Da “solchi”
di Jacopo Mecca
Qualcosa di impreciso ci ferma
lungo il ritorno a casa.
Una scritta sul muro che ieri non c’era,
due che si stanno urtando più in là
o i resti di un cestino, rivoltato forse
alla ricerca di scarti di cibo. Tutto è già lì
prima di noi, ma solo ora morde lo stomaco
come un crampo che non accenna a diminuire.
Ammettiamolo allora che esitiamo
nell’ultimo passo che ci manca
quello che pretende una scelta
e che sappiamo essere già da ora
il più breve e difficile.
***
Sono passate due ombre fragili di fronte
a questa finestra, più lunghe sul muro.
Di qua, qualcosa esita e ripete
di stanza in stanza la pausa di chi resta
tra un respiro corto
e i rumori del legno che si assesta per le scale.
Qui, qui è lontano se tu non ci sei.
E dico questo tra me che muto
parlo dentro di me, con voce
non mia, voce sola quasi di un altro
se esce da questa gola dura e secca.
E intanto immobile provo lo spazio vuoto
tra le pareti e le parole. Provo.
Ma qui ora è lontano e difficile da dire.
***
Se di là da questo muro qualcuno batte
oltre l’intercapedine vuota – venti centimetri
appena di ragne tese e nero – che separa due case
schiena contro schiena
e che amplifica il rumore nei tremori
dell’intonaco e dei mestoli appesi in cucina,
non è lì lo spazio minimo del male.
Ma più vicino. Lo senti? Si muove.
Spinge forse nel secchio dell’umido,
negli odori gonfi e molli
tra i nostri avanzi e altri sprechi
dove fermentano pasto dopo pasto
sul fondo di buste in plastica
le croste del formaggio e i vermi, o nei lembi
di un’idea infetta che frettolosi
per impulso o prudenza rigettiamo
per paura di noi stessi.
***
Non serve chiedersi quando ci sia finita
in questo spazio cieco lungo il fianco
del letto e la parete, sul fondo
di questa faglia che ha per fine il pavimento,
non serve chiedersi come ci sia finita una forcina.
È forse un segno breve di te
uno spessore minimo caduto per caso
ora che non è ancora una mattina d’estate
tra i resti persistenti dello schifo
di tutti i giorni che non dà odore:
carcasse di insetti, polvere, capelli.
Una tua forcina come la prima freccia
negli inizi d’un assalto.
***
Come in certi quadri sullo sfondo o agli angoli.
È lì che accadono per davvero le cose.
Lì la storia trascina la sua coda
caduta quasi come un ostacolo per uomini
distanti che non se ne accorgono e vanno
– così anche gli adolescenti
allegri che intravedi per strada
ora che è estate – vanno leggeri
dentro il paesaggio e appena dietro
le spalle dei santi. Volti sgranati
che vorrei provare a raggiungere
o forse riuscire a chiamare
anche solo per una volta fratelli.
Ma no, non è davvero così.
Lo so io e lo sai anche tu. Noi
non abbiamo un passato da testimoniare
solo frammenti di frammenti di altri.
***
Jacopo Mecca è nato nel 1992 a Torino, dove vive. Sue poesie sono apparse su “Atelier” e “Poetarum Silva”. È presente nell’antologia Abitare la parola. Poeti nati negli anni Novanta (Ladolfi, 2019).
solchi è la sua opera prima.
Che eleganza. Un giorno si faranno antologie sulla scoperta (poetica) del pulviscolo e dell’immondizia. Il minuscolo e il rifiutato, un luogo da cui elaborare con più silenzio che nella – dlin-dlon, ecco a voi – ‘Natura’? Con meno egemonia tra i piedi? Comunque, molto belli questi testi, bravo.