Di quale “cancel culture” si parla in Italia?
di Bruno Montesano e Jacopo Pallagrosi
Negli Stati Uniti, a un anno da Capitol Hill, si continua a parlare di guerra civile. Questa è la dimensione materiale della cosiddetta guerra culturale su politicamente corretto, cancel culture (CC) e Critical Race Theory. Sul New York Times e sui grandi media liberal, si discute di questo. Ci sono posizioni scettiche, come quella di John McWorther – prontamente recensito sui media italiani, senza alzare lo sguardo sulle questioni che mettono in crisi il proprio punto di vista. Ma, in genere, si cerca anche di cogliere il nesso tra razzismo e strutture economiche, come la famosa inchiesta sulla storia delle radici razziali degli Stati Uniti ha mostrato – anche qui destando l’attenzione dei nostri media solo per le critiche che l’inchiesta ha ricevuto, ignorando le bibliografie sterminate che esistono sul capitalismo razziale negli Stati Uniti e altrove. Anche le violenze di piazza e le rivolte vengono discusse in modo critico – ad esempio da Robin D.J. Kelley– e non solo secondo i soliti schematismi a cui i nostri media ci hanno abituato. Le ragioni di chi chiede, oltre al definanziamento, l’abolizione della polizia possono essere lette su giornali mainstream e non solo sulle riviste della sinistra socialista statunitense. Non si può dire che in Italia il livello del dibattito sia lo stesso.
Da Repubblica al Foglio, dal Sole a Micromega e a Linkiesta, non c’è quotidiano, di carta e digitale, che non abbia occupato pagine e pagine sull’annosa vicenda della CC, la cultura della cancellazione, la messa all’indice di pensatori, politici e libri del passato e del presente abbattuti, censurati, dannati ex post. Buona parte dei media italiani denunciano con terrore l’avvento dell’era della suscettibilità. In un loop paradossale, sulla stampa generalista si susseguono opinioni accalorate di chi viene urtato dalla possibilità che le sensibilità di qualcuno vengano a loro volta urtate. Per arginare questa deriva, si dice, bisogna colpire chi mette in pericolo la libertà di dire cose scomode e scorrette, di analizzare le parti peggiori di noi e della nostra società. Bisogna ripubblicare Defoe, Hawthorne, von Kleist e tutti gli autori maschi bianchi prima che gli intersezionali li acciuffino e li mandino al macero, nel “terroristico”, “totalitario” e “neomaoista” attacco portato all’Occidente. Per farlo, ogni mezzo è ammesso, in una santa alleanza che unisce centro liberale, sinistra “illuminista” fiera della tradizione occidentale, ed estrema destra. Apparentemente, il fatto che per resistere alla “cultura della cancellazione” venga dato spazio a voci a dir poco imbarazzanti non scandalizza; si veda l’esempio di Jérôme Delaplanche, ex responsabile artistico di Villa Medici, che sul Foglio scriveva:”La colonizzazione è il movimento naturale della storia. Ora, ed è questa la posta in gioco, il progressismo è riuscito a imporre alle menti occidentali una mutazione paradigmatica cruciale: la forza non è più un valore positivo. Di conseguenza, i concetti di conquista, avventura, potere non sono più compresi e moralmente accettati.” Forse che i liberali preferiscano la nostalgia per l’età degli imperi?
Leggi sulla rivista Gli asini l’intero articolo, appositamente aggiornato e ampliato per Nazione Indiana.
Cari Montesano e Pallagrosi,
scrivete giustamente nella versione “lunga” del vostro pezzo: si “affronta il tema dell’indignazione pubblica verso espressioni lesive della dignità di vari gruppi di persone come se si trattasse di una polarizzazione squisitamente intellettuale, del tutto slegata dalle istanze materiali che questi gruppi sollevano nella società. Come è evidente, la posta in gioco non è solo la libertà d’espressione ma il rapporto tra cultura e società.”
Il punto cruciale è questo. E questo punto è problematico non solo per coloro che sono “impermeabili” alle critiche mosse in nome delle minoranze su di un piano più culturale, ma è problematico anche per coloro che muovono quelle critiche. Il fondamento della questione è sociale: la storia dell’ideologia razzista e del suo combinarsi con sistemi di sfruttamento e dominio, e la difficoltà storica di sradicare e rivoluzionare questi sistemi. Inoltre questa storia ha costantemente avuto ricadute sulla psicologia delle persone, sull’identità dei gruppi sociali. Oggi è come se il piano culturale fosse divenuto il terreno prioritario, sul piano tattico mi verrebbe da dire, di questa lotta per l’uguaglianza e il riconoscimento. Su questo terreno c’è un margine di manovra maggiore e più immediato. E’ chiaro che paesi come l’Italia, ma anche la Francia, amano considerare che questi problemi, in realtà, non sono i loro. Tutta questa faccenda di discriminazioni razziali al limite riguarda la particolare storia degli Stati Uniti, una storia in cui il razzismo veniva ancora combattuto negli anni Sessanta. Per noi il capitolo è stato chiuso con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta del nazismo. Da allora in poi il razzismo è trattato o come un fenomeno aberrante di minoranze politiche o con lo sdoganamento di queste minoranze politiche un mal espresso e mal inteso sentimento d’inquietudine nei confronti dello straniero che minaccia in qualche modo la nostra società. E’ vero, che noi dovremmo essere meno provinciali, e dunque interessarci di meno alle polemiche intorno alla cancel culture, dal momento che c’è tutto un lungo capitolo nella storia del razzismo e del colonialismo che ha riguardato non solo le politiche europee, ma anche la più alta cultura europea, e persino quella che si targava di progressismo. Tutto il capitolo pre-1945 è ancora da trattare (e in molti casi, esso si prolunga ben oltre, come nel caso francese e delle sue colonie nel Dopoguerra).
Di questioni da discutere, invece sulle politiche delle minoranze e della lotta contro il razzismo, ce ne sono comunque di serie. Ne ricordo solo una, in modo ultrarapido. Una politica delle minoranze discriminate per ragioni razziali deve decidere se vuole lottare in nome dell’uguaglianza, o in nome di un’identità differenziale. Nel primo caso, si lotta perché il colore della pelle ad esempio diventi un tratto “banale”, “indifferente”, sul piano dei rapporti sociali – come quello, in una società laica, delle credenze e pratiche religiose; nel secondo caso, si sancisce, ad esempio, che il bianco è insuperabilmente razzista, e che non ci sarà modo di convivere con lui in rapporti sociali egualitari e democratici. In questo caso, la soluzione non puo’ essere che la creazione di società e poi di stati omogenei dal punto di vista etnico o del semplice colore della pelle. Ecco, ci sono questioni da discutere, ma non sono forse quelle, che come i due autori indicano, preoccupano l’attuale mondo giornalistico e culturale italiano.
Sinceramente speravo davvero in qualcosa di più, leggendo ho avuto come la sensazione che gli autori girassero attorno a una premessa che non arrivava mai al cuore della questione. (forse era nei link che non ho aperto?)
Mi sembrava di leggere: “la CC non è quella che immaginate, non avete capito niente. Noi sì che sappiamo cos’è mica quel boomer di Siti”. Be’, ditecelo, no?
(ok, ho banalizzato, ma il fatto stesso che mi sia venuto d’istinto di scrivere un commento banale sta a dire come questo pezzo non mi abbia lasciato addosso niente di davvero conflittuale. Peccato. Menomale che c’è Andrea che è più serio di me).
Sì, ti conviene aprire il link, se ti interessa arrivare oltre la premessa :-)
Helena, forse non mi sono spiegato: il link l’ho aperto e ho letto il pezzo su Gli Asini (altrimenti non si spiegherebbe il mio riferirmi a Siti, citato alla fine del pezzo). Non so, forse lo rileggerò, se trovo il tempo. Così, a prima lettura, ho trovato girasse a vuoto.
Innanzi tutto è positivo che di questi problemi si parli su nazioneindiana, che è nata per affrontare questioni del genere. In secondo luogo a me nella cultura della cancellazione quello che spaventa non è il settarismo che è tipico di tutti i movimenti: quanti autori negli anni 70 da noi venivano definiti di destra semplicemente perché non erano allineati a una certa retorica o magari lo erano effettivamente, ma comunque scrivevano cose interessanti? Quello che spaventa è l’ascolto che ottiene nelle strutture del potere accademico, non è che negli anni settanta se un professore era contestato alla Statale o alla Sapienza, il rettore lo cacciava. Questo non ha a che fare con la politica o la cultura, ma con il principio commerciale evidentemente vigente anche alle università private americane che il cliente ha sempre ragione, il che non è solo agghiacciante, ma è un sistema che una piccola burocrazia che sappia giocare bene con queste emozioni può utilizzare per far carriera ed emarginare qualsiasi idea eterodossa. Inoltre questo problema è amplificato dal fatto che negli Stati Uniti le discipline umanistiche spesso non hanno un campo di studio preciso e criteri metodologici minimi condivisi. Nella vicenda di Peter Boghossian mi ha colpito tanto la sua persecuzione quanto il fatto che lui accademicamente di definisca uno specialistica di metodo socratico, cosa a cui non saprei dare uno statuto epistemologico preciso.
Posso tornare all’America del Nord dov’è iniziata questa cosa?
Tre informazioni, che mi pare non abbiano avuto il giusto peso:
1. Nel 2017, la pubblicazione di un articolo sui diritti delle persone ‘transrazza’ sulla rivista “Hypatia” ha visto un numero di docenti attivi su Facebook alzare una shitstorm contro l’autrice Rebecca Tuvel e chiedere alla redazione di rendere pubblici i nomi dei revisori anonimi che avevano autorizzato la pubblicazione dell’articolo.
2. nel 2019 in Canada il Conseil scolaire Catholique Providence ha censurato libri di Tintin e Asterix perché offendevano i nativi. Come documentato da Radio Canada, durante una riunione al riguardo qualcuno dei presenti si è messo a bruciarli.
3. Gabriel “Fluffy” Iglesias è uno dei tanti comici stand-up americani che hanno dichiarato pubblicamente che non faranno mai più spettacoli nei campus universitari perché si vede continuamente filmato, messo online e messo alla gogna pubblica, prima ancora di avere terminato uno sketch. Sembra una cosa molto frivola e stupida, ma come sapete tutti se c’è qualcosa che hanno in comune tutte le dittature è quella di avercela a morte con gli umoristi.
Il movimento woke somiglia ai vari movimenti degli anni Settanta? Sì e aggiungo “purtroppo”, perché se le modalità di contestazione sono squadriste è facile prevedere una degenerazione violenta. La strada per l’inferno, come diceva il filosofo, è lastricata di buone intenzioni.