L’io, il Covid e l’esperienza della terapia intensiva. Su “Zero virgola io” di Luca Pietromarchi
Una nota su Luca Pietromarchi, ‘Zero virgola io. Prose brevi dalla terapia intensiva’ (Roma, Viella, 2021).
di Paolo Rigo
«È stretta anche la porta che conduce alla morte» (23). La formulazione nasce dall’esperienza diretta, certo, ma appartiene anche alla letteratura, alla sua lunga tradizione, e da lì è divenuta una sorta di insegnamento secolare: Victor Hugo, per esempio, una volta descritte le terribili pene provate da Jean Valjean nei giorni della sua tragica prigionia, non poteva non constatare che la vita non finisce quando lo desiderano la mente o il cuore dell’uomo. No, non basta la volontà a fermare la misteriosa macchina che anima l’esistenza biologica dell’apparato umano. Esso, corpo, strumento, sistema autonomo e automa, resiste inconsapevolmente alle avversità, e, a volte, può addirittura svelarsi più forte di quello che si credeva. Esso combatte contro le ferite di qualunque tipo; e dei conseguenti dolori, incontrollabili, può ambire a divenire traccia e testimonianza: «È la mia pelle, è il marchio del Covid, come un tatuaggio che, anche se destinato a sparire, ha le sue cose da dire e da ricordare» (43). Il corpo ha le «sue cose da dire», scrive Luca Pietromarchi in Zero virgola io, nel racconto autobiografico, frutto e testimonianza della degenza della sua malattia. Il racconto della degenza, della patologia, delle infermità non è una novità nella tradizione letteraria italiana; ma al pamphlet va accordato un merito: si tratta di una delle prime narrazioni in prosa della pandemia, una delle prime scritture dedicate al Covid, un’originale memoria fisiologica (e non) dell’affezione. Zero virgola io è la testimonianza della precarietà umana, della vacuità dell’esistenza che, riprendendo la nozione di Pathosformel di warburghiana memoria, può far sovvenire alla mente del lettore l’esperienza dannunziana del Notturno: ai foglietti del vate si sostituiscono ora le «prose semi-oniriche» di Pietromarchi, «scritte di notte sul cellulare» e «destinate» dapprima ai «famigliari» (15-16), poi rese pubbliche con il nobile scopo di ringraziare il personale ospedaliero che seguì l’autore nella guarigione. Credo, però, che sia ugualmente lecito ricordare come l’obiettivo di qualsivoglia narratore, davanti a un mondo parzialmente sordo al dolore di questa pandemia, sia pure quello di testimoniare (ed esso è il primo compito sociale della scrittura) una verità, la verità dell’emergenza. La scrittura è testimonianza di ogni aspetto, anche di quelli più miseri, più delicati e quotidiani perché la malattia è tanto umiliazione dell’io, quanto nuova consuetudine, essa è l’«occasione di ricucitura, ovvero di riconciliazione» (p. 31). E Pietromarchi, fedele a questo assunto, sceglie di raccontare tutto: se asciutta è la descrizione degli «occhialetti, ovvero il tubicino che serve ad immettere ossigeno nei polmoni attraverso il naso» (p. 12) ed è parimenti delicata la constatazione della ripresa delle forze (p. 25: «Mi sono messo in piedi un momento con l’aiuto dell’infermiere. Sarà lunga recuperare. Speriamo da domani»), una breve prosa, quasi mistica, è dedicata al Pappagallo, l’oggetto forse più misero della convalescenza. Un brano in cui l’atto fisiologico assurge a una dimensione inaspettata, funebre e consolatoria. Svuotata delle sue facoltà primigenie, l’ampolla in questione è presto riconosciuta come urna (p. 26: «come un’urna, ma nella quale non hai ormai più alcuna lacrima da versare…»). La retorica dell’autore ricorre spesso a metafore e immagini, talvolta di gusto classico. Tale piano semantico è evidente nella drammatizzazione della lotta interiore tra malattia e cure: contro la febbre «sempre più insistente e tenace», «la tachipirina», come in una pugna spiritualis, «lanciava i suoi inutili strali» (p. 11). La dimensione simbolica della narrazione si snoda in altri momenti: l’addetto all’igienizzazione che, quasi timido, «sbuca in stanza», riecheggia l’incontro tra Venerdì e Robinson Crusoe («È lui, è Venerdì, e io sono davvero Robinson, approdato dopo un naufragio sull’isola della salvezza», p. 29). Ancora: ecco che il processo di sanificazione successivo al trasferimento da un reparto all’altro dell’ospedale è teso verso un’esplosione semasiologica di un linguaggio strappato dal mondo stavolta conosciuto e naturale (la doppia immagine di p. 13, dove «l’annaffiatore» di disinfettante «è simile ad una di quelle pompe a spruzzo che servono a dare il verderame agli olivi» e inoltre «al turibolo che incensa il percorso di una processione»). Perfino il piano della riflessione filosofica pertiene a fondamenta e vestigia del passato. La fortuna non ha più solo un nome, dice Pietromarchi, ma dietro la maschera della dea bizzarra e cieca se ne nasconde un altro; prende piede così la lezione dei classici, di Cicerone, di Seneca e di altri via via più moderni, come Agostino, Petrarca, Flaubert, Goethe, Foscolo o Manzoni per esempio, e così la fortuna benigna, come lo fu per questi autori, è riconosciuta quale «grazia» (p. 24). L’implacabile crescita dei contagi, l’avventura del singolo, l’everyman, la salvezza, la speranza, la delusione, ogni aspetto della vita umana è parte di un fato incomprensibile (ma cos’è il fato se non un nome come ci ha insegnato un millennio fa la dura voce di Girolamo? «Nemo putet sub hoc verbo vel fatum vel fortunam introduci quod hi sint virgines quibus a Deo datum sit aut quos quidam ad hoc casus adduxerit, sed his datum est qui petierunt, qui voluerunt»).
Sembrerebbe mancare nel libro la quotidianità di chi non ha avuto un contatto grave e diretto con il Covid-19: o, meglio, se perfino l’urinare diviene cerimonia luttuosa e consolatoria assieme, come detto, è anche vero che la pratica del tampone, a cui l’autore ha dovuto sottoporsi settimanalmente data la sua professione di docente universitario, è da subito associata alle funzioni proprie di «un rito» (p. 9). Un rito parte di un’abitudinarietà che ci ha sconvolto tutti (chi più, chi meno), e che nel suo contrappunto sardonico echeggiò, fatte le dovute proporzioni, la società logica e burocratica immortalata da Solženicyn: tutti in attesa di una chiamata, di un gesto, del risultato del test molecolare, di un soggiorno obbligato o di un lockdown.
Di quella normalità, di quando il virus si propagò su scala mondiale, ricordo che, chiuso nella mia casa, dove scontavo la quarantena e passavo i giorni a vivere su carta la vita che ci era stata negata dal Covid-19, nemico tanto terribile quanto comune, mi ritrovai, sospinto dalla curiosità, a immaginarmi impegnato nella lettura delle future narrazioni di quel pezzo di Storia così lontana dall’individualità propria dell’eroe. Una narrazione immediata, ma del tutto visiva, avvenne già il 27 marzo 2020 su Robinson di «Repubblica», dove importanti artisti e disegnatori parteciparono all’iniziativa Una matita ci salverà: le loro illustrazioni avevano lo scopo di raccontare quei giorni così strani. Anche il cinema, la televisione, le fiction e altri media visivi non hanno tardato a rispondere all’appello. E la letteratura? La letteratura non ha reagito subito. Forse, il distinguo è insito nella fenomenologia propria dell’arte, nel suo carattere introverso, intimo, riflessivo (Segre attribuiva proprio a questa caratteristica il ritardo nello sviluppo della prosa volgare nel Duecento) e ruminante, formato anche da altro oltre al segno dell’inchiostro, dall’apprendimento e dalla lettura. Perché la lettura è il primo ingranaggio invisibile del meccanismo-scrittura. Così funziona la manducation de la parole, così come l’ha definita Marcel Jousse, processo che può sfociare in un nuovo significato. Questo aspetto è vivo nel libro di Luca Pietromarchi, dove la durissima esperienza biologica si mischia con il vissuto della sua anima, disegnando un cerchio che, non a caso, si apre e si chiude su La Certosa di Parma, il testo prediletto, reinterpreto alla luce della patologia. Se il romanzo era stato scelto per passare i giorni dell’ospedalizzazione, esso diviene presto il simbolo privilegiato – tramite Fabrizio Del Dongo, il protagonista del libro di Stendhal – del modus in cui l’io narrante ha vissuto l’esperienza tanto dolorosa e grave:
Cosa ti porta in ospedale? la sfortuna, la forza delle cose, la corrente del destino. Forza e corrente che qui si materializzano nel turbine di medici e infermieri che si affollano attorno, e a cui, dentro, corrisponde l’invisibile mulinare di corpi e anticorpi, di virus e antibiotici. Che fare? Due opzioni. Reagire, vigilare, ascoltare, protestare, cercare di capire il come, il quando, il perché. Opzione nervosa e faticosa, rispetto alla seconda. Che consiste invece nel lasciarsi andare, affidarsi alla corrente, e alle mani di chi ti cura, pensare ad altro che non sia ciò che occupa il presente e che ammala il corpo (55-56).
La scrittura con il suo atteggiamento riflessivo è testimonianza, sfogo, rassicurazione, ma anche il risultato del confronto con la propria coscienza e con le proprie conoscenze non sempre (o non solo) letterarie: lo attesta l’allusione al film di Jaco Van Dormael, Dio esiste e vive a Bruxelles (a p. 50: «Pronto Dio? che tempo fa a Bruxelles?»; e questo è forse un ottimo esempio delle ragioni del “ritardo” fenomenologico della letteratura: se il fiore è comunque riconoscibile dal miele, il processo di trasformazione è pur sempre lento). Nel libello di Pietromarchi i vari piani si mischiano: la memoria può correre indietro e giungere sino agli incontri dell’infanzia. Così una “scatola d’emergenza”, mascherata da confezione di biscotti danesi – ed ecco affiorare il moderno palinsesto della madeleine di Proust –, riempita di «ciò che poteva servire a salvare uno dei loro in pericolo» (p. 36), risveglia nell’io la memoria, diminuisce l’oblio (anche quello della paura che «non ha scadenza», p. 36), e colma la lontananza. Quest’ultima non è solo temporale ma pure spaziale: se è solo in una certa misura assente il tenero ricordo della nonna di Proust (una mancanza parziale perché, come Proust, anche Pietromarchi, «crede nell’unità della famiglia» che percepisce «come una struttura matriarcale», p. 24), ecco che, in Zero virgola io, prende corpo il fantasma di una zia che non si credeva più parte della propria esistenza. La tragicità della degenza ha colmato il tempo e annullato lo spazio. Magia della letteratura il cui primo insegnamento è che la vita non ha confini e può essere riconosciuta alla pari di una risibile allegoria. Il mondo si può vedere con altri occhi (visiorespiciendi) e i suoi personaggi si muovono e parlano e interagiscono nelle fitte maglie del sogno. Così il corvo ladro di parmigiano, protagonista indiscusso di una delle prose del libro, colto con il suo bottino in bocca, non è soltanto uno spettro di quello di La Fontaine e di Esopo, ma qualcosa di più. Si noterà, per giunta, che entrambi gli autori sono già citati a pp. 22-23, dove l’uno riprende l’altro in un gioco di ammiccamento al lettore accorto che sa bene come nella versione dello scrittore francese la guerra dei topi, a cui fa riferimento Pietromarchi, non è condotta verso i gatti, come avviene per il collega antico, ma contro le donnole (storia IV 6 delle Favole). Come che sia, il corvo di Zero virgola io è un visitatore che ha imparato dalle humanae litterae e che se parla lo fa con la saggezza del lettore esperto. Il volatile di Pietromarchi, che nasconde un non-so-che di quello drammaticissimo di Edgar Allan Poe, ha imparato dalla sua esperienza. Forse non è sbagliato concludere con il riconoscere che tutti da questo libricino, così sensibile e delicato, abbiamo molto da imparare; e lo abbiamo soprattutto in questi giorni di serrato dialogo, quando la pandemia sembra meno spaventosa, ma, nonostante ciò, l’ostinatezza di chi non ha riconosciuto o non vuole riconoscere il dramma umano e sociale pesa, ogni giorno di più, come un macigno.