La poesia di Oodgeroo Noonuccal in traduzione
Nel 2021 è uscita My people. La mia gente, prima traduzione italiana, con testo a fronte, della poeta indigena australiana Oodgeroo Noonuccal, per le cure di Margherita Zanoletti (Mimesis). Il termine «cura» va qui oltre la classica accezione editoriale; il volume è infatti corredato da uno scritto di Alexis Wright e da una ricca e cristallina introduzione di Zanoletti, divisa in tre momenti: una parte iniziale dedicata alla figura dell’autrice, artista, educatrice ed attivista per i diritti dei popoli indigeni; una panoramica sulla sua opera; un saggio traduttologico. Si tratta di un paratesto fondamentale, che fornisce contesto, chiavi di lettura e spunti necessari all’immersione nell’universo costituito dall’opera di Oodgeroo.
La poesia è uno strumento scelto ad hoc dall’autrice; cito dall’introduzione di Zanoletti, che sull’opera di Oodgeroo ha pubblicato numerosi contributi:
[…] perché proprio la poesia? La scelta, spiegherà a più riprese la stessa scrittrice, è legata all’interesse e alla sensibilità da parte degli aborigeni per il canto. La cultura degli aborigeni australiani ha infatti le sue radici nel tjukurrpa, nella traduzione inglese “dreamtime” e “dreaming”, cioè risale al tempo in cui degli esseri ancestrali attraversarono la terra lasciando segni nella forma di colline, ruscelli, caverne e altre formazioni topografiche. Da sempre per gli aborigeni, la terra era segnata da un intrecciarsi di canti, un labirinto di percorsi visibili soltanto ai loro occhi che mappavano le impronte degli antenati, creatori del mondo e delle leggi che lo regolano.
Si tratta di una poesia che deve veicolare un messaggio, raccontare la storia di un popolo, e dunque essere accessibile. Scrive ancora la curatrice:
tutti i testi contenuti in My People sono in inglese. Oodgeroo si serve, simbolicamente e pragmaticamente, della lingua dei colonizzatori per trascrivere e tramandare storie, esperienze e immagini legate al mondo aborigeno, e in tal modo, dando voce alla sua gente, dichiara ed esprime la sua identità di “half-caste”, indigena ed europeizzata. Impiegando una strategia retorica solo apparentemente semplice, ma in realtà complessa ed enigmatica, sul filo dell’ambiguità, l’appropriazione dell’inglese consente all’autrice di “colonizzare” un pubblico ampio, internazionale e universale, traslando diamesicamente (dal formato orale alla lingua scritta) e interlinguisticamente (dalle lingue aborigene all’inglese) le coordinate di un mondo umiliato e distrutto, che sta cambiando o scomparendo. E per quanto parziale rispetto a una tradizione culturale millenaria, orale e per molti versi segreta, tale lavoro di traduzione e spostamento rende i segni in questione fruibili a tutti coloro che intendono impegnarsi a interpretare e comprendere. Entro questo orizzonte contaminato e stratificato, Oodgeroo evoca la trasformazione in atto scrivendo sì in inglese, ma seminando qua e là una serie di parole di origine indigena: si tratta, come vedremo più approfonditamente nella terza parte di questo contributo, di riferimenti lessicali e talvolta sintattici al logos aborigeno, alla mitologia e alla cosmogonia, onomastici e toponomastici che ribaltano il concetto stesso di alterità, tra-ducendo il lettore in un mondo altro, di difficile comprensione ma di sicuro impatto emotivo.
È a questo scopo che, al termine del volume, figura un glossario concepito per chiarire il significato di termini e riferimenti culturali presenti nei testi. Strumento importante dell’approccio traduttivo straniante, foreignizing, il glossario, come scrive Yasmina Melaouah in un interessante articolo dedicato alla traduzione che Sergio Atzeni ha fatto di Texaco di Chamoiseau, è anche
un bell’indizio in fondo a una traduzione: significa che il traduttore non ha imbrogliato il lettore, non gli ha spacciato per leggibile un testo difficile, non gli ha nascosto le perdite né ha reso invisibile la distanza dall’Altro.
Lo ha invece lasciato fare un viaggio difficile, gli ha regalato la fatica insieme con la meraviglia, ma per quel viaggio come viatico e bussola gli lascia un glossario, proprio come hanno i viaggiatori solitari nello zaino per cavarsela nei paesi lontani (Melaouah 2015).
L’ultima parte dell’introduzione di Zanoletti restituisce una testimonianza del proprio lavoro traduttivo:
L’analisi testuale proposta in questa sezione mostrerà, dietro le quinte, le principali problematicità affrontate dal traduttore italiano a fronte di questa commistione tra mondo anglosassone e mondo aborigeno, invitando a riflettere sulla pratica della traduzione come processo intersistemico che ricontestualizza, intermedia e trasmette il patrimonio culturale, l’intento politico e la dimensione emotiva inerenti all’originale, in modo creativo. Oodgeroo si rivolge infatti a un pubblico ampio e variegato; la sua è una poesia popolare, di protesta, che non si addice esclusivamente a intellettuali, accademici e specialisti, ma al contrario, dà voce a e comunica in primis con i ceti più bassi, con i segmenti emarginati e calpestati: con gli esclusi, i senza voce della società. Una traduzione italiana che voglia tenere conto di questo aspetto non potrà che tentare di rendere presente il contesto di fruizione del testo originale, preservandone le peculiarità e ricreando un approccio comunicativo il più vicino possibile a quello di partenza.
Pubblico sei poesie tratte dal volume, all’interno del quale sono incluse anche alcune traduzioni ad opera di Francesca Di Blasio (ornella tajani).
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di Oodgeroo Noonuccal
traduzione di Margherita Zanoletti
ASSALITA DAI RUMORI
Qualcosa di osceno nei rumori
Delle cose create dall’uomo offende la dolcezza e la limpidezza
Della Natura.
L’urlo duro dei venti,
Mai senza armonia, mai volgare, che squassa gli alberi,
Lo stridio dei gabbiani – questi
Hanno il loro posto nel mondo
Così come il canto arioso dello scricciolo.
Solo l’uomo, dicono i libri, conosce il bene e il male;
Come l’arte di oggi lo strillare e urlare
Di musica uscita dall’inferno,
Musica fatta malefica, con urli e strilli
Quando i dj si scatenano con scoppi e squilli.
Lasciatemi i suoni fatti da Dio —
Tutti bellissimi per me
Forti o delicati,
Dalla piccola, sottile
Nota di violino dell’ape
Al frastuono del mare turbolento,
Tumultuoso ruzzolando sulla riva.
NON È IL MIO STILE
Non è il mio stile?
Uomo! Il mondo finirà
E tu ti lamenti.
Io voglio fare
Le cose che non ho fatto.
Non solo assaggiare il nettare degli Dei
Ma affogarci dentro.
Perdere la mia pelle di protesta.
Emergere!
Come donna!
poeta!
scrittrice!
musicista!
Assaggiare spezie;
Masticare erba;
Suicidarmi;
Vivere.
Ingozzarmi
Di amaro e di dolce,
Prima che
arrivi
quella cosa,
quella cosa,
lì fuori.
IL BIANCO, IL NERO
(trad. F. Di Blasio)
Il bianco
Aborigeno, noi
Ti abbiamo portato
La nostra sociologia,
E ti abbiamo insegnato
La nostra bianca democrazia.
Il nero
Uomo bianco, che
Vuoi insegnarci e domarci,
Noi avevamo socialismo
Molto prima che tu arrivassi,
E anche democrazia.
Il bianco
Povero nero,
Tutto quel che tu abbia mai avuto
È lo spirito ancestrale Biami*,
Insieme al grande, temibile
Bunyip* col suo muggito!
Il nero
Compagno bianco, è vero
Tu avevi ben altro a nutrire il tuo orgoglio:
Avevi Gesù Cristo,
Ma lo hai messo in croce,
E continui a farlo.
EUCALIPTO MUNICIPALE
Eucalipto nella strada di città,
Duro bitume intorno ai tuoi piedi,
Staresti meglio
Nel mondo fresco di rigogliose sale di boscaglie
E richiami di uccelli.
Qui mi sembri
Come quel povero cavallo da tiro
Castrato, domato, una cosa violata,
Imbrigliato e sellato, il suo inferno prolungato,
Il capo chino e il passo spossato esprimono
La sua disperazione.
Eucalipto municipale, mi fa pena
Vederti così
Piantato nella tua erba nera di bitume –
O concittadino,
Cosa ci hanno fatto?
ALLORA E ORA
Nei miei sogni sento la mia tribù
Ridere mentre caccia e nuota,
Ma i sogni sono distrutti da auto in corsa,
Tram sferraglianti e treni fischianti,
E non vedo più la mia vecchia tribù
Mentre cammino sola nel tumulto della città.
Ho visto corroboree*
Dove quella fabbrica erutta fumo;
Dove hanno eretto un parco alla memoria
Un tempo lubra* scavavano in cerca di igname;
Un tempo i nostri bambini scuri giocavano
Là dove ora ci sono i binari,
E dove io ricordo il didgeridoo*
Ci chiamava a danzare e giocare,
Uffici ora, luci al neon ora,
Ora banche e negozi e pubblicità,
Traffici e commerci della frenetica città.
Non più woomera*, non più boomerang*,
Non più celebrazioni, non più la vita di un tempo,
Eravamo figli della natura allora,
Niente sveglie per gente che corre al lavoro.
Ora sono civilizzata e lavoro come i bianchi,
Ora ho il vestito, ora ho le scarpe:
“Com’è fortunata ad avere un buon posto!”
Meglio quando avevo solo una dillybag*.
Meglio quando non avevo altro che la felicità.
IL PASSATO
Nessuno dica che il passato è morto.
Il passato è tutto intorno e dentro di noi.
Ossessionata da memorie tribali, so che
Questo breve ora, questo presente incidentale
Non è tutto di me, che la mia lunga formazione
In gran parte appartiene al passato.
Stasera qui in Periferia mentre siedo
In poltrona davanti alla stufa elettrica,
Riscaldata dal suo rosso bagliore, precipito nel sogno:
Sono lontana
Accanto al fuoco nella boscaglia, tra
La mia gente, seduta per terra.
Niente muri intorno a me,
Le stelle sopra di me,
Intorno gli alberi alti si muovono
E suonano nel vento.
I tenui gridi della notte giungono a noi, là
Dove siamo una cosa sola con le creature della Natura
Conosciute e sconosciute,
In luoghi a cui apparteniamo ma che abbiamo abbandonato.
Poltrone e caloriferi elettrici
Esistono da ieri.
Ma mille migliaia di fuochi nella foresta
Sono nel mio sangue.
Nessuno venga a dirmi che il passato se n’è andato.
Questo adesso è solo un pezzetto di tempo, un pezzetto
Di tutti gli anni di lotta che mi hanno plasmata.
I commenti a questo post sono chiusi
Testi notevoli, in parte stanno in una nostalgia tradizionale, nella celebrazione della memoria, ma sono ancora più interessanti per il cortocircuito con la modernità, il contingente in rapporto al tempo profondo, le trasmutazioni dell’identità. Bello!