Petrolchimico
di Carlo Alberto Frassanito
Un antroponimo e vagamente protorepubblicano, qualcosa come Arnaldo o Palmiro, ma meno esplicito, per non scivolare nell’allegoria prima e, dio ce ne scampi, nella satira poi. Enrico Rumor – ne si ignori pure la facile ironia.
Enrico, dunque, si avvide in un’afosa serata d’agosto, e si potrebbe indugiare sui particolari relativi al luogo in cui tale agnizione si avverò (una terrazza affacciata su un quartierino provinciale e ridicolo) oppure descrivere i gesti che si compivano durante la riflessione (l’accensione macchinale di una sigaretta); si avvide che l’ideologia di cui si era nutrito e che spesso e volentieri aveva rimpiazzato più usuali aneddoti da salotto, non tanto per épater ormai inépatibili presenti quanto per ostentare una tutta presunta genialità, quest’ideologia dico, contaminava la sua esistenza più di quanto si fosse mai concesso di ammettere.
La merda, in sostanza, lo intossicava da anni, anni che gli apparvero come secoli in quell’epifania. Eppure mai gli stessi bisturi che con talento quasi accademico aveva posato sui cadaveri mediocri di quanti non lo circondavano, lui li aveva incisi nella sua propria carne. Il sangue già schizzava mentre Enrico, con esitazione puerile, conteggiava le ore che quell’idea, percepita sino ad allora così impalpabile e distante, ci aveva messo per avvicinare una tale lancinante concretezza.
Uccidere il padre, fare a pezzi la Legge da subito, senza lasciarla per gran dessert, onde evitare l’imbarazzo di apparire (ancora una volta) sofoclei. Cenni biografici su Romano Rumor: pollone di borghesi anche più minuti di lui, formazione classica per inerzia, sentimenti politici ma del tutto esteriori (un parka e una camiciola fregiata delle citazioni di Mao, in vista, s’intende, della Rivoluzione, malgrado l’autunno caldo lo avesse poi lasciato essenzialmente freddo – come Enrico, era d’altronde un uomo contemplativo), letture, queste sì meno sbrigative, dalla vulgata francofortese, e in special modo dall’erotodidattica frommiana. Gli anni del reflusso lo avevano infine relegato in un asfittico ufficio pubblico, dove era sopravvissuto non tanto negando per partito preso ogni ambizione privatistica, quanto vagheggiando un ritiro nella campagna sabina.
Enrico si sforzava di odiare quella figura dalle mani così benevole e così detestabili, eppure l’unica affezione che lo percorreva era la nostalgia per un ricordo mai vissuto: Romano, febbricitante e incappottato fino ai denti, nell’inverno del settantatré, l’anno in cui aveva fatto la pleurite, ad aspettare al gelo la sua ragazza fuori da un cinemino in cui si replicava Il dottor Živago. Lo stava rammentando come in una visione, lo stesso leitmotiv e la stessa neve de Le notti bianche di Visconti, il volto della sua futura madre trasfigurato in quello di Maria Schell.
Dalla postura moralistica che aveva assunto, Enrico non poteva ora che sporgersi verso il basso, contro un baratro dal rancore sordo, senza spasimi. Se in passato non c’era stato verso, impossibile supporre un povero stronzo, un maschio incapace persino di allacciarsi le scarpe della festa, ripudiare quella santa donna – perdonare i cliché solo qualora autentici: tutte le madri del Sud sono o vergini addolorate o femmine in odore di canonizzazione – adesso tutta la vicenda, squisitamente in accordo con lo Zeitgeist, acquistava una dimensione esatta e incredibilmente ponderabile, uno schema quasi confortante nella sua cristallina intelligibilità.
Il tradimento del focolare non lo sconvolgeva poi tanto, lo imbestialiva piuttosto la beffa di essere sopravvissuto al padre, ma derubato finanche del conforto di un feticcio, per quanto castrante, di intatta esemplarità. Il Potere, e buona prassi obbligherebbe qui a impiegare una dizione se non altro meno naif, non si era limitato a cannibalizzarglielo – non ne avanzavano a riprova né scheletri né reliquie – gli aveva invece sfigurato i connotati con diligenza da macellaio.
Ripensava al Philips, lasciato spento nel cuore degli anni Ottanta, e al silenzio sovrastato da una voce lievitata: replicava quella nuova di un piccinnu in preda ai perché. Non se ne sfornava che un enciclopedismo ingenuo, mai più in là di una socratica ammissione di insipienza, dalla poetica di Palombella Rossa alla meccanica dell’asciugacapelli.
D’altronde era proprio dall’ordine del discorso, già fatalmente sovvertito, che Enrico aveva presentito tutto, molto prima del disonore. Quel prendere umido frignandosi addosso, i «sogni mai realizzati», i «rifarsi una vita», le «occasioni mancate» erano soltanto il preludio di una Bovary riscritta, che ne so, da Boncompagni. Nel seguito, come da copione, il lessico paterno aveva semplicemente rivelato il suo debito con la Bolognina e non c’era davvero alcuna ragione di stupirsi, lavorando more geometrico, se l’amore coniugale e la paternità si erano assottigliati fino allo spessore di una brochure.
L’intera vicenda, e questo Enrico lo sapeva bene, poteva avere l’aria dell’ennesima banalità, della mera cazzata, confortata peraltro dall’esempio di innumerevoli e illustrissimi precedenti. In fin dei conti, a scandalizzarsi di un sessantenne bavoso che pianta baracca e burattini per una ballerina non restavano neanche più le professoresse di latino antiabortiste (otemporaomores), ed Enrico non era certo il tipo da concedersi il diritto o il piacere allo scandalo. Da buon intenditor di sé, lui stesso qualche momento prima avrebbe declassato quella sua privata rivelazione a buon pretesto per inedite recriminazioni, vecchia ma sempre godibilissima abitudine.
E tuttavia l’aneddoto paterno lo penetrava ora con eccezionale violenza, quasi che lo rivivesse in sé per la prima volta dopo svariati anni. Era come avvertire, a tratti, il fiato corto, la grassa raucedine di una risata oscenamente sguaiata. Non si trattava di un imperativo o di un divieto, era un’esortazione untuosa, liberatoria e celerina insieme, l’apologia spudorata della possibilità, ecco. Godi, anima stanca di tacere (da leggere con fare perlomeno canzonatorio).
A quest’altezza, pure il meno avveduto se non altro lo intuisce, l’eventualità che l’Enrico Rumor metta scarpe e cappotto, prenda e vada via, rappresenta in potenza un rischio reale. La tentazione, fuor di metafora, di cadere nella novellistica spicciola diventa forte, una volta incrociato, quasi per combinazione, materiale all’apparenza così promettente; e d’altra parte non esiste diritto più sacrosanto al domandarsi dove perdio si voglia andare a parare.
Se non fosse che il temperamento riluttante, anzitutto nei confronti dell’azione, dell’Enrico Rumor in questione escluda de facto qualunque sviluppo non puramente teoretico, motivo per il quale la maschera potrà fare unicamente quel che in effetti poi farà: tirare la prima boccata di fumo, perseverare come statua di sale.
E, per l’appunto, Enrico già ricascava nei vecchi schemi, un’altra volta nella rassicurante autoreferenzialità, riprendeva a costruire i suoi castelli a quella sua maniera così volgarmente speculativa: la liberazione sessuale, il referendum del settantaquattro, miscelfucò etcetera. Questa volta però, si diceva, non avrebbe ceduto ai sentimentalismi, avrebbe profittato di quell’occasionale lucidità, almeno fin tanto che fosse durata. E non per coraggio, talmente distante dall’immagine che aveva di sé, piuttosto per disprezzo di quella particolare forma di apostasia che consiste nell’abbandonare le cose a metà.
Un’occhiata, gettata in quel momento oltre la ringhiera, lo riportava d’acchito alla corporeità. Fissando dirimpetto i condomìni ingialliti nella penombra dei lampioni avvertiva una sensazione carnale di conforto – contraffatta ça va sans dire. Braccia e gambe si facevano più leggere, il respiro a poco a poco meno asmatico.
Si domandava – e ne rideva, cazzo se ne rideva – come la veglia che stava sperimentando avrebbe potuto esperirla in altro luogo, in altro tempo oltre a quelli in cui si trovava, se non fosse poi un’ironia persino troppo tragica quella di trovarsi a sfottere il secondino esattamente nel cesso, proprio durante l’intermezzo, che con generosità il secondino gli aveva concesso per pisciare.
Per lui, del resto, così come per tutti gli altri mammiferi a contratto suoi pari, non esistevano che due stagioni, la bella e la brutta, entrambe insoffribili. Con che puerilità, adesso finalmente lo poteva sospettare, durante la brutta (e figurarsela nel gelo di una capitale nordeuropea o in mezzo al nebbione del varesotto poco importa ai fini del nostro ragionamento) si era costretto a desiderare la luce della bella, quanto talento era servito a ogni partenza per rimpiangere una terra biblica, quanta retorica per qualificare ogni rimpatrio un nostos.
Enrico non era un idiota, almeno non nel senso ordinario del termine, sapeva, se più per esperienza diretta oppure per cauto disfattismo non avrebbe potuto dire, ma sapeva che nella sua Colchide non restava che il puzzo dell’antico dolore, un rigurgito della passata amarezza. Eppure si ostinava, manco a farlo apposta, a vederci una landa obsoleta, una nazione preistorica, antistorica si sarebbe corretto, popolata ancora da Signori obesi intenti a comporre metafisiche e Servi zeppi di poppanti sfamati a latte di capra e limoni. (È vitale non farsi prendere la mano da vezzi di pure lontano gusto meridionalista, neanche per moventi di pretestuosa immedesimazione).
Dimodoché, ogni qual volta rincasava e vi scopriva esultanti futuristi in luogo degli attesi idoli nudi e analfabeti, finiva immancabilmente per invidiare il Nord nella sua ripugnante, quanto scoperta, attualità. Quegli interminati grand tour, che nelle sue fantasie più spinte si fingeva sotto canicole di carne cruda oppure a costa di acque sbiancate e infeconde, si risolvevano sempre, e neanche troppo a malincuore, in un requiem in suffragio della fame sepolta sotto i villaggi vacanze e i parcheggi, del Frazer immiserito a folclore. – Tanto, va detto, aveva potuto la suggestione di certa narrativa bucolica consumata in età forse sin troppo precoce.
A fronte di quel richiamo per così dire politico, quindi, Enrico si limitava a riconoscere, con piglio un po’ grottesco un po’ eroico, di non essere poi molto meno di un vacanziere dentro a quel Paese di cui non sapeva più riprodurre il sì (due o tre vocali ostentatamente chiuse, la esse scempiata e un buon numero di calchi esteri innestati su di un marcato accento meridionale gli davano ormai l’aria di un apolide cresciuto dappertutto e dunque da nessuna parte) né ripetere le buone convenzioni di pessimo gusto. La sua, doveva concludere, non era stata che l’ennesima prova di autoerotismo, benedetta semmai dalla memoria di una stagione che con ogni probabilità non era mai fiorita, se non chissà per indurre un lutto a buon mercato o un’abdicazione definitiva.
Chiaro che a un simile stato di prostrazione poco o per niente giovava l’isolamento, al quale Enrico aveva aderito in ragione di una non meglio precisata urgenza di clausura, ancorché di reclusione si sarebbe in realtà dovuto parlare. E l’attardarsi in una vecchia cameretta con le sbarre alle finestre, tra libri del ginnasio e pile di Dylan Dog, avrebbe acuito il timido cinismo di chiunque si fosse prima convinto della necessità di proscrivere uno per uno i propri simili nel novero degli “altri” e solo in seguito capacitato che erano stati gli “altri”, invero, a buttarlo fuori dal consorzio umano a calci nel culo.
Gli ultimi incontri ravvicinati – andava a naso – risalivano perlomeno a una decina d’anni prima. Gliene sovveniva uno in particolare, di cui avrebbe volentieri smarrito il ricordo: una cena fra amici (si tratterebbe, a voler essere esatti, di quelli che si suol chiamare amici da una vita, per via del privilegio che hanno di non frequentarsi abbastanza) alla quale aveva preso parte mosso soltanto dall’ambizione di ritrovare per la prima volta in uno spazio materiale ognuno di quei braccianti d’alto bordo seminati per il mondo, da cui un tempo aveva ricevuto il saluto contraccambiandolo poi con l’offerta di un affetto servito, per strizza naturalmente, in telegrammi incostanti e stipati di collera.
Dal convito, di rara inutilità, Enrico aveva avuto occasione di osservare da vicino quello che in gioventù aveva giudicato il meglio che dell’umano, nella misura di un criterio a suo dire morale, era riuscito a scovare. All’epoca dei fatti, stando agli scarsi risultati di quella privata selezione artificiale, non si era saputo decidere se fosse stata la sua moralità negli anni a irrigidirsi, oppure la vita-lontano-dalla-provincia a deturpare i visi sfatti, i capelli meno folti e i seni un po’ più avvizziti di quei carissimi terzaviisti che lo fissavano intorno alla tavola apparecchiata – in questa sua rappresentazione del divenire (revival della storia andata) resisteva, neanche a dirlo, una certa perseveranza a considerarsi estraneo, vale a dire, in più franche parole, superiore.
Tant’è, l’amena serata era trascorsa senza intoppi, filata liscia in mezzo a un coro di simposiasti moderatamente impensieriti, e non per questo meno giulivi, da (in ordine sparso): l’aggiornamento del curriculum, l’iscrizione della bambina in piscina, il rendimento di un pacchetto azionario, il bando di un secondo dottorato a Leida, una sgradevole allergia al lattosio. Per parte sua, Enrico si era deciso per un’opposizione di solidarietà nazionale, era intervenuto di rado e soltanto se interpellato, contentandosi di proferire, in tono né stanco né contrariato, qualche minchiata su quanto si sottovalutasse la pioggia e lo irritassero le molestie degli operatori telefonici. Per amor di patria si era astenuto da qualsivoglia rappresaglia verbale e ne aveva riscosso in cambio un attestato di stima per il modo in cui dimostrava la sua età.
– Due parole su quella giovinezza di cui Enrico aveva pressoché piene le palle: non si parla di parteggiare per l’una o l’altra fronda del cosiddetto conflitto generazionale (padri/figli, pensionati/stagionali, partigiani/astenuti per intendersi), ma di attemparsi volutamente perché non si reggono più le opportunità, le canzoni sui vent’anni, il canone d’affitto e la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Si parla di volere indietro qualcuno di quei cari Catoni che ci credevano un branco di frocetti buoni soltanto a drogarsi, di auspicare una mozione alle Nazioni Unite per la decolonizzazione di cotesta età fiorita. Tutto qui.
C’erano pur state giornate di refrigerio in cui tenere lunghe disquisizioni completamente svestiti, Enrico le ripensava ora con rimorso. Ma vuoi perché sotto sotto se n’era fatto un vanto di quella fedeltà non richiesta, vuoi perché a un godimento plausibile aveva sempre anteposto un supplizio mancato, lo lasciava insensibile la prospettiva di trovarne di nuove.
Preferiva di tanto in tanto, invece, compiacersi dello strazio che gli procurava la mancanza, un po’ come un buco nel cappotto che non ci si arrende ad accomodare con una toppa, dacché, in fin dei conti, l’inverno non viene che una volta l’anno e il gelo dopotutto rinfranca.
Quel buco, in effetti, aveva nome Anita, sebbene più volentieri Enrico lo menzionasse con gli appellativi di Eleonora, Livia o anche Lucio, a seconda del caso e dell’umore. Aveva cominciato all’università, quando lei bazzicava ancora le filodrammatiche e a lui era sembrato quasi naturale metterle le parole in bocca (il fatto che fosse una donna lo aveva reso solo più facile).
Il gioco delle parti donava talmente a entrambi, che non avevano esitato a scimmiottare i morosi della Capponcina prima e a impiegare, senza accortezza alcuna, frasi da romanzo poi. Quindi la mimesi aveva preso il sopravvento e alla lunga le coppie illustri si erano moltiplicate: Mogol-Battisti, i coniugi Andreotti – mentre di Anita a mano a mano non era rimasta traccia. Rarefatta dietro le parole di un maschio, ne era diventata inconsapevole una sorta di epitome o, fa lo stesso, di amante.
Per innegabile vanità, allora Enrico non se n’era lamentato poi troppo, aveva semplicemente sospeso le sue convinzioni alla vista di cotanto servilismo; si può dire anzi che ne avesse approfittato, nell’ebbrezza onnipotente di fare del mondo a propria immagine e somiglianza. Se e quando l’impotenza logorava, avanzava almeno il rifugio di un duo che, a giudizio unanime, era il più affiatato sulla piazza.
Adesso non poteva davvero biasimarla se in certe ricorrenze (feste comandate, giorni natali) non aveva voglia di rispondere o richiamarlo, tardi ormai per discolparsi. Avrebbe dovuto antivederlo che un altro prima o dopo sarebbe sopravvenuto, d’un genere meno epistolare e più d’appendice, uno che almeno non le si addormentasse al fianco. Tanta felicità, in fondo, andava scontata.
E non c’era dubbio che pure avesse influito la proposta di una sessualità anticonvenzionale, non inquadrabile, in sintesi, nel piacere onnipervadente o nella copula capitalizzata; per questo, un giorno o l’altro, se l’aspettava di riconoscere nella buca delle lettere (a quale indirizzo poi) una partecipazione o l’annunzio di un battesimo.
Sul serio, non tirarla ancora per le lunghe e senza per questo pretendere di aver detto quanto c’era da dire, non millantare alcunché, in ispecie conclusioni. Qualora, a epilogo, uno si sentisse in debito di un colpo di scena, potrebbe trovare doverosa una conflagrazione universale, per finire in bellezza e senza tema di apocatastasi. Diversamente, se il lieto fine avesse fatto il suo tempo, non rimarrebbe che optare per l’attesa: un interminato piano sequenza su una sovrumana coda al casello o allo sportello delle Poste. Nell’uno e nell’altro caso, nondimeno, la svolta sarebbe interdetta e non soltanto per le ragioni sopracitate (nessun allegorismo, fedeltà alla dura cartapesta etc.), ma pure per il ben riposto terrore di averla già audita – la svolta – e già faticosamente peristaltizzata, in qualche antologia di narrativa generazionale per esordienti sotto i trenta.
Enrico, dunque, si arrese in un’afosa serata di agosto, e si potrebbe indugiare sulla superfluità di un’imbarazzante quanto fastidiosa composizione ad anello, ma si arrese e non sulla scorta di motivazioni di finanche vago ordine realpolitico (è bene ribadirlo), bensì in ragione di sopravvenute condizioni di debolezza in primo e più doloroso luogo morale.
Nell’atto di prendere l’ultima boccata, allora, si figurerà nella memoria Fräulein Kassel, con tutto il suo scomposto corredo di musi lunghi, tagli corti, scarpe basse e alte aspettative, affacciata come al suo solito dalle stanze in Corso Càvour. Quando, invece, si deciderà a espellere i prodotti tossici e francamente stomachevoli di quella combustione, sarà il retrogusto amarognolo a precisare meglio i contorni di quella creatura filoteutonica, a inquadrarne l’ethos manzoniano, l’evangelismo reazionario ma di buone intenzioni.
Così, al contempo, le feroci discussioni a proposito della volontarietà du clochardage, della rimozione cattolica dei conflitti materiali, della colpevolizzazione premeditata dell’individuo e di altre pari e simili stronzate passeranno vivaddio sullo sfondo. Riaffioreranno, piuttosto, i gesti forzatamente sgraziati, e giustificabili soltanto nel tentativo mal riuscito di occultare un impeccabile pedigree, il rigetto deliberato di qualunque arrangiamento consolatorio del credo cristiano o, fa lo stesso, la serena e rassegnata accettazione del Male in questa vita, la fede, quella sì incrollabile, in certe visite ai musei del posto nei giorni più torridi dell’anno. Il tutto, poi, accompagnato da un crescente sentimento d’invidia.
Per forza di cose, infine, ed ergo senza diritto alcuno al recesso, Enrico Rumor pesterà il mozzicone sull’intonaco scrostato del parapetto e, facendolo, si scoprirà colmo d’insospettata ammirazione, in qualche misura fors’anche commosso nel passare in incantata rassegna i mille e più sprovveduti progetti per l’avvenire della suddetta Fräulein. Probabilmente gli si stringerà il cuore alla prospettiva di un matrimonio in parrocchia con un pittore mortodifame, prima di – quanti? perlomeno due o tre parti senza epidurale. Per la lettura nuziale, a dimostrazione dell’assoluta mancanza di calcolo di una tale commedia, il giglio nel campo…l’uccello nel cielo.