin dai tempi della scuola è il posto al mondo in cui mi trovo meglio. E non è un’immagine, per me la lingua è proprio un luogo: asilo, rifugio, chiesa. Ed è in questo luogo che trovo consolazione, speranza, è qui che accadono le lotte, la conoscenza. Il testo letterario e la poesia sono sempre stati per me come due gambe in più per procedere nella vita.
Già a scuola era così. Poi c’è stato il teatro, il palcoscenico, capitolo essenziale nella costruzione del mio rapporto con il mondo. Shakespeare, Ibsen, Čechov, le tragedie greche, i classici francesi: i grandi autori sono una fonte infinita di sapere, di Storia, di poesia. È stata la mia università, dato che non ho fatto studi al di fuori della mia pratica teatrale.
La scrittura però mi accompagna da sempre, già a 9 anni tenevo un diario (un bell’esercizio); ci sono poi poesie da adolescente e c’è una prima opera di qualche anno fa rifiutata dalle case editrici.
Ma come sai, l’elemento scatenante per affrontare davvero la scrittura, superare lo scoglio, è stata la morte di mia figlia, a seguito della quale sono riuscita a produrre un testo che avesse la forza e la bellezza per accompagnare al di là quella giovane vita falciata in modo tanto ingiusto.
Scrivere è anche un’attività fisica, dietro ogni scrittore c’è una specie di atleta, per via del fiato, del respiro, dell’equilibrio. In questo senso la scrittura si avvicina al palcoscenico, è in qualche modo una performance. Il mio essere intero si potenzia e si consolida a contatto con le parole, con la poesia.

CV Nei tuoi libri tratti temi molto personali: la morte di tua figlia, lo stupro e l’assassinio di tua madre. Che cos’è, per te, quella che hai definito “l’oscenità dell’intimismo”?

SD Non ricordavo di aver dato questa definizione! Sì, l’oscenità dell’intimismo… È una nozione da superare. Morti precoci, stupro, assassinio. Tutti eventi che mi hanno toccata da vicino, in diversi momenti della mia vita. È forse per questo che mi risulta difficile comporre fiction pura. Gli abissi in cui sono piombata, le perdite che ho subìto, l’immensità del silenzio a cui mi hanno costretta queste scomparse: queste assenze offrono spazio e materiale più che sufficienti per ispirare una scrittrice! Ma la necessità assoluta, la scommessa più difficile era non cadere nel sensazionalismo, tenersi al riparo da ciò che di volgare, di ombelicale, di riduttivo può esserci nel dolore. Si trattava di ampliare, ingrandire, “universalizzare”, toccare nel profondo le invarianti della condizione umana: la Morte, l’Amore, la Guerra. Solo una forma in cui agisse la poesia, in cui la lingua elevasse l’intento, poteva intonarsi al resoconto delle mie piccole disgrazie. Altrimenti si scade in un giornalismo psicologico che non ha più niente a che vedere con la letteratura. È vero, i miei libri affrontano tematiche molto personali, ma spero di offrire al lettore una dimensione superiore, una distanza a un tempo benefica e greve. L’intimismo è osceno quando sprofonda nel pathos, nel voyeurismo. L’intimismo è invece una nozione importante, e troppo spesso equivocata, quando permette di raccogliere, di consolare, di avvicinare le sfere in cui possiamo liberarci dell’utilitarismo della vita, delle piccolezze del reale, quel reale che ci ingiunge ogni giorno di essere belli, puliti, efficaci, integri, in buona salute e irreversibilmente felici.
C’è il miraggio sociale; e c’è la quotidianità, spesso dolorosa e problematica per molti di noi. La letteratura permette di creare quel legame tra tutti i mondi che abitiamo nel tempo di una vita. Ci ricorda che siamo tutti un universo, e non solo un modulo di organizzazione sociale. Ci ricollega ai nostri altrove, ai nostri segreti, ai nostri dolori, alle nostre vergogne, che la pressione sociale spesso considera rifiuti, o scorie. Disinnesca la pressione politica, ridà vita a un senso di comunità, per mezzo delle ombre, dei desideri, delle mancanze, della creazione di un tempo diverso in cui i fantasmi, tutti i fantasmi, agiscono e cantano il cosmo, qualcosa di più grande di noi.

CV La tua scrittura scava senza insabbiarsi, accarezza senza essere mielosa, incide senza uccidere. Quali sono le tue influenze letterarie?

SD Mi piace molto come descrivi la mia scrittura (se capisco bene l’italiano!). Mi fa venire voglia di riprendere le tue parole punto per punto.
Mi piace l’idea che la scrittura sia un lavoro artigianale, e i verbi che usi sembrano suggerire il ricorso a utensili: una paletta per scavare, una piuma per accarezzare, un punteruolo per incidere.
La paletta è utile non solo per andare a fondo delle cose, per toccare il nervo della ferita, a costo di farla sanguinare di nuovo. Lo è anche per scavare la lingua, cercare la pepita, la parola perfetta, la sintassi ideale… esplorare come un cercatore d’oro, solitario e accanito. Ma senza impantanarsi, senza sparire, restando alla luce, alla luce della necessità.
La piuma serve a scrivere: penso alle piume d’oca che si intingevano un tempo nell’inchiostro. Ma serve anche ad accarezzare, a lenire, è un bendaggio su piaghe che urlano. Come ho già detto, la scrittura è consolazione, per chi scrive e per chi legge. Bisogna muoversi con delicatezza, occorrono immagini poetiche forti che convochino i mondi altri, i meta-mondi, là dove vibra la memoria, là dove chi vive si riunisce a ciò che non c’è più. Il tutto naturalmente, senza pathos sdolcinato, senza facili compiacimenti, senza far tirar fuori i fazzoletti.
Il punteruolo, con cui si incide, con cui si imprimono le emozioni, serve a tracciare il solco in cui scorrerà la lacrima, il crogiolo in cui fremerà l’indignazione. La scrittura dev’essere incisiva, deve decapitare, con i denti, la banalità dei giorni senz’anima. Ma lo scopo non è certo di sconvolgere. Scioccare per il gusto di scioccare, sviluppare il trash, l’orrore, soddisfare il cattivo gusto e gli istinti più facili è quasi una colpa professionale! Interrogarsi, invece, disturbare, dislocare, far vacillare le certezze, quello sì, mi interessa. Senza mai annientare (come direbbe il nostro amico Houellbecq!), a che pro?
Le mie influenze letterarie?
Sono numerose, mutevoli. Non ho un modello fisso. Ne scopro tutti i giorni, perché conservo la curiosità per ciò che si scrive oggigiorno, e poi certo rileggo anche molto: Virginia Woolf, Dostoevskij, Flaubert, Giono… Adoro tutti i libri della mia biblioteca! Tutti mi hanno regalato qualcosa, prima o poi, e non sempre in concomitanza con la lettura. Per questo mi è difficile dare una risposta. Potrei dire che non ne ho, di influenze, non ne subisco, e al tempo stesso potrei dire anche che il mio stile è in infusione in ogni pagina che leggo.
La questione dello stile mi sta molto a cuore. E tutti gli autori che mi piacciono sono riconoscibili sin dalla prima riga, per una singolarità tutta loro nell’esercizio della loro lingua. Scrivere significa ancorarsi alla propria lingua e alla propria epoca in un modo unico.

CV Philippe Rey, il tuo editore francese, è anche l’editore di Mohamed Mbougar Sarr, Prix Goncourt 2021; e Voland, la casa editrice italiana che ti ha fatto conoscere in Italia con Il lavatoio, pubblica anche Georgi Gospodinov, Premio Strega Europeo 2021 con Cronorifugio. Cosa significa per te lavorare con case editrici di media grandezza e ottima qualità?

SD I successi in quanto tali mi sono indifferenti, onestamente. Ciò di cui invece c’è da andare fieri, e riconoscenti, è il fatto che sia Philippe Rey sia Voland – entrambe case editrici indipendenti – siano dirette da persone (Philippe e Daniela) il cui unico obiettivo è di scoprire e contribuire a far conoscere autori di qualità, la cui forza risiede nella singolarità della loro scrittura. Scelgono gli autori per il loro temperamento letterario, non per il potenziale di vendita in libreria. Per questo, sì, c’è da andar fieri di essere nella loro scuderia. L’anno passato è stato effettivamente molto positivo e incoraggiante per queste case editrici, e ben venga. Ma ricordiamoci che sono realtà su scala umana, formate da team piccoli e compatti, e che necessariamente devono fare scelte esigenti e rigorose.  La conferma della validità delle loro scelte da parte delle giurie dei premi letterari denota un bisogno di tornare a titoli che diano un senso e che situino il romanzo tra i “beni essenziali” per lo sviluppo dell’intelligenza collettiva e il ripristino della bellezza tra i fondamenti dell’esistenza.
Lunga vita, quindi, alle edizioni Voland e Philippe Rey!

CV Cosa ci riserverà Sophie Daull in futuro?

SD Come sai, il 3 marzo esce in Francia il mio quarto romanzo: Ainsi parlait Jules. Si tratta di un testo un po’ scomodo che indaga le nostre menzogne, le piccole scorciatoie, le piccole vigliaccherie, gli accomodamenti a cui veniamo in un mondo in cui le posizioni molto impegnate, radicali, sono mal viste. È divertente, crudele, ma anche pieno di tenerezza per la condizione umana – almeno credo, spero! Niente fiction nemmeno questa volta, lo sfondo rimane autobiografico, ma mi sono divertita molto a far smarrire il lettore in una specie di realtà rivista.
Quest’anno uscirà in Italia anche la traduzione di La sutura, il mio secondo romanzo. L’accoglienza che mi è stata riservata per Il lavatoio mi fa ben sperare anche per questo secondo libro in italiano.
E poi mi piacerebbe tornare ad avere un bel ruolo a teatro. Sono tempi duri, un’attrice ultracinquantenne è spesso disoccupata, bisogna battersi, incontrare gente, essere attivi sui social network, e io sono incapace di fare tutto questo!
Detesto l’idea che ogni artista sia una specie di piccola impresa a sé… E senza passare per una has-been, trovo deplorevole che il talento di un artista, attore o scrittore, si misuri ormai non solo per la sua forza espressiva, ma anche per la sua capacità di vendersi, di rendersi leggibile sul mercato.
Così mi accontento di lavorare ostinatamente, leggere, essere curiosa e dar fiducia alla Vita, accettando tutte le sorprese che regala, siano esse belle o brutte.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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