SÀDEQ HEDÀYAT: una civetta cieca

Sàdeq Hedàyat a Parigi
[Teheran, 17 febbraio 1903 – Parigi, 4 aprile 1951]

di Luca Vidotto

Il profumo mediorientale che avvolge le lettere che compongono il nome di Sàdeq Hedàyat, come denso incenso ci trasporta verso terre distanti, aspre e acuminate; le terre in cui lui ha saputo essere un “ladro di fuoco” 1, e quindi poeta, cantore dell’esistenza. È un Prometeo incatenato alla sua disfatta, desideroso di essa, felice di sentire l’appuntito becco dell’aquila divorargli il fegato – quella sacca putrida imbevuta di tutti i veleni giallo-verdi del corpo – e divorarglielo ancora, e ancora, e ancora… Hedayat “si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza” 2. Ed eccolo il suo magro corpo, vizioso, gettarsi dentro di sé in “un universo pieno di misteri, che mi sentivo obbligato a esplorare in ogni suo anfratto” 3. Ed eccolo donarsi all’ebbrezza del vino 4 e dell’oppio, nudo pasto che non lascia nulla se non la falsa nostalgia dell’oblio in cui ci si era appena immersi. Ma in questo nulla inspessito da altro nulla, magicamente trabocca il distillato di una verità, la cui eco dalla notte dei tempi attraversa i deserti mediorientali, ascoltata da qualche carovana di passaggio, dalle stelle immote e dal muto silenzio. La voce è quella di Qohélet, di Colui-che-prende-la-parola.

Ho veduto tutte le cose
Le cose che si fanno sotto al sole
Ed ecco tutto è vuoto niente
E una fame di vento 5

Brucia gli occhi attingere quest’arida verità dalle viscere della terra, e scoprire che “da migliaia di anni la gente ripete le stesse cose, le stesse azioni, trovandosi dinnanzi alle stesse angosce” 6. È tutto un continuo gettarsi granelli di sabbia rovente nelle pupille. È un continuo riassaporare la polvere che siamo stati, che siamo e che saremo. “Ineffabile tortura in cui [l’uomo, il poeta] ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale fra tutti diviene il grande infermo, il grande maledetto, — ed il Sapiente supremo! — Perché egli giunge all’ignoto!” 7.
Hedayat ci narra questa storia dando voce a un io perverso che si rivolge alla sua ombra 8 e che prende le sembianze di una civetta cieca – nella cultura persiana simbolo di sventura, di mala sorte, di un che di maligno. Il luogo in cui si raccoglie questa storia è un libro smisurato, antico, una sorta di Mille e una notte avariato: all’origine di entrambi questi racconti, infatti, “c’è il tradimento. L’eros femminile – il possente, astuto e demoniaco eros femminile, che preferisce gli schiavi negri e i garzoni […] agli alti, luminosi sovrani – beffa il potere. Il potere si vendica, uccidendo le donne” 9. Ma se l’astuzia di Shahrazād le fa trovare la salvezza dalla morte nell’atto stesso del raccontare – perché è la stessa narrazione che la vita a ognuno di noi, in quanto è l’unico gesto che ci è consentito per donare senso al caos in cui siamo gettati -, per Sàdeq questo non è che un vano rimandare la propria fine, un gesto tanto insensato da essere costretto a durare quanto un battito di ciglia, quanto l’illusione di credere a una smascherata falsità, quanto il consumarsi di una manciata di parole gettate al vento, perché, alla fine, i “racconti sono solo un modo per sfuggire ai sogni disattesi, ai desideri che non si sono realizzati” 10.
Le sue centotrenta pagine sono saturate dal mistero d’iniquità: non è forse vero che è Satana 11, il maligno, ad aver scalfito la nostra fortuna tentandoci con i frutti dell’albero della conoscenza? Viene da chiedersi perché Adamo ed Eva non gli hanno preferito l’albero della vita… “È che la tentazione dell’immortalità è meno forte di quella del sapere, e soprattutto del potere” 12, avrebbe risposto un’altra civetta cieca, con le sue belle piume grigio fumo. E Sàdeq disprezza l’una e soccombe all’altro 13.

Se non ero ancora entrato in sintonia col mondo in cui vivevo, a che mi avrebbe giovato un’altra vita? M’ero persuaso che questo mondo non fosse per me, ma solo per un gruppo di gente senza pudore, gli sfrontati, i mendicanti, i venditori di apparenze, esseri vili e avidi. Questo mondo era stato creato per chi ci sapeva stare, gente capace di adulare i potenti della terra e del cielo come cani affamati che mendicano davanti alla macelleria per uno scarto di carne. No, il pensiero di un’altra vita era terribile e snervante […] e se avessi dovuto sopportare una seconda vita mi sarei augurato di avere solo pensieri e sentimenti obnubilati. 14

Solo l’incoscienza salva. Solo la fitta nebbia dell’anima rende sopportabili questi spazi infiniti saturati dal dolore 15, non a caso è stato scolpito nella roccia, come monito eterno, che

Gravarsi di conoscere
Fa traboccare il dolore 16

Conoscere è portare il proprio corpo a meditare sul crinale acuminato dell’orrore. È un tener fermo lo sguardo in esso, e in esso consumarsi. “Nella vita ci sono malanni che come lebbra, nella solitudine, lentamente mordono l’anima fino a scarnificarla”, ci dice Hedayat, e l’unico rimedio “è l’oblio dato dal vino, o la sonnolenza provocata dall’oppio e droghe simili: purtroppo, però, essi procurano effetti solo temporanei, e la pena, anziché scomparire, dopo qualche tempo si palesa ancor più inesorabile” 17 e ci costringe a dare l’ennesimo morso al frutto dell’albero della conoscenza, e a riaprire gli occhi, in un vedere che equivale ad accecarsi, a tornare esuli, a riscoprirsi disperati 18.
La voce qohéletica non appartiene alla sua cultura, eppure, nonostante il suo suono abiti le mura consonantiche dell’ebraico antico e sia uno dei sigilli della Torah, in comune hanno una cosa fondamentale: la terra, l’heimat, il maqòm in cui si radica, infatti “l’Islam è nato nel deserto e per il deserto. Non ama gli alberi, non ama le foreste. La sua anima nomade non accetta impacci di tronchi, cerca la pietra e il vuoto e il secco” 19. Il persiano Sàdeq lo sa bene, e infatti disprezza i religiosi quando non sono che “creature avide di beni terreni e carnali, capaci solo di emanare, in nome della fede, leggi inique e crudeli” 20, e ripudia la religione, così attenta alla sfera pubblica in cui si impernia il successo e il fanatismo, a favore del ben più ragionevole invito buddista a scavare dentro di sé, a conoscersi, a scrutare il proprio animo. Ma l’invito non è pacificante, perché l’abisso del proprio animo conserva tutta l’eredità dell’uomo, tutti i suoi vizi, tutte le sue bassezze.

“La battaglia tra corvi e civette” dall'”Anvār-e soheylī”
di Ḥoseyn Wāʿeẓ-e Kāshefī [1504–05]

In questo libro si incarna il precetto buddista in base al quale “per colui che vede nulla resta” 21, ma questa civetta cieca rimane incapace di incarnare a sua volta il concetto del non-attaccamento, così Hedayat rimane incatenato all’illusione del suo io, quell’io narrante la cui ombra ricalcherà perfettamente il profilo del Sàdeq reale in carne e ossa, di quello stesso corpo magro, isolato e triste, tormentosamente perseguitato dall’ossessione della morte 22, che a quarantott’anni abbandonerà, esangue, sulle strade di Parigi. Un suicida, sì. Perché, dopotutto, il suicidio è il solo “problema filosoficamente serio […]. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale” 23. La risposta negativa di Hedayat nella vita reale è preceduta nel racconto dal turbinio di immagini che ci fa scendere miseramente nell’infernale cono d’ombra del protagonista, in cui è terribilmente solo e spaesato 24, e da cui fuoriescono solo poche immagini, che si stratificano l’una sull’altra, rimbombando di viso in viso, di situazione di situazione, di parete in parete, fino a farci scontrare con una realtà morbosa e irreale, fino a farci ingurgitare ogni goccia della sua follia..
Di fronte all’immagine corrucciata e incrostata di sudore di quell’odioso io che ha deciso di vomitare la sua bile sulle nostre guance che crediamo immacolate, sembra quasi di poter sentire nel riflesso della sua mente le parole di una altro pazzo, condannato alla ripetizione e all’ecolalia a causa dell’ostinata sordità della società. Siamo pronti alla faciloneria del disprezzo, della derisione e della finta pietà, di fronte alla carne del suicida, siamo pronti a tacciarlo di pazzia, di pazzia, sì, nonostante viviamo.

in un mondo in cui si mangia ogni giorno vagina cotta in salsa verde o sesso di neonato flagellato e aizzato alla rabbia, colto così com’è all’uscita del sesso materno. […] Ed è così, per quanto delirante possa sembrare tale affermazione, che la vita presente si mantiene nella sua vecchia atmosfera di stupro, anarchia, disordine, delirio. […] Le cose vanno male perché la coscienza malata ha un interesse capitale in quest’epoca a non venir fuori dalla propria malattia 25.

E in questo folle libro risuona un’unico messaggio sempre nuovo e sempre identico a se stesso: “Solo la morte non mente! […] è lei che ci libera dagli inganni della vita” 26. Ma a questa verità non si arriva secondo un ragionamento coerente, un inanellarsi di motivazioni o seguendo una qualche via conoscibile, perché segue un andamento simile a quello del Corano, il quale “non obbedisce ad una struttura logica: non segna un percorso continuo e rettilineo. Esso è vagabondo, erratico, labirintico” 27, come labirintico è il deserto che si pone a fondamento della cultura mediorientale, in cui non si discerne un avanti e un dietro e “non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo” 28. Questo libro, così intimo da essere sacro, infatti, come il santo Corano “procede a onde, a balzi: avanza, si ritrae, si sposta, si contraddice, ritorna, arretra, accumula […] Tutto vi è frattura, intermittenza, abisso, formula apocalittica. Oppure […] si ripete e torna a ripetersi” 29.
La civetta cieca “come Le mille e una notte è un libro che non esiste. Oppure è un libro soggetto a infinite incarnazioni e metamorfosi, come una nuvola in cielo” 30 e prende, più precisamente, la forma e l’incarnato di ognuno dei suoi lettori, ipocriti o disillusi, cioè di ognuno di noi, che come un’ombra, “fuggenti, sbigottiti, passiamo” 31 attraverso il deserto che la vita stessa è: una terra di sogni, di allucinazioni e di inganni 32.

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NOTE
  1. A. Rimbaud,  Opere in versi e in prosa, trad. it. di M. Guglielminetti, Garzanti, Milano, 2004, p. 535.
  2. Ivi, p. 534.
  3. S. Hedayat, La civetta cieca, trad. it. di A. Vanzan, Carbonio, Milano, 2020, p. 76.
  4. “Da quando la Luna e i Pianeti comparvero in cielo | Nessuno vide mai cosa più dolce di purissimo Vino. | Pien di stupore son io pei venditori di vino, ché quelli | Che cosa mai posson comprare migliore di quel ch’han venduto?”. [O. Khayyâm, Quartine, trad. it. di A. Bausani, Einaudi, Torino, 2016, p. 28.]
  5. Qo 1, 14 (trad. it. di G. Ceronetti, Adelphi, Milano, 2013, p. 149.) Ispirati ai versi qohéletici, con l’aggiunta di una chiusa che apre alla speranza di una misteriosa luce, sono quelli del poeta persiano Omar Khayyâm: “Poi che null’altro che vacuo vento ci resta d’ogni cosa ch’esiste, | Poi che difetto e sconfitta colgono al fine ogni cosa, | Considera bene: ogni cosa che è, è in realtà nulla; | Medita bene: ogni cosa ch’è nulla, è in realtà tutto”. [O. Khayyâm, Quartine, cit., p.13.]
  6. S. Hedayat, La civetta cieca, cit., p. 74.
  7. A. Rimbaud,  Opere in versi e in prosa, cit., p. 534.
  8. “Scrivo unicamente per la mia ombra, che si allunga sul muro seguendo la luce della lampada: è a lei che mi devo presentare”. [S. Hedayat, La civetta cieca, cit., p. 15.]
  9. P. Citati,  La luce della notte, Mondadori, Milano, 1996, p. 219.
  10. S. Hedayat, La civetta cieca, cit., p. 74
  11. “Visto come un grande Vivente – alla Bruno o alla Spinoza – il Mondo è puro e grande Satana – è il Satana, il Nemico. Un punto nello spazio consacrato ciclicamente al Male. Ma dov’è, nel resto dello spazio, il Bene?” [G. Ceronetti, La fragilità del pensare. Antologia filosofica personale, BUR, Milano, 2000, p. 274.]
  12. E. Cioran, Quaderni. 1957-1972, trad. it. di T. Turolla, Adelphi, Milano, 2001, p. 49
  13. “Dappoi che il tutto dell’uomo, in questo desolato deserto, | Non è che dolore e dolore, fin che l’anima strappino al corpo, | Beato colui che presto partì via dal mondo, | Felice quello che mai nel mondo non venne”. [O. Khayyâm, Quartine, cit., p. 51.]
  14. S. HEDAYAT, La civetta cieca, cit., p. 105.
  15. “Non trae fuor dalla terra nessun fiore, il Destino | Che poi non lo franga e lo sfogli e lo consegni alla terra. | E se la nube traesse al seno, com’acqua, la terra | Fino alla fine del mondo non pioverebbe che sangue”. [O. Khayyâm, Quartine, cit., p. 32.]
  16. Qo 1, 18  [trad. it. di G. Ceronetti, Adelphi, Milano, 2013, p. 30.]
  17. Hedayat, La civetta cieca, cit., p. 13
  18. “«…ma Elohim sa che il giorno in cui ne mangerete, vi si apriranno gli occhi…». Vi si apriranno gli occhi! È tutto il dramma della conoscenza. Il paradiso: guardare senza capire. L’unica condizione alla quale la vita sarebbe tollerabile”. [E. Cioran, Quaderni. 1957-1972, cit., p. 49.]
  19. G. Ceronetti, La fragilità del pensare. Antologia filosofica personale, cit., p. 160.
  20. S. Hedayat, La civetta cieca, cit., p. 9.
  21. E. Cioran, Quaderni. 1957-1972, cit., p. 143
  22. “La morte mormorava quietamente la sua canzone, come un balbuziente costretto a ripetere due volte ogni parola, e che, appena giunto alla fine di un verso, debba ricominciare da capo. Il canto della morte mi penetrava la carne come il cigolio di una sega che stride e poi, improvvisamente, taceva”. [S. Hedayat, La civetta cieca, cit., p. 128.]
  23. A. Camus, Camus. Premio Nobel 1957, trad. it. di A. Borelli, UTET, Torino, 1965, p. 605.
  24. “Perché chi vive nella tomba perde la cognizione del tempo […]. Per me le attività, i rumori, la vita esteriore degli altri, della gentaglia la cui vita fisica e mentale era fabbricata su un modello uniforme, erano cose strane e prive di significato”. [O. Khayyâm, Quartine, cit., p. 76.]
  25. A. Artaud, Van Gogh. Il suicidato della società, trad. it. di J.-P. Manganaro, Adelphi, Milano, 2017, pp. 13-14.
  26. S. Hedayat, La civetta cieca, cit., p. 106
  27. P. Citati,  Sogni antichi e moderni, Mondadori, Milano, 2016, p. 71
  28. J.L. Borges, L’Aleph, trad. it. di F.T. Montalto, Adelphi, Milano, 1998, p. 111.
  29. P. Citati,  Sogni antichi e moderni, cit., p. 71
  30. P. Citati,  La luce della notte, cit., p. 217.
  31. O. Khayyâm, Quartine, cit., p. 44.
  32. “Non cercare la Gioia: la vita non è che un sol soffio, | Ogni atomo è polvere secca di Kei-Qobâd e di Giàm. | E tutte le cose del mondo, anzi l’intero Universo, | Son fantasia di sogno, illusione d’inganno”. [O. Khayyâm, Quartine, cit., p. 68.]

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,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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