Una Francia altrove da Parigi
[Questo testo fa parte di altri diciotto, raccolti a cura di Filippo La Porta nel volume Douce France (Gremese, 2021), che tematizza il rapporto tra scrittori italiani e cultura francese. Tra gli altri, interventi di Luca Doninelli, Lisa Ginzburg, Diego Marani, Dacia Maraini, Antonio Pascale, Lidia Ravera, Giuseppe A. Samonà e Walter Siti.]
di Andrea Inglese
Senza accorgermene, sto diventando un po’ francese
Io ero in piedi, in una situazione di leggero vantaggio; loro, mia figlia e mia moglie, sedute, ma ciò nonostante spavalde – perché con me sono quasi sempre spavalde – e mia moglie mi ha chiesto con l’aria ingenua: “Ma tu, ormai, dopo tutti questi anni, ti sentirai anche un po’ francese?!” Io ho fatto roteare gli occhi, ho sbattuto entrambe le mani contro i fianchi, perché mi sono sentito provocato, e anche un po’ scandalizzato. Come si poteva pensare che io, l’italiano della famiglia, quello purosangue, l’unico cento per cento, avessi venduto la mia anima di antico romano, di gentiluomo rinascimentale, di garibaldino e anarchico, per francesizzarmi così sul tardi, preso per stanchezza, dopo la soglia fatidica dei cinquant’anni? Certo, la diluizione era già avvenuta, con mia figlia, nata a Parigi e circondata di francesi per ben otto anni – eccezion fatta per le festive e brevi parentesi italiane –, una figlia, per altro, che nonostante la doppia nazionalità, di carattere italiano ne aveva solo mezzo, e questo sul piano strettamente cromosomico, perché nella vita di tutti giorni scarseggiava pure di quello, praticando con avarizia la loquela paterna e avendo un’idea vaga della sua seconda patria. Tutto questo è accaduto qualche anno fa, e mi sembrava indubitabile che, qualcuno nato e vissuto per una buona parte della sua vita in Italia, non potesse tramutarsi in un francese, neppure in una percentuale ridotta. Che strana questa faccenda delle identità nazionali. Cosmopolitismo, cittadini del mondo, abbasso frontiere, villaggio globale, e poi uno si sente italiano, anche se vive in Francia da undici anni, ci vive e ci lavora, e poi ha una moglie francese e una figlia, molto più francese che italiana. E si sciroppa pure il confinamento in Francia, mentre in Italia fanno il lockdown. E qualche volta sogna in francese. Ma non c’è niente da fare: gratta gratta, sotto sotto, c’è un bello zoccolo duro d’italianità. Uno lo sente. E se non lo sente, almeno ne ha cognizione. Anche se poi, più che di una cognizione chiara e distinta, si tratta di una credenza, brumosa forse ma fitta e avvolgente. Mica bisogna fornire delle prove, far dei conticini. Eppure, a due anni di distanza da quella conversazione, non sono più tanto sicuro. A scavare un pochettino, chissà cosa ci trovo oggi sottopelle? Quand’è che uno cessa di essere un italiano al cento per cento, e comincia a impregnarsi pericolosamente, confusamente, di francesità? Perché essere cittadino del mondo non costa poi nulla, basta sapere con chiarezza dove si vive e in che letto si dorme. Se uno, però, parte alla buona, senza troppe pretese ideologiche, e si dice semplicemente: sono un italiano che vive in Francia, un espat qualsiasi, un cervello in fuga tra i tanti, rischia poi di scoprirsi colonizzato dentro, con lo spirito cartesiano freddo e altezzoso che stempera in lui le virtù degli avi, quali l’allegra faciloneria o il furbesco opportunismo. Con l’inconveniente, poi, che il francese stesso non lo apprezza più, non trovandolo sufficiente rappresentativo del tipo italico. Insomma, c’è da sperare che l’identità patria sia ben piantata da qualche parte tra i calcagni e la corteccia cerebrale. O forse no, forse dopotutto l’esito migliore è l’imbastardimento, un intricarsi carogna di tratti culturali disparati.
Una sineddoche tirannica
La prima operazione che è richiesta per una ragionamento a mente fredda sul rapporto tra un italiano e la Francia è l’attenuazione del bagliore parigino. Parigi è una magnifica, tirannica, sineddoche della Francia per qualsiasi italiano. E questo non vale solo per chi vi mette piede per una parentesi svagata, con l’ingenuità voluta del turista, ma anche per il lavoratore espatriato, che il francese lo parla ogni giorno e tra i francesi ci vive. D’altronde, ci riferiamo alla seconda meta europea in termini di massa di visitatori, appena dietro a Londra (ancora nel 2021). A Parigi distillano il meglio della Francia in termini gastronomici, culturali e architettonici. I parigini sono certo insopportabili – secondo un’opinione molto diffusa tra i “visitatori occasionali” – ma qualche effetto collaterale di questa alchimia centralizzatrice si dovrà pur pagare. Oltre a Parigi naturalmente, ci sono anche altre latitudini in grado d’incarnare la Francia – certe cittadine costiere di Bretagna e Normandia, certe zone rurali e vinicole della Borgogna, la mediterranea Provenza, tutto quello, insomma, che un degno parigino può amare, quando si distacca provvisoriamente dal suo sfavillante e privilegiato luogo di residenza. La Francia che un italiano vede è Parigi o, nei casi più magnanimi, la Francia vista da Parigi.
Insomma, l’unico modo per familiarizzarsi con la società francese in modo non troppo selettivo e precauzionale, è quello di sfuggire all’incanto parigino. Quando questo accade, non è in ragione di una disinteressata operazione conoscitiva, ma generalmente per una prepotente necessità, di cui si cerca di fare virtù. Il nostro lavoro si svolge magari in quartieri centrali della capitale, ma le metrature concesse, anche nei quartieri più malfamati e a ridosso del périférique (la circonvallazione), non promettono neanche al nucleo familiare più prudente (coppia + figlio unico) un sereno ricovero degli innumerevoli oggetti che una vita mediamente consumistica impone né tantomeno quel minimo Lebensraum, che garantisce una convivenza garbata e pacifica.
Personalmente, ho dedicato nel 2016 un romanzo smaccatamente autobiografico al regolamento di conti con la capitale francese. In Parigi è un desiderio, dopo aver dettagliato tutte le fasi dello stregamento – non solo letterarie e sublimi, artistiche e architettoniche, ma anche bassamente pulsionali, fatte di avventure erotiche e di amori con le parigine – ho potuto sancire la fine di quel lungo capitolo della mia vita e il ritorno a una decente sobrietà, scrivendo queste righe nell’ultima pagina del libro:
“A Parigi ci vado quasi ogni giorno per via del lavoro, ma anche per vedere degli amici, per visitare una mostra, per festeggiare qualcosa di bello, con Hélène, in un ristorante o in un caffè. La trovo una città rumorosa e cara, attraversata da gente molto arrabbiata, o da gente spensierata perché esageratamente ricca, e credo che troppe cose, in quella città, esistano ormai solo per queste persone esageratamente ricche. Il concentrato di fighi e di persone di successo la sta rendendo sfavillante e asettica come una rubinetteria ben strofinata. Ogni tanto, in certe zone, nell’arredamento di certi locali, nel modo di raggrupparsi dei giovani in una piazzetta, mi sembra di trovarmi di nuovo a Milano, come se non fossi mai partito, come se fossi ancora lì, con la schiena rigida appoggiata alle panchine dei giardinetti di Pagano, in attesa di decollare, di andarmene altrove, ma poi l’altrove c’è. Prendo la RER e mi faccio un giro a Champigny, in piazza Lenin, durante il mercato. Qui le scarpe costano dieci euro.”
Una conclusione un po’ caricaturale, si dirà. Parigi permane senza dubbio una metropoli ancora densa di contraddizioni, di autentiche brutture e di bellezze non sempre verniciate di fresco. Se non altro, è il luogo in cui si sono svolte per più di un anno e con periodicità quasi settimanale le manifestazioni dei barbari “gilet gialli”.
Un’ulteriore osservazione la voglio fare, però, sull’imborghesimento di Parigi. Ad esso concorrono innumerevoli fattori, da quelli macroeconomici a quali microculturali. Tra questi va segnalato il caso di un certo numero di miei compatrioti e della loro metamorfosi attitudinale una volta che risiedono nella capitale. Essi non solo riescono ad assumere nel proprio modo di fare e parlare quell’assoluta familiarità e padronanza nei confronti della metropoli tipica di tutti gli altri parigini, ma impreziosiscono queste loro doti grazie a una simultanea e sbandierata italianità. In loro, però, non c’è rischio di contaminazione, d’imbastardimento delle identità, perché l’essere parigino e l’essere italiano si sommano ma non si confondono, scivolano l’uno sull’altro come l’acqua con l’olio. L’italiano o l’italiana di Parigi incede per le vie, inalberando ad ogni passo il suo motto: non solo mi godo Parigi come un autentico parigino, ma mi godo la vita come un autentico italiano. C’è da rimanere ammirati o da prenderli a schiaffi, soprattutto pensando a tutti quegli altri italiani che cercano di trovare un giusto compromesso tra le contorsioni lavorative, gli affitti a bastonata, le relazioni sociali non sempre lisce, e le delizie ovvie del consumo culturale a tutto campo, nei tempi pre-pandemici, quando si abbinavano caffè e ristorantini amati alla serata cinematografica o musicale.
Vita da banlieusard
Dietro il paravento di Parigi, ci sono almeno due France indocili, non turistiche e poco acquiescenti nei confronti della capitale: la Francia profonda – dell’agricoltura industriale, delle zone spopolate, degli agglomerati urbani tagliati fuori dalle grandi linee ferroviarie – e la Francia delle periferie metropolitane, densamente abitata, dal paesaggio urbano livido e talvolta degradato, regno di giganteschi centri commerciali e di quartieri malfamati. È proprio in quest’ultima, che alla fine ho deciso di vivere. Poiché i miei talenti professionali e le mie risorse economiche non mi hanno permesso di prosperare nella capitale, mi sono stabilito oltre l’anello della circonvallazione esterna, ben lontano anche da quelle linee del metrò parigino che sconfinano nelle cittadine adiacenti. Devo, insomma, partecipare al più rude pendolarismo, quello che si pratica giornalmente sulle linee RER (Réseau Express Régional), ossia sui treni che raccolgono la massa lavoratrice sparpagliata in cerchi sempre più ampi intorno a Parigi.
Dal 2013, vivo con moglie e figlia in una casetta a schiera (stretta e tutta scale, ma con un pezzetto di giardino) a Champigny-sur-Marne, una cittadina di 77.000 abitanti che dista 17 chilometri da Parigi, tragitto in auto una ventina di minuti e quarantacinque in RER. Non siamo lì per caso, né in via emergenziale e provvisoria. Abbiamo comprato casa, dando fondo ai patrimoni familiari. Come noi, di esuli parigini del ceto medio acculturato, ce ne sono davvero pochi. In altre parole, Champigny non è diventata ancora terreno di conquista dei bobo. Il borghese-scapigliato, che si è già insediato abbondantemente in altre cittadine periferiche, qui non sembra attecchire. Di tanto in tanto ne incrocio qualcheduno: lo distinguo facilmente, perché gira con biciclette pieghevoli costosissime e d’avanguardia, o si distingue comunque per qualche attrezzatura o indumento d’ultimo conio. Champigny però lo respinge, nonostante il metro quadro (in affitto o d’acquisto) sia molto più basso della media. Non si può dire che il guazzabuglio delle nazionalità e delle origini ci manchi. È una vecchia storia. Negli anni Sessanta, Champigny ha ospitato la più grande bidonville di Francia (15.000 persone), popolata in maggioranza da portoghesi. Oggi ancora, nel mercato della piazza centrale, si sente parlare portoghese tra clienti e commercianti. Poi c’è Bois-l’Abbé, esempio paradigmatico di cité, ossia un concentrato di casermoni popolari imposti da Parigi al comune nel 1968, ben isolato dai quartieri circostanti e con una densità abitativa altissima. Vi troneggia al suo centro una torre di 29 piani. Il tasso di disoccupazione è del 34% contro il 9% della media nazionale. Lo spaccio sembra ben radicato, come anche le guerre tra bande di giovani.
Insomma, Champigny è stata da sempre due cose: una città proletaria, di piccoli impiegati e operai, in buona parte immigrati dall’Europa e dalle ex-colonie africane, e un bastione rosso, in quanto governata dal 1945 dalla sinistra (dal Partito Comunista a partire dal 1950) fino alle elezioni del 2020. Oggi è passata alla destra, e qualche cambiamento è stato osato, specialmente sotto natale: luminarie e alberi addobbati di ghirlande come non se n’erano mai visti. Per il resto, nel centro cittadino pullulano i soliti kebab rigoristi, dove non vendono neanche una birra, negozi di ottica (sembra la città degli orbi), e agenzie immobiliari. I parcheggi la fanno da padrone, i cantieri edili non si contano, ma di negozi bio c’è n’è uno solo, gestito senza altezzosità da una signora d’origine africana. C’è la Marna, che è il pertugio paradisiaco, soprattutto per me, che mi dedico settimanalmente alla navigazione fluviale su kayak, incrociando anatre, cigni, aironi, gabbiani, folaghe, oche del Canada, cormorani, martin pescatori. Ma sulle rive del fiume vengono tutti: ragazzotti a farsi le canne, bande varie di alcolizzati, coppiette, famiglie cospicue con nonni e cani, pescatori polacchi, giocatori di bocce, ciclisti da corsa e da scampagnata, corridori e qualche volta praticanti di pugilati esotici, a darsi botte per svago. Sono i campinois, gente approdata a Champigny da lungo tempo o di fresco. Costoro presentano un enorme vantaggio rispetto non solo ai parigini, ma anche ai milanesi, e a tutti i brillanti residenti di metropoli contemporanee: non ti mostrano, ad ogni passo, che sono persone speciali. Certo, ci trovi anche il maleducato, l’attaccabrighe, lo schiamazzante. Ma se devono romperti le scatole, lo fanno come gente qualsiasi. È difficile capire, quale enorme sollievo sia il vivere accanto a persone che non sono convinte di rappresentare l’avanguardia dell’umanità, nel modo di consumare attrezzi tecnologici, carote, biciclette pieghevoli e serie televisive.
Alla fine non so quanta francesità scorra in me, dopo tutto questo tempo passato qui. Proust e Céline, che mi misero in mano quando avevo quindici e diciassette anni, li rileggo ancora, ormai in lingua originale, e non smetto di nutrirmi di filosofia, scienze umane, poesia e narrativa francese. Ammiro, poi, la capacità che questo popolo ha di opporsi ai suoi governanti, e non solo a parole, con il piagnisteo nel tinello di casa, o durante la coda alla posta. Ma oggi potrei forse definirmi semplicemente campinois e italiano. Insomma, un po’ il contrario del cittadino del mondo. Io penso che un cittadino del mondo non s’incazzi come accade a me, quando passo per il lungo fiume e trovo, buttate nell’erba, lattine di birra o bottiglie di plastica. È che ci si affeziona a un certo tratto di strada, dove si passa ogni giorno andando e tornando dal lavoro, forse perché c’è il fiume, un angolo di bellezza pubblica, non in forma di merce, non ad uso e consumo esclusivo di noi uomini, ed è importante salvaguardarlo, curarlo, soprattutto quando si è circondati da una patina di lividezza metropolitana, ben coltivata – bisogna confessare – da 70 anni di governo comunista. I cantieri, i parcheggi, le vetrine degli ottici, tutto diventa sopportabile, se πάντα ῥεῖ sulla Marna, con le sciabolate di luce lungo la pellicola appena increspata dell’acqua. E poi qui nessuno ti fa pesare, che la tua vita assomiglia a quella di tutti gli altri (i parigini sono lontani).
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Foto: graffiti in formato manifesto nell’amena Champigny, realizzato da un collettivo femminista. Questo è quello che è durato meno di tutti. “Non hai visto i nostri maschi sessisti? Li amo farli seccare.”