Mordi e fuggi

Elisabetta Bucciarelli intervista Alessandro Bertante

 

EB. Partiamo dal titolo, “Mordi e fuggi”, con un sottotitolo: “Il romanzo delle BR”. Hai voluto evidenziare che fosse un romanzo o ci tenevi a specificare il tema delle Brigate Rosse?

AB. Entrambe le cose. “Mordi e fuggi” era la citazione del Presidente Mao scritta sul cartello appeso al collo dell’ingegnere Macchiarini durante il suo breve sequestro ed è una delle immagini più iconiche della lotta armata in Italia e forse ne rappresenta anche l’inizio. Ma oggi è uno slogan poco conosciuto, specie fra i giovani, e il sottotitolo serve a fare si che non sorgano equivoci sul contenuto. Mi piaceva però anche sottolineare la natura romanzesca del libro, per scartare ogni ipotesi saggistica o memorialistica.

Hai deciso di raccontare il mito fondativo delle BR, qual è il motivo? C’è forse qualcosa di eroico che nella ricostruzione di quegli anni si è perso?

Il romanzo nasce da una domanda: perché un ventenne all’inizio degli anni Settanta decide di aderire alla lotta armata? Quali sono le motivazioni politiche e sociali che lo spingono a una scelta così radicale e pericolosa. Una scelta che condizionerà la sua vita per sempre.

Furono in molti a farlo e – a parte la vastissima pubblicistica dedicata al Sessantotto – che tratta l’eversione armata in modo episodico, non esiste una vera narrazione italiana degli anni piombo. Come se ci fosse una sorta di censura preventiva, un pudore impronunciabile. Eppure, la storia delle BR è unica nel mondo occidentale, sia per quantità di militanti che per ambizioni e durata della lotta armata. E, certo, presenta degli evidenti aspetti mitopoietici. Le BR nascono in fabbrica e nei quartieri, dove si proclamano come rappresentanti e difensori della classe operaia, vittima della repressione padronale e poliziesca. Questa è la narrazione dominante delle Brigate Rosse nel 1970.

Dopo la Bomba di Piazza Fontana – che già allora dalla sinistra extraparlamentare veniva considerata una Strage di Stato – e l’assurdo omicidio di Pino Pinelli in questura, diventa chiaro che le forze responsabili della Strategia della tensione (neofascisti, servizi segreti, NATO, alcuni settori delle forze armate) non staranno a guardare e che ogni ipotesi repressiva sarà considerata percorribile, anche quella del colpo di stato militare, peraltro più volte tentato senza successo. La tragedia di Piazza Fontana radicalizza lo scontro e alla fine del 1969 va chiudere nel sangue il biennio di rivendicazioni operaie. I brigatisti, come tanti altri gruppi della sinistra extraparlamentare, si armano e si organizzano clandestinamente.

Nel mito fondativo era già presente la violenza?

Certo e sarebbe ipocrita negarlo. Del resto, le rivoluzioni e le rivolte comuniste della storia sono tutte violente. L’immaginario della guerra di guerriglia è l’immaginario dominante del secondo dopoguerra, basti pensare al mito di Che Guevara, dei Tupamaros o anche di Malcom x.

Curcio diceva che la via pacifica al comunismo era una strada lastricata da migliaia di compagni morti. Che poi le Brigate Rosse nei primi anni Settanta non abbiamo sparato un colpo di pistola è altrettanto vero ma l’azione violenta era rivendicata come componente principale della lotta politica in chiave rivoluzionaria.

Tutto sembra succedere a Milano, è così? È ancora così?

Milano è da sempre il laboratorio politico nazionale. Ma quella città adesso sarebbe irriconoscibile, basti pensare che nel quartiere di piazzale Lotto dove appunto avvengono le prime azione delle BR, c’erano tre grandi fabbriche: Sit-Siemens, Alemagna e Alfa Romeo, tutte dentro al perimetro della 90/91, il filobus che a Milano da sempre separa il centro dalla periferia. All’inizio degli anni Settanta la fabbrica in città era una presenza tangibile, gli operai una forza numericamente significativa. Adesso Milano racconta altre storie, molto rassicuranti e progressive. Ma temo che non durerà a lungo, il radicalizzarsi delle differenze sociali e lo sfruttamento di ampi strati della popolazione hanno raggiunto il livello di guardia e non credo che basti il rimbambimento collettivo dei socialnetwork – il vero e unico complotto globale riuscito dell’ultimo decennio – a tenerle a bada.

Persone reali mescolate a personaggi di finzione. Si tratta di un romanzo ma si sente una forte aderenza alle fonti. Come hai lavorato per documentarti?

La storia degli anni Settanta la conosco bene perché mi sono laureato con una tesi sulla stampa underground milanese che poi qualche anno dopo fu pubblicata come saggio, titolato Re Nudo. Correlatore della tesi (Rita Cambria era relatore) fu Giorgio Galli, uno dei massimi esperti di Brigate Rosse in Italia. Purtroppo, Galli è mancato l’anno scorso. Mi spiace molto, lo stimavo e il suo parere per me sarebbe stato importante. Per quanto riguarda invece il ruolo dei brigatisti storici mi sono attenuto ai loro testi autobiografici. Nel romanzo non c’è una parola che loro non abbiamo pronunciato e non sia attestata in altri ambiti verificabili. Mi sembrava corretto agire in questo modo.

Due libri scritti bene sull’argomento?

“Storia del partito armato” di Giorgio Galli e “L’orda d’oro” di Primo Moroni e Nanni Balestrini.

Chi è Alberto Boscolo il protagonista del romanzo?

Alberto Boscolo è un uomo in rivolta, come lo intendeva Albert Camus. Fa parte del Movimento Studentesco ma ne rimane deluso, individuando nei suoi leader dei nemici di classe. Non è nemmeno marxista-leninista, come le BR, ma un piuttosto un ribelle libertario. Dopo la Strage di Piazza Fontana vuole reagire. Alberto è un combattente, si esalta nell’azione armata. Ma questa sua volontà di potenza nasconde enormi fragilità umane che cresceranno nel corso del romanzo.

Nella nota per il lettore specifichi che nessun brigatista del nucleo storico rivelò mai la vera identità di Alberto Boscolo e che non lo farai nemmeno tu. Perché ci tieni a sottolinearlo?

Perché Alberto Boscolo potrebbe esistere. Potrebbe avere un altro nome. Potrebbe essere un professore in pensione, oppure un giornalista. Potrebbe essere chiunque.

Tra i protagonisti veri del tuo romanzo c’è Giangiacomo Feltrinelli. Come lo racconti?

Giangiacomo Feltrinelli, il Comandante Osvaldo, fu il principale sostenitore delle Brigate Rosse dei primi anni, collaborazione interrotta solo dalla sua morte. Una o due volte al mese s’incontrava con Curcio nelle panchine davanti al Castello Sforzesco. Fornì loro supporto logistico e d’intelligence, insegnò alle BR come fabbricare documenti falsi e come vivere in clandestinità.

Che adesso l‘omonima casa editrice e la bella fondazione a lui dedicata tendano a sottolineare più l’aspetto culturale della sua vita mi sembra anche comprensibile ma Giangiacomo Feltrinelli era soprattutto un combattente rivoluzionario. Ed è morto da tale.

Renato (Curcio) e Margherita/Mara (Cagol) com’è stato frequentarli nelle pagine del romanzo?

Con molto rispetto e cautela. Specie nei confronti di Mara, della quale non avevo nessuna notizia biografica proveniente dalla sua voce, in quanto morta poco tempo dopo gli anni nei quali è ambientato il romanzo, ovvero dall’inverno del 1969 alla primavera del 1972.

Franceschini recentemente racconta di quando furono ideati il nome e il simbolo delle BR, riesce a scherzarci sopra dicendo che forse avrebbero potuto chiedere i diritti d’autore. Quali riferimenti c’erano nel nome e nel disegno?

Non c’è dubbio che il nome e il simbolo delle Brigate Rosse ebbero un impatto decisivo nella loro affermazione come principale gruppo rivoluzionario clandestino. Brigate Rosse è un nome immediato e memorabile, nato dalla sintesi di Brigate Garibaldi (partigiani comunisti) e Volante Rossa. Infatti, come spiegato nel romanzo, nacquero inizialmente come Brigata Rossa, al singolare.

Il simbolo poi è molto simile a quello dei Tupamaros uruguaiani ma l’intuizione di rinchiudere la stella a cinque punte nel cerchio fu proprio di Franceschini, come del resto di usare una moneta da cento lire per disegnarla. Chiunque poteva avere in tasca una moneta da cento lire.

Anita e Bianca, due belle figure femminili e due donne importanti nella vita di Alberto Boscolo. Erano così le donne brigatiste?

Ma Anita e Bianca non fanno parte delle Brigate Rosse, anzi tentano in momenti diversi di convincere Alberto a non entrarci. Sono due giovani donne comuniste molto emancipate e consapevoli, nel romanzo rappresentano la coscienza del protagonista, fondamentali nel suo percorso politico.

 “(…) Giovanni Boscolo, il quadro dell’Alfa Romeo, un colletto bianco ma, a detta di tutti i suoi colleghi, uno di quelli che sapeva parlare con gli operai e che ne condivideva in parte le rivendicazioni. Di norma sono i nemici più pericolosi.” Chi è il padre di Alberto Boscolo e cosa rappresenta?

Il padre rappresenta la generazione che ha ricostruito l’Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma è anche tutti i padri, da uccidere metaforicamente per poter costruire qualcosa di nuovo.

Recentemente in una quinta liceo classico ho avuto la netta sensazione che pochissimi fossero a conoscenza del periodo delle BR, soprattutto nessuno della differenza tra lotta armata e terrorismo. Puoi fare chiarezza pensando di rivolgerti a un pubblico giovane?

La lotta armata è l’azione combattente rivoluzionaria rivendicata consapevolmente da chi la compie. Il terrorismo è l’interpretazione negativa di questa azione armata da parte di chi la subisce, ovvero lo Stato o il capitalismo o chi vi pare a voi. Anche i gruppi jihadisti islamici non si definiscono terroristi ma combattenti.

 

Perché un lettore o una lettrice giovane dovrebbe appassionarsi alla storia che hai raccontato?

Perché non la conosce e racconta di un Italia molto diversa da quella di oggi, più conflittuale, violenta ma forse anche più romantica, nel senso letterario del termine. Un’Italia nella quale però già si potevano intuire i cambiamenti economici, sociali e culturali che, a cominciare dagli anni Ottanta, ci hanno portato all’attuale situazione.

Cosa hai capito tu di quegli anni e cosa pensi sia rimasto in eredità?

Difficile fare una valutazione storica definitiva, forse è necessario ancora un po’ di tempo. Ma credo che la grande volontà di cambiamento sociale e le istanze rivoluzionarie armate che a essa seguirono, si basassero su un presupposto di partenza sbagliato. In Italia non c’erano le condizioni economico sociali per una rivoluzione comunista. E poi c’è stata la Strategia della tensione.

Ma questa è una storia ancora più complessa.

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Alessandro Bertante, Mordi e fuggi. il romanzo delle BR,
Baldini+Castoldi, 208 pagine, 2022

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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