Martine Broda, Lacan e il desiderio. Una poesia
di Ornella Tajani
Ce n’est pas la question du moi que pose le lyrisme, mais celle du désir.
Martine Broda
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tintinnio dell’oggetto desiderio
scintillante di perduto
splende il sole splende sopra il vuoto
il paesaggio morto di
Pierre mi hai lasciata nella pietra
(l’inferno è nudo di dolore)
la tua mano mi ha insegnato tutto la tua mano è un deserto
il tuo respiro ha guidato tutto
splende il sole splende sopra l’onta
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tintement de l’objet désir
miroitant du perdu
il fait beau il fait beau sur le manque
le paysage mort de
Pierre tu m’as laissée dans la pierre
(l’enfer est nu de douleur)
ta main m’a tout appris ta main est un désert
ton souffle a tout conduit
il fait beau il fait beau sur la honte
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Gran parte della bellezza di questo componimento sta, io credo, nella litania tragica e infantile del terzo e dell’ultimo verso: «il fait beau il fait beau sur le manque/ il fait beau il fait beau sur la honte»: il terzo verso stabilisce il punto focale, l’ultimo spalanca il desertico orizzonte, dove non c’è che vuoto e vergogna.
Il ritornello doloroso e cantilenante di questi versi mi accompagna da quasi dieci anni: da quando, nel 2012, ho dovuto scegliere due poesie di Martine Broda da tradurre per la Revue Italienne d’études françaises e ho scartato questa che preferivo, perché non riuscivo ad accettare di tradurre quel «manque» con «mancanza», alterando – mi sembrava – l’equilibrio ritmico del componimento. Oggi trovo strano che una soluzione così semplice e lacanianamente intuitiva come quella qui adottata (manque/vuoto) non mi sia venuta in mente, e Lacan è un riferimento teorico importante nella poetica dell’autrice; d’altronde, non ci si stancherà di ripeterlo, la traduzione è anche soggettività traducente, e il pensiero, la maniera di ragionare di un soggetto mutano nel tempo.
Mi sono anche chiesta quanto opportuna potesse essere la scelta di tradurre «manque» con «assenza»: ma credo che sia il vuoto a plasmarsi e modellarsi su un’immagine, producendo il desiderio, quel vuoto che in Lacan rappresenta la “Chose”, laddove l’assenza è sterile, perché presuppone dicotomicamente un’unica possibile presenza. Inoltre il «vuoto» rimanda a qualcosa di esperibile sul piano sensoriale (il «senso di vuoto»), laddove l’assenza denota perlopiù uno stato di fatto. «Je remplis d’un beau nom ce grand espace vide», scrive Broda citando Du Bellay in un bellissimo saggio dal titolo L’amour du nom. Essai sur le lyrisme et la lyrique amoureuse (1997, inedito in italiano).
La poesia di Broda è condensata e sanguinolenta. Versi come «miroitant du perdu» scuotono il terreno delle categorie grammaticali, ed è il motivo per il quale ho lasciato questo frammento il più ellittico possibile, senza sciogliere il participio presente in una relativa, come da prassi traduttiva: quasi come un unico blocco minerale, cangiante ma impossibile da intaccare. A seguire, «le paysage mort de» potrebbe essere uno dei suoi molti versi troncati – un precipizio preposizionale che nasconde una ferita, un’amputazione – oppure completarsi in enjambement con «Pierre», la cui sola lettera maiuscola lascia intendere che si tratta di una persona e non di un’anticipazione della successiva «pierre».
Dopo Pierre, il vuoto, un bianco tipografico: il desiderio che scintilla di ciò che è perduto.
Come scrivevo nella nota di traduzione pubblicata sulla RIEF, la mancanza è al centro della poetica di Broda. Per lei la vera questione della poesia lirica passa attraverso l’invocazione di un «tu» che deve darsi come necessariamente mancante, perché è tale condizione a farsi produttrice di senso, come l’autrice stessa argomenta nel saggio già menzionato. Anche l’incontro – scriveva Michèle Fink nell’articolo Le haut lyrisme de Martine Broda, apparso su Critique nel 2003 – si manifesta solo tramite la sua trasmutazione in perdita. La lirica della mancanza, del vuoto, si rivolge «à la personne aimée, par moi inventée et vraiment fausse», come Broda dice attraverso Pierre Jean Jouve, autore del quale è specialista. Del resto proprio il primo verso di questo componimento, «Il fait beau sur», è ripreso da una poesia di Jouve (tradotta qui da Antonio Sparzani e Andrea Raos): «il fait beau sur les crêtes d’eau de cette terre», e poi «il fait beau sur le plateau désastreux nu et retourné»; versi in cui, come scrive l’autrice, il segmento «il fait beau sur» racconta il movimento di spersonalizzazione del desiderio – motivo ulteriore per non trasformare il «manque» in una più specifica «assenza».
In chiusura è stato quasi inevitabile scegliere il termine “onta”, di certo più ricercato della “honte” francese: ma le due dentali nel finale dei versi quasi gemelli (vuoto/onta) mi sembravano richiamare simmetricamente i bisillabi con suono nasale del testo di partenza (honte/manque), andando a sigillare il componimento.
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Lacan forse c’entra come i cavoli a merenda. Era fuori Broda da tutti gli ismi parigini ma era dentro il nuovo poiein quello inaugurato da Celan e preannunciato dall’infinita, delicata sensibilitá di Kafka. Ebraismo? Ma no semplicemente che il secolo breve e l’accanimento nazista….L’Olocausto, sorta di via di non ritorno.
Carlucci, sarebbe un piacere leggere i suoi commenti, se solo si prendesse la briga di articolare un concetto: le ultime sue righe sono incomprensibili. È impressionismo o solo voglia di parlarsi addosso? Commenta per farsi comprendere o per mero esercizio digitale?
Lacan, come ho scritto, è un riferimento fondamentale di Broda, da lei più volte esplicitato.