Nostalgie della terra
di Mauro Tetti
Ogni cosa vissuta o immaginata continuava a ingannarmi trascinandomi dabbasso in qualche buco sconosciuto della vita. Sentimento che avvertivo più forte durante e dopo il primo incontro con Salif. La sera passeggiavo solo nei vicoli male illuminati della Marina e mi nascondevo nei locali alla moda. La marcia sferragliante dei soldati e dei loro mezzi ci costringeva in quei posti luridi, umidi di alcolici, dove i marinai intonavano un canto scialandrone, che vuol dire scialo, o imitavano il fischio agonizzante della balena che spiaggia. Poi li guardavo danzare fino a tardi. Alcuni sfioravano le chitarre. Gli arpeggi e i giochi da tavola con le clessidre, le locandine dei film tedeschi anni Venti o i pasticci che oscuravano le pareti: tutto pareva il risultato di qualche gesto disperato. Da quelle stesse sale si poteva scendere nella città sotterranea, fatta di cunicoli e pietra, di labirinti dove i turisti si riparavano dai fuochi dell’esercito. L’incontro aveva gli stessi contorni evanescenti del sogno. Lui mi ha detto, porgendomi la mano, che tutti lo chiamavano Salif. Aveva l’aria stanca e puzzava in modo ripugnante, i lobi delle orecchie dilatati e un anello sul labbro inferiore. Non so cosa fosse: forse erano gli anfibi, quel modo di tenere i calzoni arrotolati fino alle ginocchia, la camicia, il gilè, il fazzoletto rosso sul collo, una specie di cresta floscia di capelli che si posava sulla tempia, o vaiecerca cos’altro lo facesse sembrare parte di quel sogno. Respingeva e attraeva allo stesso tempo. Come se lui fosse una parte di me nascosta e latente, magari per pudore. Mi ha guardato come per dirmi che non eravamo tanto diversi io e lui. Tra un po’ mi esibisco, ha detto Salif. Bravo, ho risposto. Non parli molto tu, eh. Eh. Tra poco faccio il gioco delle corde, ha detto. Poco dopo ho capito cosa intendesse. Immerso e legato in un vascone pieno d’acqua, si è liberato con un trucco stupido. È riemerso appena prima di annegare e schiumare davanti al pubblico irrequieto. I marinai applaudivano e non sapevano nemmanco il perché. Poi Salif si è lanciato nel vuoto del locale, ha oscillato come un impiccato appeso a un finto scorsoio che si è sciolto all’ultimo senza torcergli il collo. Giocava coi nodi e pareva tanto sicuro. Qualche marinaio si offriva di legargli i polsi e lui non si tirava indietro, ma riusciva ogni volta a liberare i legacci e a disfare i nodi. Schioccava le funi come fruste a pochi centimetri dai nostri piedi. Quando è venuto giù il sipario, Salif ha raccolto le corde con agilità ed è fuggito via. Non prima di sorridermi e mostrarmi pollice e mignolo della mano. Cercami, chiedi di me, devo parlarti del cubo e so che puoi capire. Di che cubo?, ho chiesto io. Poteva essere la prima volta che ne sentivo parlare da estranei, e dopo tanto tempo. Un cubo è un cubo. Sorrideva. È un cubo prezioso? Ha trattenuto il respiro e ha parlato. Mi pensar que sì, ha detto così. Poi è sparito in qualche altra fredda galera della Marina.
Le mattine andavano e io continuavo a non fare niente. Avevo letto su una rivista che l’età migliore per l’attività intellettuale è dai quindici ai trent’anni. E io avevo deciso di sprecarla guardando il soffitto, c’erano numeri e formule matematiche, onde silenziose su isole di oceani di pianeti sconosciuti, donne e uomini importanti immersi nell’immaginazione. C’erano re e regine da incatenare, fuochi e fiamme nelle piazze dei villaggi. Accumulavo idee bizzarre e le segnavo sull’agenda: le avrei forse sfruttate dopo i trent’anni. Naira lavorava tutto il giorno e la sera andava alle lezioni di danza per diventare una ballerina professionista. Lei pensava che stessi sprecando il mio tempo ma non capiva che invece stavo accumulando idee per il futuro. «Non fai niente tutto il giorno», mi ha detto un giorno. «Non facciamo una passeggiata da secoli». Io non ho risposto. Io non rispondevo mai perché mi sembrava inutile. Quando per strada incrociavo un amico facevo finta di non vederlo. Quando ero costretto a fermarmi cercavo un modo per dileguarmi.
«Ehi, carissimo».
«Ehi».
«Come stai? A casa tutto bene? E il lavoro? E questo l’hai visto? E quell’altro?».
E io dicevo: «Sì sì, infatti; devo andare, si è fatto tardi».
A volte dicevo anche: «Guarda che cielo meraviglioso oggi»; oppure indicavo uno sciame di sagentarrubia, che vuol dire fenicotteri, ma che meraviglia quando nel buio accarezzano il cielo come aerei silenziosi, volano come tramonti viventi della Tanzania; e mentre lui alzava lo sguardo io filavo via. Così mi sono reso conto di non avere più amici. E dopo non avrei avuto né amici né Naira. A guardarmi bene potevo sembrare uno a cui non era rimasto niente, invece ero pieno di idee grazie al sistema che attuavo da mesi: non fare niente.
Una sera passeggiavo con Naira nei moli sovrastati dal promontorio della Sella del Diavolo. In quel punto Dio chiese agli Angeli di prostrarsi davanti a tanta bellezza della natura, tutti obbedirono e nacque il Golfo degli Angeli. Tutti tranne uno, che disse: La mia luce è intensa quanto la tua, e posso costruire mondi altrettanto accoglienti, ciocche di erbe selvatiche, mari e monti e uomini a giustificare la straordinaria varietà degli esseri viventi. E Dio disse: Cal Lo Ni, che voleva dire sciocco. Schiacciò Lucifero sul promontorio fino a scavare la roccia e a formare una sella. Naira rideva delle mie fantasie. Era lì, nella torre spagnola del Puerto, che ci eravamo uniti per la prima volta. E insieme congiunti alle stelle nell’unico modo in cui è possibile farlo: sognando. Ogni volta che passavamo di lì mi prendeva la voglia di tenerla stretta e baciarla in continuazione, poi la lama dei sorrisi le sfiorava il viso. Sarebbe stato ridicolo. Sei ridicolo se fai una cosa così, pensavo tra me. Quindi non la toccavo mai.
Quella stessa sera ho provato a spiegarle tutto: «Ho intenzione di partire».
«Come?», con gli occhi lucidi.
«Per mare».
«Non come, ma, che significa?».
«Significa quello che ho detto».
«E io?», ha detto Naira. «E il lavoro? E poi la vita?».
Non ho risposto perché non mi piacciono molto le domande a trabocchetto. E poi cos’era questa storia della vita? Che cosa voleva da me? Naira mi ha guardato e ha preso a piangere.
«Spero che fai naufragio», ha detto.
Testo tratto da: Nostalgie della terra di Mauro Tetti (INCURSIONI 8, Italo Svevo, 2021)