Buena Vista Social Club: Zerocalcare, autobiografia di una generazione
Questa rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe
Me so’ ingarellato… dalla newsletter del Corriere
(spoiler alert)
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Zerocalcare, autobiografia di una generazione
di
Alessandro Trocino
Repubblica ci ha fatto pure un delizioso dizionarietto (se fracica, «si bagna»), intitolandolo manuale for dummies (e forse serviva un dizionarietto inglese anche per il titolo, «per principianti»). La polemica è deflagrata in rete, per la gioia di Guia Soncini, che ci ha costruito un impero di carta, sulla suscettibilità. Ha scritto che guardando la prima puntata della serie di ZeroCalcare – «Strappare lungo i bordi» – non ci ha capito una parola. Poi i romani, dice, «si sono offesissimi per il mio aver notato che, fuori Roma, ci vorranno i sottotitoli». E lei, che ha appena sfornato un libro sulla suscettibilità e su chi sbrocca («si arrabbia») e se pia male (ci resta male), ha scapocciato di piacere al flame (la fiammata web). Anche perché poi, quello che succede invariabilmente, è lo slittamento di senso. La sua critica ironica si è slabbrata in una valanga di commenti social e tutti sono accorsi a difendere l’onore infangato di ZeroCalcare e sono arrivate le truppe cammellate di indignados pronte ad accusare i milanesi bauscia di disprezzare la romanità, con tutto il seguito di trite polemiche campanilistiche e l’eterno dualismo Roma-Milano più o meno divertente («Milano è una Sutri che si crede Londra», «hanno solo un blocco di cemento ricoperto di muffe da presepe che chiamano bosco verticale», cit. Giacomo Giubilini).
C’è poco da dire sulla questione del dialetto, anzi della lingua. Come ha replicato lo stesso Michele Rech, 37 anni, in arte ZeroCalcare: «Madonna regà, ma come ve va de ingarellavve su sta cosa?». E’ come se avessimo contestato, perché incomprensibile, il biiv di Gomorra (bevi), il che casso de misure xe? del Pojana-Pennacchi a Propaganda, il Quaranta dì, quaranta nott, a San Vittur a ciapaa i bott di Jannacci, ma pure lo scappellamento a destra del Conte Mascetti e il gramelot di Dario Fo. Siamo tutti foresti in questa giungla di lingue, di slang e di supercazzole e non c’è da organizzare nessuna resistenza, solo provare a barcamenarsi e a uscire dall’analfabetismo funzionale e reale che ci attanaglia, oppure cambiare canale (anzi, programma o piattaforma). Poi è ovvio che la polemica sul romanesco ha senso solo per i telegiornali nazionali e per i doppiaggi di film girati in Piemonte o in Liguria, dove ci sono attori che dicono «borza» invece di «borsa» e dove il sempre ottimo Marinelli, nelle vesti però di Fabrizio De Andrè, parla come Totti.
Infine, in «Strappare lungo i bordi», in certi passaggi c’è davvero un problema di comprensione, ma è dato più che dalle espressioni gergali dal parlato rapido e trascinato, efficacissimo ma effettivamente a volte un po’ faticoso.
Insomma le chiacchiere stanno a zero, come diceva spesso Walter Veltroni nei suoi comizi, suscitando qualche perplessità nei non romanocentrici, l’arte è arte e il dialetto, lo slang, gli accenti, i modi di dire vernacolari sono strumenti meravigliosi se e quando si adattano al testo e al contesto e perché raccontano l’infinitamente piccolo con una precisione e una ricchezza che l’italiano ufficiale da Treccani se lo scorda. Ed è anche vero quel che dice Soncini sul romano, che «è inconsapevole di parlare romano, convinto che quella roba lì che parla lui, quello strascinamento fonetico, quello scempio della logopedia sia italiano corretto». Per il resto, il provincialismo del romano che ti dice «busta?» al supermercato è speculare a quello del milanese che ti dice «sacchetto?». Ed è anche vero che poi sotto il Cupolone prevale sempre il chittese…, il e fattela ‘na risata, lo stacce, perché il romano de Roma non sopporta gli accolli (i pesantoni) e gl’arimbalza (non gli fa né caldo né freddo) chi se la sente calla («chi ha un eccesso di fiducia in se stesso»). Zero permalosità, se non retorica, di posizionamento, ma l’eterna digestione nel grande minestrone plurisecolare, sin troppo saporito, di una città che non si stupisce di niente e assimila tutto.
Più interessante sarebbe invece parlare del fenomeno ZeroCalcare, glorificato lo scorso anno da un’imbarazzante copertina dell’Espresso, che lo sparava in prima con il titolo: «L’ultimo intellettuale». Lui è un campione di ironia e di autoironia e naturalmente all’epoca ci ha scherzato sopra, ma forse sarebbe il momento di chiedersi se questi nuovi monumenti che erigiamo poggino su fondamenta abbastanza solide da resistere nel tempo. Non è nostalgia da boomer degli intellettuali novecenteschi alla Eco e Pasolini, è solo perplessità per quando si sentono certe iperboli. Come quando leggi Rivista Studio e trovi il titolo: «Marracash è l’ultimo intellettuale?». E va bene, nell’ultimo album e nelle interviste cita Mark Fisher e Raffaele Alberto Ventura, ma poi scrive cose come «c’è sempre un maiale in mezzo come il McBacon», «la corruzione è l’unico vero made in Italy», che non sono proprio un capolavoro di profondità (al netto di una forma d’arte, il rap, che richiede anche questo linguaggio).
Tornando a ZeroCalcare la sua serie è bella e divertente, piena di invenzioni e di citazioni, e mischia in un flusso di coscienza torrenziale il sentimento precario, nevrotico, ironico e pieno di sensi di colpa per i mali del mondo che è proprio di molti giovani (il suicidio di Alice è un’evidente metafora del suicidio di una generazione). Piace molto soprattutto a quei giovani che frequentavano i centri sociali (nella serie si vede La Strada della Garbatella) che un tempo si sarebbero detti di sinistra e ora forse solo antifascisti e contro le «guardie», culturalmente fluidi, tra Manu Chao e Tiziano Ferro. Ben lontani dalla Ztl, più vicini a Rebibbia e Pigneto, non hanno più una rappresentanza politica a sinistra, da quando Rifondazione ha perso smalto. E alcuni di loro, avendo preso una sbandata lampo per i 5 Stelle, hanno ripudiato da tempo il Pd o lo accettano malinconicamente, quasi vergognandosene.
Quella sinistra che non sa più bene cosa pensare, ha smarrito l’ideologia, è attratta dalla marginalità periferica perché non è riuscita a integrarsi nel centro o si è integrata ma fa finta di non esserlo. Non a caso il Rech campione della borgata romana, approdato sulla regina delle piattaforme borghesi post moderne, Netflix, un po’ se ne vergogna e ci scherza su, per lavarsi la coscienza e mostrarsi ancora un po’ disadattato e coraggiosamente irriverente. Ma ZeroCalcare non ha la forza nichilista e ribelle di Andrea Pazienza, del suo Zanardi. Il suo flusso – un po’ auto indulgente e consolatorio – si può definire (parafrasando Gobetti) l’autobiografia di una generazione, oltre che di una città. Di una generazione precaria, disadattata, che non ce la fa, che non trova una posizione nella società, che si è presa male e non ci sta dentro, per dirla in milanese.
Luca Valtorta su Repubblica dice cose piuttosto condivisibili, anche se un po’ enfatiche: «Zerocalcare coglie nel segno perché usa un nuovo linguaggio, potente per molti motivi ma soprattutto perché, prima di tutto, è sincero e poi perché coglie lo spirito dei tempi: parla ai depressi, agli schizzati, a chi soffre, a chi non ce la fa più, a chi è stanco, a chi vorrebbe un po’ di giustizia, di pace, di tranquillità. Parla a tutti noi. O almeno alla maggioranza di noi che fa sempre più fatica a riconoscersi in una categoria o in un partito. Ma quello di Zerocalcare non è qualunquismo: è il suo contrario. È sensibilità sociale, senso di responsabilità, voglia di cambiare le cose. In meglio. Una narrazione potente in cui c’è forza perché c’è innocenza, gioia, inconsapevolezza, dolore, rabbia. E c’è pietas».
Tutto vero, anche se ci sarebbe qualcosa da dire sulla parte finale del ragionamento. Prendi l’ultima striscia di ZeroCalcare pubblicata sull’Essenziale. Parla del green pass, con accenti critici, perché «è stato trasformato in uno spartiacque valoriale assoluto». Racconta della guerra santa che viviamo nella nostra società, tra gli amici, in famiglia. «Butta giù quella nazista bavosa di tua madre», dice un uomo al figlio, sopra una torre. Lui commenta: «Così me pare estremo». Poi spiega che quelli che «rompono er cazzo contro il Green pass» sono «le persone che hanno animato l’opposizione sociale in questo Paese in questi anni», «collettivi, reti antifasciste, sindacati conflittuali, femministe». Stiamo uscendo dalla pandemia, dice, «senza avere minimamente messo in discussione il modello con cui ci siamo entrati». Cioè «vi licenziano come cazzo vi pare» ed «eravate più tonici quando vivevate con l’ansia della terza settimana».
Rech è spaventato che «a questo appuntamento con la catastrofe si arrivi con questa spaccatura», dove l’unica soluzione pare «la pulizia dei kontatti» social. Il finale è questo: «Se dovessi rispondere alla domanda, perché non dici nulla su quello che succede vigliacco maledetto, le risposte sarebbero due». La prima: «Uno, perché non ce sto a capì un cazzo». «Due, perché in questa lacerazione profonda e orizzontale, io non penso di averci un ruolo come singolo. Ma se proprio me lo vuoi trova’, sono sicuro che non dovrebbe essere quello di spaccare ulteriormente il campo mio. E mi viene da chiedere, a chi questo ruolo se lo sta assumendo e smania per accollarmelo a me, quale campo pensa di stare aiutando. Bah».
Lo diciamo anche noi «bah». Perché poi sarebbe triste se davvero l’autobiografia di una generazione fosse questa, gente confusa che non si vuole «accollare» la responsabilità di prendere una posizione su un tema fondante, come i vaccini e il green pass, e quindi l’altruismo, il rispetto della comunità e delle vittime che ci sono state e ci saranno. Sarebbe del tutto legittimo non esprimersi per un artista, che non è un politico. Ma Rech fa di più. Non solo non prende posizione, ma rivendica la necessità di non prendere posizione per non «spaccare ulteriormente» il campo suo. Che poi quale sia, il campo suo, non è chiaro. Come se la generazione che si sente rappresentata da lui fosse «un campo» unico. E come se «né con lo Stato né con i no green pass» fosse una posizione accettabile per «l’ultimo intellettuale».
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Zero ‘ncarcato.
Ecco esatto, non è un intellettuale e non gli si può chiedere di esserlo. Il fatto che il capitalismo editoriale non lasci spazio agli intellettuali non fa di un buon prodotto commerciale (buono perché francamente nuovo e non retorico) l’opera di un intellettuale. Checchè ne dica L’Espresso.