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Avrei voluto essere Candy Candy

(È da poco uscito il secondo volume che raccoglie gli “articoli alimentari” di Tommaso Labranca, raccolti con pazienza da Luca Rossi, editore e amico, che qui ce ne regala uno del 2014 come assaggio. Il resto lo trovate se acquistate il volume. Merita. G.B.)

 

di Tommaso Labranca

Chissà come passavano il tempo i ragazzi nati prima degli anni Cinquanta. Avranno anche loro avuto abiti da copiare, movenze da ripetere, chitarre su cui contorcersi per imitare un musicista maledetto? Tutte cose che insieme agli omogeneizzati hanno nutrito le generazioni dal secondo dopoguerra in poi, quando la subculture pop ha preso il sopravvento su quella accademica. Si è proceduto a piccoli passi. Nel 1955 la strada era una sola: o imitavi Elvis, col rischio di tramutarti in Celentano, o nulla. Dieci anni dopo, la scelta raddoppiò: Mods o Rockers. Beatles o Rolling Stones. E fortunato chi ha scelto questi ultimi, visto che ancora oggi i Maroon 5 celebrano chi si Moves like Jagger, mentre McCartney all’inaugurazione di Londra 2012 era imbalsamato in più strati di Gibaud. Gli anni Settanta aggiunsero nei nostri armadi una terza possibilità: l’eskimo pataccato di Mario Capanna, l’abito bianco di John Travolta oppure i maglioncini Standa dei bravi ragazzi apolitici e non danzanti. Oggi Capanna pare un pensionato americano, Travolta un pensionato delle Poste e il bravo ragazzo ha avuto un guizzo, sostituendo la Standa con Abercrombie.

All’improvviso, quella che pareva una tranquilla crescita graduale è impazzita, tanto che oggi non siamo in grado di ricordare quanti e quali sono stati i modelli che ci hanno ispirato negli anni Ottanta.

Preciso per chi non c’era. Non cascate nella trappola di certi attempati soloni del giornalismo che raccontano di un decennio squallido e volgare. Si tratta di persone che quando i Puffi presero il posto degli Inti Illimani e Candy Candy conquistò più seguaci di Dolores Ibárruri si accorsero di aver fatto il proprio tempo e restarono a innaffiare, mugugnando, le loro ideologie appassite. Non dovete nemmeno credere a certi ragazzetti che, pur essendo nati nel 1990, credono di sapere tutto sul Magico Decennio solo perché indossano una maglietta destrutturata (che nessuno portava) e si sono inventati il termine Elettroclash per indicare la vecchia elettronica fatta con gli Yamaha da Yazoo o Human League.

Gli anni Ottanta sono stati qualcosa di molto più complesso di ciò che vi raccontano gli improvvisati sociologi delle decadi che se la cavano con qualche spallina, due video dei Duran Duran e un hamburger. Per capire davvero quell’epoca il punto di partenza obbligato è La condizione postmoderna, un esile libretto pubblicato nel 1979 da un filosofo francese, Jean-François Lyotard.

Lyotard prevedeva l’esaurimento delle grandi narrazioni metafisiche e rivoluzionarie, compreso il marxismo degli innaffiatori di piantine secche e tutte quelle teorie totalizzanti e impositive che miravano a unire la società mondiale. Al loro posto stavano sorgendo visioni frammentarie, locali e ibride per origine e valore.

Roba difficile? Diciamo allora che Lyotard stava prevedendo il mutamento epocale che subì una giovane ragazza di Castelfranco Veneto, tale Donatella Rettore. Proprio negli anni in cui uscì quel libro fondamentale, la ragazza stava abbandonando nome di battesimo e cantautorato d’impegno, figlio di una grande narrazione, per lanciarsi in una fantasmagorica antologia di racconti frammentari, dai kamikaze alle Barbie rifatte, dai Pierrot tristi a Calamity Jane.

Ecco la vera rivoluzione: travestirsi e decidere ciò che si sarebbe voluto essere. Nessuno meglio di Rettore ha saputo incarnare il pensiero postmoderno in Italia, nemmeno architetti come Paolo Portoghesi o Filippo Panseca, nemmeno i Matia Bazar che, grazie al genio del produttore Roberto Colombo, si reinventarono nei suoni e nei vestiti (a quel tempo, però, si chiamavano look), mescolando Bauhaus, Fellini e Italia umbertina in un gioco un po’ più intellettualizzato di quello della collega veneta. Gli anni Ottanta furono un momento di liberazione, sebbene imperfetta. Si potevano fare cose impensabili fino al giorno prima quando a comandare erano ancora i cupi e consunti sessantottini. Si rompevano tutti gli schemi, come fece Heather Parisi che con l’indimenticato Enzo “Truciolo” Avallone iniziò a ballare in maniera scomposta, infischiandosene delle grandi narrazioni coreografiche che Don Lurio imponeva alle sincroniche gemelle Kessler.

Libertà imperfetta perché l’imposizione non era scomparsa, ma si era frammentata anch’essa. Non era facile essere ciò che si voleva essere negli anni Ottanta. Una volta scelta una strada, non potevi sgarrare: le calze Burlington dovevano essere originali, mai s’era visto un Paninaro con calzini di spugna bianca. Se ti vestivi come Morticia Addams per entrare nella spiritata compagnia di dark che stazionava davanti al cimitero non potevi ascoltare Vasco Rossi, pena la morte civile.

Soprattutto non potevi mescolare elementi né avere rapporti con qualcuno dallo stile diverso dal tuo: ci si disprezzava a vicenda. Era una finzione che non ammetteva finzioni, ci si credeva a tal punto che diventavamo noi stessi vittime della nostra menzogna. Venirne fuori fu la vera libertà.

Mi inoltro nel personale. Il mio idolo di riferimento era David Sylvian, musicista introspettivo e sconosciuto ai più, ma portabandiera con Morrissey e Marc Almond di un sentire tra il malinconico, il frustrato e l’emarginato. Giusto per smentire chi dice che gli anni Ottanta sono stati solo milkshake, Spandau Ballet e grosse tette. Come Sylvian anche io portavo la camicia chiusa fino all’ultimo bottone, cercavo abiti vecchi e dismessi, avevo sempre l’espressione pensierosa e scrivevo tremende copiature di Cocteau. Quando nel 1989 mi liberai da quella autoflagellazione, indossai magliette gialle e presi ad ascoltare la peggiore dance prodotta in Romagna fu l’inizio della vera libertà.

Altro che caduta del Muro di Berlino.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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