Le feste che funzionano

di Walter Nardon

Si definiva una donna semplice e certo, osservando la gamma del suo abbigliamento, lo poteva sembrare; ma i suoi desideri, tendendo com’è nella loro natura a realizzarsi, suggerivano di completare il quadro con dettagli più nitidi, recuperando elementi che aveva liquidato in fretta come trascurabili. Che in quella noncuranza ci fosse dell’altro, e che vi si potesse dunque scavare più a fondo – per quanto in genere non ci si facesse caso – non poteva restare un segreto. Così, quando si sparsero le prime voci di una sua storia con Riccardo Precy, qualcuno commentò che da qualche parte, nelle ampie tasche dei suoi vestiti informali, doveva aver trovato posto anche l’ambizione.

Lavorava da quasi due anni al Servizio Acque, dove aveva conservato la sua invidiata disciplina di studentessa. Se un tempo questa disposizione ne avrebbe fatto un modello ora, pur senza farla scomparire in mezzo alle amiche e nonostante i suoi luminosi occhi neri, la relegava in una posizione di outsider. Dal suo angolo, rispondeva a una battuta di spirito ridendo con un pudore che nascondeva un equilibrio conquistato a fatica, e per quanto sapesse spendersi generosamente con gli altri, davanti a un favore inatteso non riusciva a rispondere ed esitava, lasciando sul volto di chi le aveva fatto del bene un’espressione interrogativa.

Il venerdì pomeriggio tornava a casa in bici. Staccando un’ora prima, a volte si fermava a fare la spesa ma in alcuni casi, vestita in modo più sportivo e con tanto di casco bianco allacciato, andava a farsi una decina di chilometri sulla ciclabile. In una di queste occasioni, verso la metà di ottobre, pedalava da circa un quarto d’ora quando d’un tratto, dietro una curva a sinistra quasi interamente coperta dagli olmi, si trovò davanti un uomo in divisa da ciclista e occhiali da sole che rimetteva a posto la catena di una costosa bicicletta da corsa. Non si trovava proprio in mezzo alla strada, aveva avuto l’accortezza di mettersi sul ciglio, ma la casacca arancione, la bicicletta antracite e insomma, la sorpresa, l’avevano indotta a frenare, o per meglio dire a fermarsi.

Si trattava proprio di Precy, il noto imprenditore e quasi-celebrità social. Incontrarlo sulla ciclabile non era un evento raro, dato che vi percorreva dodici chilometri al giorno, andando e tornando da una delle sedi delle sue società. Nessuno ne discuteva il successo; ma la superiorità del suo fascino – la cui estensione riteneva tendenzialmente indefinita – era in questione da circa un anno, ossia dal tempo in cui aveva deciso di tornare a risiedere più stabilmente in città. Le più strette collaboratrici ne discutevano con sofismi che tendevano ad attenuarne le pretese conservando però la correttezza di fondo dell’osservazione (sia pure, precisavano, «fra quelli come lui»); i dipendenti invece ne ragionavano più in breve: a loro modo di vedere, tolto di mezzo il conto in banca, non restava altro di cui discutere. Lui non se ne curava, certo che i migliori – e soprattutto le migliori – avrebbero saputo cogliere in un istante la differenza. Procedeva senza badare alle voci, ignorando gli altri imprenditori a suo avviso troppo attaccati ai soldi per saperli fare davvero, privi di visione, di prefigurazioni che invece in mano sua assumevano la consistenza materiale di un baule; di un baule pieno, si intende.

Quando la vide rallentare davanti a sé, scorse una donna che gli sembrò passabilmente attraente, ma non al punto da costringerlo ad abbandonare la verifica delle parti meccaniche. Continuò pertanto a controllare la tensione della catena e, finito l’esame, alzò gli occhi verso di lei più che altro perché, con le mani sporche di grasso, si augurava che la ciclista avesse con sé un fazzoletto di carta. Lei si sfilò lo zaino e gli passò quello che la circostanza richiedeva ossia, oltre a un pacchetto di fazzoletti, una bottiglietta di soluzione idroalcolica per pulirsi le mani che portava sempre con sé (in caso di necessità). Il modo in cui le sorrise sarebbe rimasto per qualche giorno al centro dei suoi pensieri. Benché sapesse per esperienza di lettrice e spettatrice quanto queste suggestioni vengano suscitate dalle circostanze ambientali di un determinato istante –  la luce che si rifletteva sulle foglie dei ligustri disposti in siepe dietro di lui, i profumi del parco vicino dove alcuni bambini giocavano chiassosamente a rincorrersi – e per quanto avesse altrettanto chiaro che questi dettagli offerti alla fantasia diventano un’opportunità di sviluppo quasi sfrenata, aveva intuito un’attrazione non preventivabile, la possibilità che qualcosa di meno fortuito potesse svilupparsi. In effetti, due giorni dopo lui le telefonò.

2.

In certi casi non si può neanche parlare di ambizione: si sente crescere in sé un sentimento e si decide di seguirlo investendoci quasi inavvertitamente una somma di energie che tende ad aumentare sempre di più finché il giorno risulta d’un tratto occupato quasi per intero da una questione esigente. Cinzia cercò di non darlo a vedere. Al lavoro, per tre giorni mise in atto la strategia che in determinate circostanze aveva sempre funzionato: faceva domande alle colleghe sulle loro scelte, le lasciava parlare. Poiché gli esseri umani hanno sempre voglia di esprimere le proprie preferenze, dando spazio alla conversazione poteva rifugiarsi nell’interiorità: le amiche la apprezzavano perché sapeva ascoltare e lei custodiva il suo segreto.

La condotta di Precy invece non aveva bisogno di ventagli metaforici dietro ai quali rifugiarsi. Aveva l’abitudine di pensare a sé, come se la sua voce su Wikipedia, già stata abbozzata, aspettasse solo un oscuro estensore per risistemarla. Qualche imprenditore malevolo sosteneva che la sua fortuna fosse fondata su un apprezzabile capitale iniziale, donatogli dalla famiglia, sul quale aveva poi costruito il suo gruppo in modo neppure troppo febbrile, con l’aiuto dei collaboratori di maggiori competenze e di risorse finanziarie insufficienti; ma su un punto erano tutti d’accordo: ci sapeva fare.

L’aveva chiamata per ragioni di lavoro e lei, sentito il modo in cui si era presentato – senza farsi annunciare dai suoi collaboratori – aveva rotto gli indugi e chiesto se avesse risistemato la bicicletta. Lui si era fatto una risata.

«Sì, grazie. Una volta ad Amburgo dopo aver forato sono rimasto quasi tre ore in mezzo al nulla, senza nessuno a cui telefonare. Quello è stato un pomeriggio come si deve, ma qui, sulla ciclabile, a pochi chilometri da casa, la bici me la sarei portata anche sulle spalle. Comunque ti ringrazio di avermi soccorso».

«Non ho fatto niente».

«Ma è bello sapere che c’è qualcuno pronto a darti una mano».

«È stato un piacere. Poi, davvero, non ho fatto nulla di speciale».

«Posso ricambiare la cortesia con un caffè?»

E così era nato questo appuntamento. Precy aveva scelto un bar non proprio in centro, anzi quasi in periferia (faceva parte di una catena) e perfino lì un po’ defilato, con i tavolini in ferro battuto e le pareti coperte di lavagnette piene di frasi augurali scritte col gesso. Gli sembrava perfetto per l’incontro, tanto da fargli sopportare anche la proverbiale scomodità delle sedie: non era lontano dalla casa di Cinzia (gli aveva detto che viveva in quel quartiere). A lei non dispiaceva, benché fosse un po’ stereotipato. In fin dei conti, se nella realtà cittadina doveva per forza scegliere un posto che non avesse nulla di suo se non i graffi sui tavoli (e anche quelli, a volte, già definiti, nei cosiddetti mobili anticati), era meglio scegliere un posto romantico.

Al mattino, prima di uscire, aveva provato a indossare qualcosa di un po’ più elegante del solito e non era rimasta soddisfatta finché non aveva visto riflessa nello specchio una nota speciale: l’intimo delle grandi occasioni, un colpo di spazzola in più sui capelli neri, una giacca verde scuro sfiancata sopra la camicetta bianca portata aperta fino al terzo bottone. Sotto, pantaloni bianchi e scarpe nere, come la borsetta. Aveva tutta l’aria di chi, cercando di nascondersi, vuole apparire; abituata a non accennare ai propri desideri e a parlare di quelli degli altri, non riusciva a capire la misura oltre la quale cominciava a dar mostra di sé: a ben vedere, rispetto alla norma, nel dettaglio di quell’outfit per lei inconsueto perfino le sue colleghe meno audaci avrebbero dovuto dubitare che ci fosse qualcosa in ballo.

3.

E così si era avviata al grande giorno. Nonostante i suoi propositi, dietro il monitor in mattinata aveva trascorso tre quarti d’ora a fantasticare sui primi istanti dell’incontro, passando dall’immaginazione dei dettagli alla riflessione su ciò che questi suggerivano alla sua sensibilità, illanguidita davanti agli oggetti della scrivania per acuirsi invece dolorosamente al cospetto di quel che l’immaginazione esigeva. Comprendeva l’origine di questo stato d’animo, ma a differenza di quel che era accaduto in altre circostanze, in cui aveva fatto prevalere la saggezza, in questo caso sentiva, per così dire, “che era il suo turno”, e che per questo non avrebbe dato ascolto alla prudenza: si sentiva in forma e il suo corpo reclamava un bagno di sole.

Rispose ad alcune e-mail di lavoro, nel pomeriggio partecipò a una riunione ed ebbe uno scambio in chat a Margherita, un’amica che viveva a Castelfranco Veneto.

Poi, finalmente, venne l’ora di uscire.

Arrivò a casa con quaranta minuti di anticipo. Non aveva previsto di fermarsi, ma preferì sistemare la bici in garage e rinfrescarsi in bagno.

Poco dopo, camminando sul marciapiede, cercava di fissare nella memoria il riflesso del sole sulle siepi – così verdi e tanto diverse da quelle che aveva scorto vicino a lui –, dell’odore dell’erba nei dodici metri quadri di prato davanti all’ingresso dei vicini. Non era chiaro se il fatto di sentirsi desiderata si riverberasse sulle cose che incontrava o se non fossero invece queste, in quel momento, a mostrarsi a lei nel loro aspetto più complice e benevolo. Del resto, già il solo fatto di uscire prima dall’ufficio l’aveva messa di buon umore.

Tirò fuori il telefono e, dopo alcuni tentennamenti, si fece un selfie e lo spedì a Margherita.

Sei strafiga, vai benissimo.

Un incoraggiamento eccessivo.

Dopo due semafori arrivò davanti al bar.

Era proprio ciò che ricordava, la replica di un locale francese, con le sedie da esterno in ferro un po’ sgangherate e troppe gardenie finte sopra le irrinunciabili lavagnette piene di frasi incoraggianti, alcune in inglese come «Today is a Happy Day». Fra tante, la migliore era: «Il vaut mieux faire envie que pitié». Fece un giro dell’isolato per non accomodarsi troppo presto, ma già dietro l’angolo si sentì affaticata, respinta dai dettagli che ora trovava noiosi perché reclamavano attenzione sottraendole forza per tendere all’unica cosa sulla quale aveva bisogno di concentrarsi. Proseguì perciò il giro cercando di ripiegare su Alicia Keys (elementare, If I Ain’t Got You). Sarebbe stato bello incontrarlo in modo fortuito, anche se lui, ovviamente, non si vedeva.

E così, arrivata di nuovo davanti al Café Paris 38, entrò: c’erano tre persone. In effetti, le cinque e cinquanta non sono il momento migliore per un caffè; pur avendolo compreso quando lui le aveva offerto l’invito, non aveva avuto il coraggio di dire che l’ora si avvicinava di più a quella dell’aperitivo, perché lui avrebbe potuto equivocare interpretandolo come un cenno di apertura per una serata tutta da scoprire. Lasciarlo intendere sarebbe stato troppo audace? E poi, meglio dentro o fuori? Dentro, dava meno nell’occhio.

Disse alla cameriera che aspettava qualcuno che sarebbe arrivato a minuti, si sedette e tirò fuori il cellulare. Alla sua sinistra, su un tavolo, uno studente universitario dai capelli rossi finiva di bere un caffè col giornale davanti. Appoggiata la tazza, sempre con un occhio al giornale, col cucchiaino grattava lo zucchero dal fondo come se, avendo finalmente trovato la parte migliore, non potesse rinunciarci. Quell’operazione, che a dispetto di ogni attesa ragionevole andava avanti da circa un paio di minuti, la metteva a disagio: era così infantile, che per lo studente doveva per forza avere assunto qualche valore rituale. E non era neanche così giovane, il tizio. Ripensò alla sua carriera universitaria, alla fierezza con cui si accompagnava al bar con i professori dopo un seminario: quello stato d’animo aveva qualcosa a che fare con ciò che stava provando in quel momento, forse perché più che di attesa si trattava di speranza. Lui, intanto, era in ritardo.

A dire il vero Precy era già arrivato: se ne stava al telefono nel vicolo dietro il caffè, sporgendosi ogni tanto da una finestra posta nell’angolo solo quel poco da intravedere l’espressione di Cinzia. Appariva nervosa, ma sembrava che in lei prevalesse il desiderio. Lui era vestito in modo sportivo, camicia bianca, giacca tra il grigio e il blu, jeans decisamente costosi e sneakers bianche (edizione limitata).

4.

«Ciao, scusa, ma che ci fai qui dentro? Usciamo, dai, prendiamo un po’ d’aria».

«Ti stavo aspettando».

«Lo so, scusa. Ho sempre tante telefonate da fare».

Lei prese la borsetta.

Fuori, si sistemarono a un tavolino a sinistra, un po’ discosto dall’ingresso, scegliendolo dopo aver provato la solidità delle sedie, operazione che lui mise in atto scrollandone quattro o cinque per trovare le due con lo schienale giusto.

«Allora, che mi racconti?»

«Una giornata normale. Tu invece, devi avere una vita complicata».

«Beh, non saprei. Io devo correre dietro a quello che vogliono gli altri».

«E ti piace?».

«Più che altro mi tocca. Poi ogni tanto decido anche di lasciar correre, mi prendo i miei spazi».

«Beh, mi sembra già un passo avanti».

«Sì, ma non credere, anche in questo ci vuole dedizione».

«La stessa che ci vuole per andare alle feste?». Tutti sapevano che Precy, per così dire, non era per l’austerità.

«Ma dai», Precy rise, «non mi diverto mica alle feste. Lo sanno tutti che ci resto poco. I più dicono che lo faccio per snobismo e io li lascio dire. Tutto questo mi sembra così ridicolo, e infatti è niente rispetto a quello che ho provato quando studiavo a Leeds. Le feste non muovono più niente, come una serata trascorsa su un prato a suonare la chitarra con gli amici fino al buio completo. Bella, no? Forse perfino stimolante, ma se ci pensi è raro che lo sia davvero. Vedi, ho questa convinzione, che magari ti sembrerà un po’ fuori tempo (ma chi può dirlo?): perché riescano bene le feste devono servire a qualcosa; ossia l’invito e la conversazione degli ospiti devono essere orientati verso un fine, almeno quello di chi le ha organizzate. Una volta le cose andavano così: per questo le feste contavano. Alla festa si decideva un affare, si pensava a un fidanzamento, ma tutto questo naturalmente senza averne l’aria, perché in effetti, si decideva e non si decideva: diciamo che se ne parlava. Qualcuno potrebbe dire: ma non era tutto qui, alle feste si andava anche per la musica, per il ballo. Appunto, proprio perché le feste contavano, contavano anche la musica e il ballo. Contava suonare come si deve – e scrivere un pezzo come si deve – e poi saper ballare. Oggi, devo dirti la verità, mi annoio molto, soprattutto in quei locali minimal, con mobili più o meno di design, in realtà comprati sottocosto, e con la musica club o lounge insopportabile».

Presero entrambi un caffè. Per lui decaffeinato.

«E io che ho sempre creduto che una festa vera funzioni soprattutto se non ha uno scopo. Pensavo addirittura che avessimo fatto dei passi avanti perché possiamo incontrarci solo per il gusto di stare insieme».

«Beh, non voglio mica scoraggiarti. La festa si fa per stare insieme, senz’altro; poi però ti accorgi che in un angolo c’è sempre qualcuno che pensa ad altro. Un po’ come in chiesa.  A casa mia si è sempre detto che gli affari migliori si fanno in fondo alla chiesa durante la messa. Anche lì, in teoria, la maggior parte delle persone dovrebbe essere presente per altre ragioni. Per motivi più nobili, se vuoi».

«Non vorrai sostenere che è tutto strumentale. Non avessi avuto le serate con le mie amiche, che mi hanno presa per quella che sono, non so se avrei finito gli studi».

«Ah, ma su questo sono totalmente d’accordo. Sono a favore dell’amicizia. Dico solo che a una festa uno scopo ci vuole, non che ci sia solo questo. E intendo proprio uno scopo sociale. Anche una convention ha uno scopo, anche le presentazioni di un nuovo prodotto ce l’hanno, ma in questi casi è tutto così ufficiale e orientato al profitto che è difficile trasformare l’atmosfera in quella di una vera festa. Facci caso, anche i vernissage di una mostra il più delle volte sono ridicoli».

«Ma cosa vorresti? Il ritorno all’Ottocento?».

«No, basta anche una semplice festa di compleanno. Queste funzionano sempre proprio perché c’è qualcuno da festeggiare. Sono quelle spontanee, invece, a essere sopravvalutate: avrebbero successo solo se servissero davvero a far conoscere gli invitati. Il fatto è che abbiamo quasi sostituito i ricevimenti con le app di incontri, o con gli speed date. Che un po’ funzionano, ma sono troppo brevi e preordinati al risultato. Fingi un po’ che siano rilassati, che durino di più: se durassero una serata intera sarebbero perfetti. Perfetti per me, intendo, che ci andrei non con lo scopo dichiarato di conoscere qualcuno, ma solo con quello eventuale. Insomma, starei a vedere, potrei muovermi con libertà, mentre gli altri tendono scrupolosamente al loro fine».

La cameriera arrivò con i caffè, corredati da bicchierino d’acqua e biscotto offerto dalla casa. Dall’interno provenivano i rumori una conversazione animata: doveva essere arrivato un gruppo per l’aperitivo. Cinzia non era sorpresa dalla conversazione, quanto dalla franchezza. Ammirava la disinvoltura di Precy, a suo agio in quel bar come in un contesto più formale che in apparenza avrebbe richiesto un contegno decisamente misurato; era privo del tono leggero così diffuso fra le persone di successo, in grado di incantare le vedove degli imprenditori, rivelandosi però in seguito indizio di una depressione poco latente (che lei conosceva fin troppo). Lo sentiva vicino, affidabile. E sentiva di piacergli.

«Insomma tu vorresti dirmi che nelle occasioni sociali non bisogna mai avere in testa un obiettivo?»

«Certo. Lo sanno tutti che non bisogna scoprirsi troppo in fretta, ma al di là di questa vecchia massima, credo che non si debba proprio essere troppo determinati: bisogna lasciare le cose nel loro essere. Semmai assecondarle. Nient’altro».

«E tutto questo in contesto che ha un fine dichiarato, noto a tutti, quello che dà il nome alla festa».

«Esatto. Direi che è la condizione migliore per trascorrere un’ottima serata».

5.

Dentro la discussione si era fatta più chiassosa. D’un tratto, arrivò il rumore secco di bicchiere in frantumi.

«Ecco,» disse Precy «magari non proprio fino a questo punto. Ma del resto, una discussione è sempre meglio di una serata sul divano, con le ombre radunate davanti alla porta di casa».

Cinzia notò il tocco un po’ ricercato, ma poiché era un tema che aveva particolarmente a cuore, rimase sorpresa che lui si fosse lasciato andare al punto da sfiorarlo.

«Adesso non dirmi che le tue serate sono così grigie da cercare a tutti i costi una serie tv per fartela passare. Questo riguarda noi, non quelli come te».

«Ah, ecco, te lo dico subito. In generale le serie tv non mi piacciono: sono tutte uguali. Non importa che si tratti di poliziesco, o peggio ancora di quelle di un’epoca storica completamente inventata. Sono tutte costruite allo stesso modo. Guardo invece qualche film, a volte ne rivedo uno magari anche per la quarta o quinta volta: tanto per cercare qualcosa di diverso».

«E funziona?»

«Dipende. Non dico che ti tiri sempre su il morale, ma consola se non altro perché vedi qualcuno che fa le cose come si deve, senza farsi attrarre dalle tendenze del momento. Ti senti meno solo».

Cinzia intravedeva la realtà di un sentimento, una barchetta di sughero sopra l’acqua spenta delle proprie serate. Si era già trovata tre o quattro volte a consolare un’amica, ascoltando la sua sconfitta senza riuscire a parlare di sé. Mentre il comportamento tradiva una determinazione non comune, il discorso aveva continuato a creare nell’interlocutrice la sensazione epidermica di un’adesione che non si traduceva mai in partecipazione concreta. In quel momento stava scoprendo che la forza di Precy era in grado di superare le sue strategie di difesa.

«Ma senti,» proseguì lui, «vorresti dirmi che dobbiamo farcela passare stando davanti allo schermo col solo vantaggio di sentirci degli spettatori più esigenti? Mi sembra un po’ poco. I miei, i loro amici, avevano capito come ci si diverte: cantavano canzoni impresentabili, che io detestavo, ma è innegabile che si divertissero; ed era la loro vita, mica quella degli altri. A me non piacevano? Glielo dicevo? Se ne fottevano, se ne strafregavano, mentre ora stiamo sempre a vedere l’opinione che gli altri hanno di noi. Sì, certo, abbiamo una reputazione digitale da difendere, ma non una che ponga gli stessi problemi di quella di una star hollywoodiana. Noi possiamo anche permetterci di sbagliare».

Era forse stata educata anche lei a sentirsi una spettatrice sempre più esigente, una commentatrice, tutti aspetti utili per assecondare una vocazione gregaria? Osservava i piccoli secchi di latta sui tavoli, pieni di bustine dello zucchero bianche e beige. Il fatto è che sotto quei modi sentiva svolgersi un pensiero che non esitava a manifestarsi, privo dell’incertezza che nel suo caso si accompagnava sempre a ogni espressione, nel timore di turbare un equilibrio di relazioni senza il quale si sarebbe trovata in difficoltà. Aveva sofferto troppo la debolezza della sua famiglia; e proprio ora si accorgeva che quel timore non era indefinito: le diceva che aveva giudicato la sua condizione ingiusta e che avrebbe voluto di più, ma allo stesso tempo, rifacendosi vivo, si annunciava anche infantile e sterile, segno di un tempo che doveva lasciarsi alle spalle, rinunciando alle recriminazioni. Cercò il modo di riprendersi:

«Io non credo che sia un problema per le star di Hollywood, ma che lo sia invece per chi ha poco: se sbaglio io, nessuno è disposto a concedermi un’altra possibilità. Nel tuo caso, invece, tutti stanno a vedere quale sarà la tua prossima mossa, se riesci a riprenderti o meno. L’interesse, nel tuo caso, è vivo a prescindere. Il fatto che a nessuno interessi se io riesco a riprendermi ti dice che per l’opinione pubblica io – e quelli come me – non valgono niente».

«No. Non è che non vali niente,» Precy sorrise, «è che tu prendi troppo sul serio queste dinamiche, le prendi per definitive. D’accordo, dopo una caduta tutti starebbero a vedere la mia mossa successiva, ma sai cosa succederebbe se sbagliassi di nuovo? Che finirei anch’io nel grande calderone dell’irrilevanza, da cui per me sarebbe ancora più difficile risalire, perché si direbbe che in fondo io la mia occasione l’ho già avuta. Perciò non siamo poi così lontani, non credi?»

«Ah, beh, allora si tratta solo di giocarsi al meglio la propria occasione, sempre che ci sia».

«Ma anche qui ti sbagli. L’occasione si dà giorno per giorno in quello che fai, non arriva mica come un biglietto della lotteria. Se si tratta di un biglietto, ce lo abbiamo già in tasca, lo abbiamo già comprato. È che molti si dimenticano di controllarlo».

Se glielo avesse detto un motivatore in un corso di aggiornamento aziendale – e ci era andato pericolosamente vicino – Cinzia lo avrebbe detestato, ma davanti al timbro di voce di Riccardo si sentiva pronta ad accogliere l’argomento in modo meno ostile.

«Un bell’incoraggiamento, ma se sia valido o meno dipende, appunto, da quello che fai ogni giorno. Le dipendenti thailandesi dell’impresa di pulizie che lavorano da noi ad esempio non credo ne sarebbero entusiaste».

«Ecco, anche questa. Ma ogni occasione è sempre relativa al contesto in cui ti muovi, perciò non è affatto detto che a qualcuna di loro le cose possano andare meglio, o peggio, e che questo non dipenda in parte anche dalle scelte che avranno fatto. E ti anticipo subito: certo, tutto questo dipenderà anche dalla loro conoscenza della lingua, dalle loro relazioni, dalla loro salute, dalla capacità di intuire dove potranno essere più utili, ma non puoi venirmi a dire, in astratto, che questa limitata mobilità – pur drammatica, sono d’accordo, purtroppo il tempo che viviamo è questo – non sia anche minimamente dinamica».

Cinzia si affrettò a correggersi:

«No, d’accordo, non volevo arrivare a questo. Ma è vero che tanti si portano dietro studi più elevati rispetto al ruolo che ricoprono ogni giorno».

«Beh sì, questa, è un’altra faccenda, anche se non bisogna scambiare il mezzo, il titolo di studio, per il fine».

Cominciava a farsi più fresco. Precy controllò le notifiche sul telefono.

«Vuoi che ce ne andiamo?» chiese Cinzia.

«No, non preoccuparti, ho ancora un po’ di tempo».

Per quanto le fosse sembrato fin da subito di una cordialità inusuale, ora sapeva che il suo comportamento, superato il senso del dovere, seguiva abbastanza fedelmente i suoi desideri; in quella disponibilità a fermarsi doveva perciò contare anche il fatto di essere seduto con lei. Anzi, era sicuramente così. Confortata da questa opinione, Cinzia cercava di non trattenerlo oltre misura. Riprendere il discorso in un’altra circostanza avrebbe garantito una nuova opportunità.

«Non che mi dispiaccia proseguire, ma non vorrei che facessi tardi con qualche impegno».

«In effetti, ho ancora un appuntamento telefonico, ma non sono in ritardo. Vedi» continuò Precy appoggiando il cellulare, «sulla faccenda relativa a scegliere le cose da fare, a sfruttare le proprie occasioni, mi dico sempre che l’importante è di non assomigliare al mio primo capo. Forse nessuno ha mai capito cosa pensasse veramente, non dico a lezione – teneva anche corsi in università – ma proprio nella vita. Si preoccupava di mostrarsi, per così dire, nel punto di perfetta equidistanza fra due opinioni contrastanti. Anche con noi, che lo conoscevamo meglio, era tutto un “Non vorrei che pensassi…”: continuava a rinnovare questa prudenza a cui doveva la sua fortuna, a partire dagli incarichi vantaggiosi che ricopriva in tre o quattro società. Quando gli chiedevi un parere, ti faceva parlare per poi impiegare la sua indiscutibile intelligenza giocando di sponda, tentando di riferire questo suo metodo alla preoccupazione che aveva per i tuoi studi, mentre invece questa era ancora una volta orientata su di sé, sull’opinione che avevi di lui. Nonostante la fama conquistata presso i suoi colleghi, ho sempre creduto che abbia vissuto la sua vita col freno a mano tirato, finendo per sprecare le sue energie, a forza di tenerle da parte. E in effetti, l’impressione più duratura che ho di lui è che abbia combinato molto meno di ciò che avrebbe potuto fare e non perché facendo meno si sia potuto dedicare con maggior impegno alle cose importanti, ma al contrario, proprio perché a forza di mantenersi illusoriamente equidistante ha finito per mancare gli appuntamenti decisivi, limitandosi a contributi di minor peso. Non per umiltà, dunque, ma per il suo esatto contrario, per ottenere la gloria immediata di qualche carica e un conto in banca un po’ più sostanzioso, che secondo me invece sarebbe cresciuto molto di più se avesse fatto ciò che sapeva, e forse doveva fare. Ecco, con le mie risorse più modeste, mi sono sempre detto che avrei fatto di tutto per evitare di fare questa fine. E ci sto ancora lavorando».

«Credo che nessuno potrebbe scambiarti per lui».

«Ecco, appunto. Ma questo non vale solo per me».

Cinzia arrossì per un istante, giusto il tempo di riprendersi: «Perché non ne parliamo la prossima volta?»

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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