Scivolare
di Claudio Kulesko
I.
Non vi è modo di collocare certi avvenimenti in un sistema ordinato e razionale. Benché meno i loro nebulosi precursori: scariche di intuizione brucianti o, all’inverso, algide stalattiti, che si conficcano come pugnali nelle nostre menti.
A ben vedere, tra tutti gli eventi che costellano la vita umana, ben di rado accade qualcosa di davvero inatteso. L’esistenza umana, così come la vita in generale, appaiono, a un occhio lucido e analitico, sotto forma di lunghe catene causali. Serie compatte e lineari, dalle quali si diramano rare e tuttavia evidenti deviazioni. Sparute isole di caos, che irrompono convulse dal continuum che fa loro da substrato.
In egual modo, in certi momenti, immagini e pensieri intrusivi irrompono dagli abissi dell’animo umano, fendendo la placida, piatta superficie del pensiero logico. Forse vestigia di una mente primitiva, risalenti a uno stadio embrionale della coscienza umana o, addirittura, a oscure fasi precoscienti.
Il buio. Denso. Viscoso come una coltre di fango. Ci vollero alcuni secondi affinché gli occhi accogliessero i tenui raggi lunari che filtravano tra gli oscuranti. La stanza d’albergo era immersa nel silenzio e la montagna stessa pareva contenere ogni cosa in un gelido abbraccio la cui morsa, nella mia mente offuscata, pareva gettar radici fin nel reame del sonno. Un abbraccio materno, a suo modo, ma in un senso remoto e inusuale, precluso alla mente di un mammifero sociale, allevato al seno di una madre amorevole.
A poco a poco, battendo le palpebre, come per scacciare gli ultimi residui del mondo onirico, mi lasciai alle spalle quel feretro geologico.
Per prima cosa, tentai di riportare alla mente l’incubo che mi aveva strappato al sonno. Non vi riuscii. Mentre vagavo con lo sguardo dal soffitto alla finestra e, da quest’ultima, alla porta spalancata sul corridoio, un pensiero mi strisciò dentro.
Con l’occhio della mente, vidi la porta che dava sulle scale dell’albergo schiudersi adagio, senza che alcuna mano ne abbassasse e spingesse la maniglia. Senza che chicchessia facesse capolino dalla soglia, per invadere l’angusto appartamento.
Raggelai. Ma, per qualche istante, mi crogiolai in quell’immagine, con la stessa, macabra passione che induce i bambini a interrogarsi sulla natura dei loro terrori notturni. Poi, con la magnanimità che si è soliti riservare unicamente a sé stessi, mi interruppi e mi girai sul fianco.
Mentre chiudevo gli occhi e nella mente già si affollavano aspettative per il giorno seguente, un cigolio lieve e prolungato si levò dal corridoio.
Balzai fuori dal letto, senza neppure premurarmi di reperire un’arma o un qualche oggetto contundente. Sapevo già cosa avrei trovato.
In fondo al corridoio, tra il bagno e la vecchia cappelliera, la porta spalancata si affacciava sulle scale dell’albergo.
Mi sporsi, esitante, oltre la soglia. Informate della mia presenza dai sensori di movimento, le luci del pianerottolo sfarfallarono e avvamparono, con uno schiocco. Null’altro che il torpore della notte, e il silenzio.
II.
Al mattino, dopo aver trovato la finestra del bagno aperta, ricostruii la vicenda da un punto di vista razionale. La spiegazione non poteva che essere una e una soltanto: la sera prima, al mio rientro, dovevo aver dimenticato di chiudere a chiave la porta. Senza dubbio, mentre mi perdevo nelle mie assurde fantasticherie, un colpo di vento era trapelato dalla finestra del bagno, producendo un vuoto d’aria tra le fenditure della porta, facendola aprire.
Un’ora più tardi ricevetti ulteriore conferma della correttezza della mia ipotesi. Dinanzi all’albergo, un paio di arbusti in vaso giacevano riversi sull’asfalto, di certo scaraventati a terra dal vento.
Trascorsi la giornata esplorando i boschi nei dintorni del borgo. Verso tarda sera, notando dei dépliant che sponsorizzavano escursioni notturne, ebbi l’idea di avventurarmi in solitaria lungo un sentiero più semplice, al tramonto, così da avere maggiori probabilità di avvistare animali selvatici. In un negozio di articoli casalinghi mi procurai una torcia e delle batterie di ricambio. Consumai una cena frugale e guidai fino all’imbocco del sentiero.
Quando iniziai a camminare il sole stava già calando al di là delle vette, donando alla valle un ultimo sprazzo di luce.
Dalla direzione opposta alla mia, giungeva una coppia di anziani di ritorno da una passeggiata. Deviai dal percorso così da evitarli e mi imbattei in una mandria di cavalli che pascolava pigra al lato del sentiero. Prima di rimettermi in cammino mi soffermai a vezzeggiare un puledro color crema; la madre, di quando in quando, mi lanciava occhiate timorose.
Il sentiero proseguì dritto per una buona mezz’ora, finché la pendenza non prese a incrementare, costringendo la strada a serpeggiare tutt’attorno alla montagna, inerpicandosi tra rocce color gesso.
Quando il sentiero tornò pianeggiante, avevo già percorso diversi chilometri e il sole era già quasi scomparso all’orizzonte, lasciando il passo a cupe nubi temporalesche.
Di certo non avevo scelto la serata migliore. E, tuttavia, ora, seppur adombrata dalle nubi, la vallata si estendeva sotto di me in tutta la sua magnificenza. Non un’abitazione, non un essere umano in vista.
Contemplai il panorama a lungo prima di avvertire l’urgenza di mettere mano alla torcia. Mi misi a frugare nello zaino e fu allora che lo vidi. In un primo istante, indistinguibile da un albero dalla chioma spoglia. Poi, sempre più evidente nelle sue fattezze animali.
Immobile, a meno di venticinque metri di distanza, il grande cervo nobile mi scrutava da un’altura ai piedi del bosco. Lo sguardo fisso e attento. Le zampe sottili come radici. Gli alti palchi di corna, simili a rami fossilizzati da quelle stesse ere che avevano dato forma alla montagna.
Rimasi immobile a mia volta. Non saprei dire per quanto i nostri sguardi rimasero allacciati, come quelli di due lottatori pronti a scontrarsi. D’un tratto, il cervo emise un profondo barrito e si impennò, volgendo verso il bosco e scomparendo tra la vegetazione. Per diversi minuti ancora, continuò ad emettere quel verso lamentoso, venato di rabbia e angoscia.
Ebbi la chiara sensazione di essere un ospite sgradito. L’impressione di aver violato qualcosa, pur non sapendo cosa. Accesi la torcia e tornai indietro, discendendo a piccoli passi il sentiero pietroso.
Più o meno a metà del percorso, la luce della torcia si imbatté in uno stuolo di punti luminosi sospesi a mezz’aria e poco sopra il terreno. Trasalii mentre le sagome dei cavalli, che dovevano aver risalito il sentiero poco dopo di me, emergevano dal buio.
Passai di nuovo in mezzo del branco ma stavolta fui accolto da nitriti e furenti battiti di zoccoli sul selciato, come se qualcosa, in me, li terrorizzasse.
Affrettai il passo e, in pochi minuti, giunsi al tratto iniziale del sentiero, laddove il percorso tornava a farsi tenero e pianeggiante. In quel momento, alla mia destra, avvertii uno sguardo. Con uno scatto, volsi la torcia verso il fianco della montagna, e, di nuovo, scorsi quei puntini luminosi. Ripensai al cervo. Forse aveva voluto scortarmi fino al margine estremo del suo territorio. Ma mi accorsi che quegli occhi volteggiavano a pochi centimetri dal suolo. Pensai allora a un cavallo rimasto indietro, intento a ruminare lungo il pendio.
Subito, quasi mi avessero letto nel pensiero, gli occhi scomparvero, per poi riapparire, con un movimento leggiadro, addirittura sinuoso, qualche metro più in là.
Frugai il buio con la torcia, tentando di mettere a fuoco la sagoma della creatura, ma non vi riuscii, quasi quell’essere fosse fatto di un’opaca massa di tenebra condensata.
Gli occhi baluginarono, scomparvero ancora e riapparvero, tre volte più lontano.
Puntai la torcia dritto sul versante ed essi scomparvero ancora una volta, per non riapparire più, come se la montagna stessa li avesse ritratti nel suo corpo inorganico.
III.
Quella notte sognai una grande casa. Una villa, forse un casale in rovina.
Mi aggiravo tra le stanze abbandonate e velate di polvere. Qualcosa ‒ non saprei dire cosa ‒ qualcosa era lì con me, in ogni stanza. Invisibile. Intangibile. Immateriale.
Tutto quel che sapevo è che dovevo scegliere una stanza nella quale trascorrere la notte. Tuttavia, già percorrendo i lunghi corridoi costellati di porte, appariva evidente che l’esito della scelta non avrebbe fatto alcuna differenza. Misteriose sfere di luce fendevano l’aria, come lucciole smarrite, e ogni cosa, pur essendo prigioniera di una surreale forma di stasi assoluta, pareva vibrare di una tenue forma di senzienza.
Passo dopo passo, le porte si moltiplicavano, tentandomi con eleganti salottini e lussuose camere da letto.
Stanze sempre uguali, replicate all’infinito, al dettaglio o con minime variazioni, come se la casa stessa fosse una sorta di organismo in grado di espandersi e contrarsi, al pari di un immenso e famelico bivalve.
Al calar del sole, stanco di vagare senza meta, mi risolsi a occupare un’ampia stanza, dotata di quattro letti singoli.
Ancor prima di avere il tempo di occupare uno dei letti, un grosso orologio da tavolo si levò da una cassettiera e iniziò a volteggiare in aria. Subito, come obbedendo a intense forze magnetiche, ciascuno degli oggetti presenti nella stanza lo seguì, librandosi in volo e vorticando.
Al centro del gorgo, con chissà quale senso interiore, potevo percepire la cosa, quella presenza, la sua bramosia, la sua violenza illimitata.
Mi svegliai ancora una volta nel mio letto d’albergo. Gli occhi sbarrati nel buio. In vigile attesa del flebile cigolio della porta.
IV
Quando ancora frequentavo l’università, avevo un amico, un compagno di corso. Fu lui a introdurmi al pensiero del metafisico norvegese P.W. Zapffe.
L’intera opera di Zapffe possiede il raro pregio di ruotare attorno a una semplice constatazione: l’autocoscienza umana ‒ ciò che distingue la nostra specie da tutte le altre ‒ non sarebbe altro che un “organo” ipertrofico e dannoso, tanto per noi stessi, quanto per le altre specie animali e vegetali. Qualcosa di abissale e allucinatorio, che ci costringe a realizzare la sofferenza insita nell’universo e, al tempo stesso, a negarla in nome dell’inarrestabile marcia della vita organica e dell’istinto riproduttivo che ne costituisce la chiave di volta.
Per queste stesse ragioni, la nostra specie dovrebbe autoeliminarsi, smettere di riprodursi e svanire per sempre dalla faccia della terra, lasciando che la natura proceda libera e indisturbata il proprio corso.
Nei primi mesi dell’ultimo anno di università, verso novembre, poco prima di iniziare la stesura della tesi, il mio amico si tolse la vita.
Fu la sua coinquilina a trovarlo. Giaceva sul letto, viola in volto. Le mani rigide, ancora serrate attorno alla gola. Il sacchetto di plastica assicurato al collo da diversi elastici, stretti al punto da far trapelare una sottile collana di sangue.
Da quel giorno smisi di frequentare quasi tutti i miei amici e conoscenti. Abbandonai l’università e mi rinchiusi in casa, dedicando il resto delle mie giornate alla scrittura e allo studio delle scienze naturali. Non scrissi mai neppure il primo paragrafo della mia tesi.
Chissà perché, mentre il sonno tornava a invadermi, mi tornò in mente il mio amico. Immaginai i suoi ultimi istanti. Immaginai di essere al suo posto. Il sacchetto di plastica trasparente avvolto attorno alla testa, come un sudario.
V
Quella notte la porta non si aprì.
Mi svegliai di buon’ora, la mente appena intorpidita da un sottile velo di stanchezza, e guidai fino al bosco più vicino: una folta faggeta di mia conoscenza.
Il cielo plumbeo doveva aver intimorito i turisti, giacché trovai il parcheggio ‒ un semplice spiazzo erboso ‒ insolitamente vuoto, né incontrai anima viva per tutta la prima ora di cammino.
La volta arborea e il sottobosco parevano appesi a un filo, quasi il tempo si fosse fermato. Morti e silenti. Mi arrestai e tesi l’orecchio. Non un filo di vento, non uno scricchiolio. E, tuttavia, l’intero paesaggio sembrava sul punto di sussultare ed erompere in un ruggito, come un predatore immobile tra la vegetazione.
Proseguii, guardandomi attorno sempre più spesso. Nervoso. Il cuore in gola. Il rumore dei miei stessi passi sul fogliame risuonava alle mie orecchie cacofonico e insostenibile.
Intanto la cappa di nubi avanzava, sovrastando la montagna, sprofondandola in una penombra tale da far quasi credere che fosse sera.
Man mano che l’oscurità ammantava il bosco, fui invaso dal ricordo di quegli occhi luminosi che mi avevano spiato nel buio.
Con la scusa di impiegarlo a mo’ di sostegno, colsi da terra un ramo secco e affrettai il passo.
Subito mi sentii addosso una miriade di sguardi, come se la foresta stessa mi stesse osservando, seguendo ogni mio minimo movimento, in paziente attesa del momento adatto per richiudersi su di me.
D’un tratto udii un fruscio alle mie spalle. Ruotai su me stesso, ebbro di terrore, il bastone alzato dinanzi al volto.
Una macchia color mogano, alta quasi quanto un cavallo, eruppe dal folto del bosco, al galoppo. Goffa, pesante. L’orso si voltò appena a guardarmi, prima di svanire giù per il pendio, tra la macchia.
Rimasi come pietrificato. Il respiro affannoso, le gambe tremanti. I cespugli stormirono ancora e alte, maestose corna ramificate emersero dalla boscaglia, seguite da un muso lungo e affilato, dominato da un piccolo occhio rotondo dalla pupilla orizzontale.
Il cervo barcollò sul sentiero, zoppicando.
Mi ci volle qualche secondo per accorgermi dello squarcio sul fianco dell’animale. Un grosso lembo di pelle e carne strappate, grondante sangue, così profondo da lasciar intravedere le ossa.
Il cervo arrancò ancora per qualche passo. La bocca semiaperta. Lo sguardo afflitto, da condannato a morte. Con un tonfo crollò sul selciato, bagnando la nuda roccia del proprio sangue.
Fu come se fossi stato colpito da un fulmine. Incapace di parlare, di articolare un pensiero più complesso del mantra che mi ribolliva in testa ‒ “Fuggi. Fuggi. Fuggi.” ‒ emisi un gemito strozzato e mi voltai dall’altra parte, quasi rifiutandomi di osservare la scena.
Il bastone mi sfuggì di mano nell’istante in cui iniziai a correre alla cieca, inciampando tra le rocce e le radici.
Proseguii a perdifiato per qualche minuto, o forse solo per una manciata di secondi, finché non fu il sentiero stesso a interrompere la mia corsa. Slittai sull’acciottolato e caddi faccia in avanti. Un dolore acuto, ma reso tenue dall’adrenalina, mi trafisse il volto.
Avvertivo qualcosa di umido e caldo scorrermi sulle guance, mi tirai su con le braccia, passandomi una mano sul volto la ritrovai sporca di sangue. Sangue. Rosso intenso, sulle mani, sulle maniche della giacca a vento, sulla superficie candida e irregolare del sentiero.
Dal cielo iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia. Prima poche, distanti le une dalle altre, poi sempre più forti, sempre più veloci, finché l’intera montagna non fu pervasa da un rombo sommesso e costante.
Rimasi a guardare il mio sangue colare a terra per poi scomparire, lavato via dalla pioggia.
A pochi centimetri dalla mia mano, notai un ammasso nero e arruffato. Posai lo sguardo, ancora annebbiato dall’orrore, su quella cosa. La carcassa di un merlo, resa sporca e contorta dalla decomposizione. Il teschio color ambra riverso su un lato, ripulito e spolpato fino al collo.
Qua e là sul cadavere si agitavano le formiche, indaffarate a smembrare e trasportare quel che ne rimaneva. E anche adesso che gli insetti fuggivano alla rinfusa dalla pioggia, riuscivo a scorgere le loro mandibole aprirsi e chiudersi sul torace divelto.
Distolsi lo sguardo, risalendo verso il cranio dell’animale. Disgustato e al tempo stesso affascinato. E mentre mi perdevo tra le linee morbide e aerodinamiche del cranio e del becco, meravigliandomi della perfezione minerale di quelle valli e insenature, una creatura tozza e sgraziata fece capolino dall’orbita cava, come vomitata da quel vuoto mistico. Uno scarabeo.
Un groppo mi si formò in gola. Scoppiai in una risata isterica, sovrastando il ronzio della pioggia che mi ruggiva addosso e tutt’attorno. Piombai sul dorso e rimasi a fissare il cielo grigio senza mai smettere di ridere, inondando le valli di grida acute. E più ridevo, più il mondo pareva liquefarsi e confondersi nell’indistinto, simile alla pioggia.
Allungai un braccio verso il cielo. Al suo posto vidi un flusso tremolante, a malapena distinguibile dal paesaggio, come se ogni dimensione fosse collassata su uno sfondo di piatta e vorticante cera calda.
Provai a muoverlo ancora, ma non vi fu verso di spostarlo di un millimetro.
Di colpo, il mio corpo smise di appartenermi. Alieno e remotissimo, come tutto il resto.
Ma da qualche parte, al di là del gorgo, simile a uno spettro, la mia mente fluttuava ancora, paralizzata dal terrore, in disperata attesa dei soccorsi.
L’ultima cosa che sentii prima di svenire, fu l’improvvisa sensazione che mi mancasse l’aria. La netta impressione, anzi, la certezza, che una morsa implacabile si stesse serrando attorno alla testa, fin sulla pelle. Fredda e inorganica. Impenetrabile. Come un sacchetto di plastica.
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Claudio Kulesko è traduttore e ricercatore indipendente. Si occupa per lo più di pessimismo filosofico, realismo speculativo e filosofia contemporanea. Per Nero Edizioni ha tradotto Tra le ceneri di questo pianeta (2019) e Rassegnazione infinita (2021), di Eugene Thacker. È tra gli autori di Demonologia rivoluzionaria (2020).