Prima di morire
di Fausto Paolo Filograna
“Posso dubitare che questo colore si chiama “blu”? C’è forse solo un ordine per le mie parole, ed è questo. Quando stavo bene vorticavano nella mia testa senza forma. Ora Wittgenstein le ha messe così, o forse sono stato io. Non lo so più. Forse mi sono sbagliato, ma anche i miei errori ora hanno creato un sistema. E se qualcosa è sbagliato, be’.
Stavo terminando di leggere le Ricerche filosofiche quando ci prendemmo la mamma malata e ce la portammo in casa. Come ogni cosa importante furono i sogni ad anticipare questo fatto (o questa frase, non so ancora se fu un fatto o una frase la malattia di mia madre), e a seguirla: i fatti, quelli davvero importanti, si pensano poco o quasi niente; tuttavia li sogniamo di continuo e questa è la decadenza della mia e nostra memoria. Quasi per sbaglio, come si entra sbadatamente nella porta di casa propria senza guardare dentro, come non si fa caso alle chiavi che si tengono in mano (se si inciampa in una frase, in un mobile troppo vicino alla porta che si conosce troppo bene?) la andammo a prendere in macchina io e mia moglie. Come mi guardavano, ora, le Ricerche filosofiche in copertina sbiadita, poggiate sul cruscotto come terzo passeggero… Dovevo apparire ridicolo nella mia camicia sbottonata e sudata, a guardarmi da lì; non più ridicolo di chiunque altro, senz’altro, e poi… ero io quello? Con addosso una camicia di mio padre, per non aprire le valigie ancora chiuse dall’imminente trasloco di me e mia moglie nella nostra nuova casa.
Del viaggio di andata, dottore, non ricordo nulla, se non l’equilibrio dell’auto sulle corsie dell’autostrada. Non ricordo nemmeno chi guidasse, anche se so che ero io (io lo so, dico, senza pensarci ma con una certezza enorme, ma come posso esserne così sicuro, chi mi ha convinto, di chi è che mi sto fidando, Vergine Maria?).
Del viaggio di ritorno invece ricordo solo gli occhi liquidissimi, omerici e stampati di Wittgenstein sulla copertina delle Ricerche che mi guardavano dal cruscotto. Forse scrutavano mia madre sul sedile di dietro, e il suo viso che girato verso sinistra sul finestrino, anche nel moto apparente della macchina sembrava squadrare ogni problema di lato, conscia del fatto che tutto quel movimento e quella velocità non le costava nessuna fatica e non toccava nemmeno a lei mantenerla; e infine il silenzio di Caterina – gli occhi di Wittgenstein, dico, come due biglie in un acquario blu: il viaggio era lungo, e per questo, e per la sua intelligenza suprema e la sua importanza nella tradizione filosofica ecc… speravo che in essi si formulasse un’ipotesi sulla mamma, su chi fosse esattamente quella lì dietro dopo la malattia; eppure in essi non notai nulla, se non un contrasto indicibile con la primavera che faceva gesti di nascere intorno a noi, a due passi eppure così misteriosa nel suo involucro di gelo e fango. Ricordo nulla, in fondo. Nulla. Accucciato tra le mie mani sul volante, ferito e sano, conscio eppure stordito, dormiente e eccitato come un baco; guidavo, e l’essere dentro di me si sentiva come se fosse nella stiva di una nave, dondolato a sua insaputa nel mare calmo della malattia.
Così, giunti a metà di quella che ormai è solo la nebbia della mia geografia interiore, posso solo fare ipotesi sul luogo che attraversavamo, solo per darla a lei come un regalo in questo testo, e farla sentire seduta al centro del mio male, sulla polvere dell’asfalto; ipotesi basate sui terrapieni che nella nebbia facevano da confine dell’autostrada e sparivano come se a divaricarli fosse la nostra auto. Forse in tutto ciò la mamma parlò tutto il tempo, rendendomi tutto ancora più confuso di quanto non sembri, ma a me cosa importa… Il paesaggio attrae tutto, e ad esso si fonde anche il tono generico della gola della mamma a cui non badavo più, ma che ora attraversa le mie orecchie come un lamento troppo cristiano, cordiale, monastico, conventuale, ipocritamente vaticano, ovvero il suono che fanno le malattie quando sono percosse dal vento, una cosa italiana: sì, no, dicevano queste voci, sì e no insieme, nel loro tono falso e anfibio come quello dei giocattoli, fondendosi al suono maschio del carburatore e a quello della radio, che avevo acceso per pensare meglio alla sua nuova natura, mentre la sua voce risaliva i miei timpani come una colonna di formiche la mia verticale fisiologia. Oh Maria Vergine, più parlo della natura e più questa mi si confonde. Più parlo di lei (della mia mamma) e della natura e più queste mi si confondono insieme. È questo che mi angosciava, dottore. La mano della natura mi entrava dagli occhi e mi toccava i neuroni, e dalle orecchie invece mi entrava la mano della mamma e io, fior fiore dell’intelligencija italiana, le sentivo intrecciate nel cranio senza saperle distinguere. Perché due sono le mani, ma una sola è, per ora, la mia testa.
La primavera cresce e si prende la mamma, pensai, attorcigliando il mio pensiero allo sciabordio delle ruote. La natura quasi primaverile che ci sfilava ai lati dell’autostrada. I terrapieni. I fiori dei pioppi predisposti alla diffusione.
Poi quando ci fermammo a lato, forse per un’urgenza, tutto il paesaggio si condensò nella mia mente e si concretizzò sul faccino di una volpe che vidi rintanata sopra un terrapieno, riparata nei cespugli a qualche metro di altezza da noi, scura e distante. Bella era, soprattutto perché non ne avevo mai vista una di giorno ma solo di notte. Avevo già letto che fossero piccole, ma quando lo vidi, be’. Dicevo, era accucciata e rivolta verso uno dei tanti cespugli sul lato destro dell’autostrada, con la schiena alta, arcuata come i denti di una forchetta e il faccino e il muso verso il cespuglio, timida ma al contempo incuriosita da qualcosa. Mentre la guardavo il suo piccolo sistema nervoso analizzava milioni di odori, guardava in un tenue bianco e nero un universo senza colpe, forse una cucciolata di gattini lasciati lì temporaneamente da una gatta randagia, e per lei piccoli e grandi fa differenza solo perché i piccoli sono più semplici, non certo perché sono innocenti, senza peccato, senza disordine. Sicuramente era lì dopo aver fatto qualche saltello, e infatti le sue zampe posteriori, rizzate più delle anteriori, erano ancora tese e esprimevano la danza e lo sforzo dei momenti prima. Solo un attimo, credo, si girò dalla mia parte, e ho visto le ciliegie degli occhi, anche se non ero io a interessarle, né noi della macchinata. Se no, avrebbe visto tre persone in macchina, tre poverini, fermi a lato per la quarta volta, nel bel sole del Norditalia, dottore. Uno sportello che si apre come la porta di un forno. Avrebbe visto una faccia che spunta in basso, non da un cespuglio ma dallo sportello di una macchina. L’avrebbe vista spalancare la bocca – e son sicuro che la bocca la riconoscerebbe perché gli occhi sono occhi dappertutto e significano viso, anima, anche per gli animali – spalancare la bocca e tirare una striscia di vomito in fuori con un piccolo urlo. Uno scoppio di fucile in lontananza. E poi lo sportello che si richiude. E poi la mamma rientrare. Nient’altro, di suo interesse; di ciò avrebbe capito ben poco, se non dei quattro merli, che prima ancora che ripartissimo si fiondarono sulla pozza di vomito lasciato dalla mia mamma, becchettandone i bordi, e iniziando a bisticciare tra loro mentre altri due arrivavano da lontano con lo sguardo appuntito, solleticando il suo interesse ancora in volo. Li vidi nel retrovisore. Il muso della volpe fece una U nel cielo per seguirli, tre o quattro volte quanti erano loro. Finché non dovettero volare via, e la volpe non lo so, che fine ha fatto. Forse il bordo strada era troppo anche per lei. Ciò avviene nel silenzio, nel paesaggio stepposo e verde scuro sopra la congrega degli uccelli, dove la nostra auto aveva impedito alla polvere di depositarsi per qualche momento; e a nulla serve aggiungere adesso il rumore di macchine (anche questo lo so, che c’era, ma come?), lasciamolo così. Senza niente.
Mi chiedo infine se quella piccola volpe avesse guardato la mia mamma, forse. Magari l’avrebbe guardata come si guarda il proprio fratello? Come si guarda l’unico ulteriore animale in un deserto di pietre? Volpe a volpe nella devastazione del mondo, o come i due ladroni in croce ultimi rimasti di questo mondo distrutto. Avrebbe notato quanto di germogliante, di erbaceo, di metabolico e di nutriente stava accadendo dentro di lei da tempo? No ripeto, non c’è dettaglio che ha senso aggiungere. Basta.
Com’è che puzzi di vomito, eh, ma’? Ho detto. Proprio ora che ti portiamo al Nord? È vero che la portavamo verso Nord. A te fa schifo il Nord. A te il Nord fa schifo non perché è il Nord, ma’. A te fa schifo il Nord perché tu vuoi morire a casa come la nonna. E lei poi è non è neanche morta a casa. E il tumore ce l’aveva al pancreas, lei. Altra roba. Altra riabilitazione. Sopravvivenza. Pensavo alla mamma prima, poi adesso. Ancora provo forte colpa, forte colpa per una frase che le dissi sicuramente, perché non l’ho mai dimenticata: anzi, ne ho dimenticato la forma, ma la sostanza era: che c’era tempo per vomitare a casa, quando non disturbava nessuno. Ma tu continui a fare di testa sua. Tu continui a fermare tutto. Se avessi saputo quanto avrei pensato in seguito non le avrei detto così, e se avessi saputo quante cose sporche avrei tenuto nella testa dopo l’avrei cominciata da allora a tenerla pulita, e forse è per questo che sogno spesso di bucarmi il cranio, e mi sa che l’ho bucato ed è da lì che parlo. Credo che, non so se prima o dopo, mi disse di fermarmi ancora perché voleva prendere il suo fazzoletto che era nel cofano. Proprio quello ti serve, eh? Dovetti dirle. Voleva il suo, quello col ricamo a uno degli angoli. Perché devi farmi arrabbiare già prima di arrivare, ma’? Almeno fai in fretta, ho detto. Almeno fai in fretta, ho detto. E ne ho approfittato per riposare il piede della frizione, è vero, l’ho detto a Caterina e lei mi ha detto: riposato? O forse non hai fatto in tempo, forse non c’è stato il tempo? No, certo, chiaro che se ci fosse traffico sarebbe un’altra storia. Ma sembra che siamo soli stamattina.
Pensavo ad Arturo Belano, in macchina nel romanzo di Roberto Bolaño. Lei dottore non lo sa di sicuro, ma neanch’io lo sapevo prima. Arturo Belano attraversava spavaldo il deserto Sonora per ritrovare una poetessa scomparsa, la famosa Cesárea Tinajero, che forse non era mai esistita, chissà, ma forse per questo era da ricostruire, come una funzione della mente che non si è mai avuta, o una lingua o un ponte su un fiume che non si è mai visto o una volpe scorta in una pietraia. La ricostruzione in quell’anima libresca che avevo letto pochi mesi prima, in questo brano, ecco, le faccio vedere dove ce l’ho scritto, sta qui, ecco, che dice con queste parole del suo ultimo viaggio che mi spiegano bene:
E quando fecero il nome di Cesárea io alzai gli occhi e li guardai come se li vedessi attraverso una tenda di garza, garza da ospedale per essere esatti e dissi non mi chiamate signore, chiamatemi, non mi ricordo come mi dovete chiamare
e poi
…E come ci sono donne che vedono il futuro io vedo il passato, vedo il passato del mondo quando non ero morta ma per questo neanche viva, e vedo la schiena di questa donna che si allontana dal mio sogno, e le dico, dove vai, Cesárea? dove vai, Cesárea Tinajero…
Così dal suo fazzoletto la vedevo nel retrovisore, mentre si puliva il naso, trasformata in un reticolo col fazzoletto tutto sulla faccia. A volte mi chiamava senza toglierselo dalla bocca, per poi dirmi niente. Hai chiamato, ma’? No no. E allora sono pazzo. Il mio stomaco è nel profondo di una stiva.
Ora mi chiedo solo: quand’è che hai smesso di accettare qualunque fazzoletto e hai ostinatamente voluto il tuo? Poi lo laviamo, ma’, anche se è il mio, anche se è quello di papà. Macché. Macché. Vuole il suo. A casa vomiterai. Ma quale casa? C’è una casa dove va bene se vomito? Dove si mettono i malati non troppo gravi e non troppo in salute? Il mio fazzoletto perché non voglio che mi si screpoli la pelle, fa ancora freddo mi pare che disse per farmi chiudere i finestrini – e altre cose, disse. Ma no, ma no, che dici, ma’, quale freddo, dissi. Si riparava col fazzoletto.
Qualche uccello lo vedemmo ancora, forse che andava verso la pozza da cui la mamma stava dando da mangiare ai merli. Forse avevamo fatto non più di due chilometri, ma una cosa che c’è, c’è ovunque tu sia. La mamma è un’altra cosa, mi sa. E poi la portammo come una cosa, come quel che rimane di una cosa perché mi pare che c’era altro dentro di lei, c’era qualcosa in qualcuno di cui mi sono accorto solo ora. Forse al termine del viaggio fu solo una donna visibile solo attraverso un fazzoletto per il naso.
Quella sera stette male e a me venne la febbre. Sognai le falene attorno a una luce spenta.