Nota di lettura su “Unità stratigrafiche” di Laura Liberale, Arcipelago Itaca, 2020.
di Carlo Giacobbi
Unità stratigrafiche è opera avente ad oggetto ciò che Jaspers definisce la <<situazione limite>> dell’esistenza: id est, la morte.
Le liriche che compongono la raccolta, e in senso figurato ogni pagina in cui si stratifica l’indagine empirico-scientifica della Nostra attorno al referente tematico, sembrano integrare, come enunciato nel titolo, le <<unità>> fattuali che danno corpo al discorso poetico; gli strati appunto, i sedimenti antropici dai quali inferire elementi conoscitivi di ordine antropologico sull’evento terminativo dell’esperienza umana.
Il macrotesto, a struttura quadripartita, si specifica nelle sezioni della Tanatoestetica, de I mezzi, dell’Animal-animot-animort, del Fuori sezione, rispettivamente concernenti: l’estetica dei defunti (la loro presentabilità alla veglia funebre); i medium (gli strumenti di connessione tra vivi e trapassati); il ripensamento d’una maggiore dignitas da riconoscere all’animalità (non umana); la presenza e la cura d’una madre nei confronti del figlio in hora mortis.
La morte, dunque. E la si pronunci questa parola, se ne indaghi anzitutto il significato letterale-biologico, se ne prenda atto: questo pare essere l’invito del dettato poetico dell’autrice, il motivo della sua ars scribendi.
La Liberale, infatti, rifugge da ogni forma di esorcismo o rimozione del fatto estintivo; non tacita la questione in termini epicurei o lucreziani o wittgensteiniani, per i quali, nell’ordine sopra indicato, <<quando ci siamo noi, la morte non c’è>> (cfr. Lettera a Meceneo, 125); <<(la morte è) un nulla per noi, e non ci tocca per nulla>> (cfr. De rerum natura, III); <<la morte non è un evento della vita: non si vive la morte>> (cfr. Tractatus, 6.4311).
Gli approcci sopra esposti, che tradiscono l’esigenza umana di anestetizzare un pur legittimo timor mortis, non sono certo quelli della poetessa, la quale, anzi, si pone face to face con l’oggetto indagato, lo esibisce tel quel, come risulta dalla descrizione del corpo esanime della <<signora S.>> – di cui alla lirica d’esordio (cfr. p. 9) – che si appresta <<a cedere a colliquare>>.
Il fatto ultimo dell’esistenza sembra assunto, nell’intentio poetica di Laura Liberale, nell’accezione heideggeriana del cd. Sein-zum-Tode (<<l’essere-per-la-morte>>, cfr. Heidegger, Essere e tempo), quale momento, cioè, di auto-consapevolezza della finitudine del singolo, l’esistenza del quale diviene autentica nella misura in cui riconosca nella morte un fatto proprio (<<Io muoio>>, cfr. ibidem) e non già un accidente impersonale o cosa d’altri (<<Si muore>>, cfr. ibidem). <<I morti vivono>>: così il verso n. 2 di pag. 42; ma si potrebbero invertire i termini: i vivi muoiono o per dirla con Ungaretti <<La morte / si sconta / vivendo>>.
In relazione al livello stilistico, potremmo ascrivere i versi della Nostra, così essenziali ed asciutti, a certa poesia in re della Linea Lombarda, ove le “cose” della quotidianità – tra le quali evidentemente anche la morte – si fanno oggetto d’una poetica anti-eroica ed anti-retorica, libera dai simbolismi dell’ermetismo e vocata ad una narratività funzionale ad un più immediato rapporto tra il poeta e la realtà.
Il linguaggio utilizzato dalla Liberale – fatte salve alcune eccezioni – è infatti più denotativo che connotativo, come si legge nel testo d’esordio di p. 9: <<alla signora S. hanno aperto gli occhi per mostrarceli>> o in quello di p. 40: <<il ragazzo lo hai visto morire all’incrocio>>.
L’uso della parola poetica è dunque nella specie più letterale che allusivo (cfr. p. 62, <<essere due corpi / uno che abbraccia l’altro che muore>>), scevro da specifici apparati figurali, tanto che il textus si presenta a struttura prosastica, caratterizzato da criteri di tendenziale coesione sintattica, nonché da una descrittività incline a rendere la pronuncia maggiormente accessibile, pur restando a pieno titolo nell’ambito di quella forma superiore del dire che è lo specifico della scrittura poetica.
All’omogeneità tematica che caratterizza la silloge, la Liberale giustappone un pluralismo formale che oscilla da versificazioni “orizzontali” a verso libero (cfr. p. 9 e ss.) di matrice biblico-whitmaniana, fino alla forma chiusa e “verticale” del sonetto (cfr. p. 63), così operando una mescolanza metrico-strofica singolare, nonché esibendo una non comune padronanza di stili compositivi che includono l’intertestualità del pastiche o collage dalle ricorrenze anaforiche (cfr. p. 42, cinguettii), fino all’uso d’una diffusa narratività che a livello tipografico occupa l’intero rigo di scrittura ed omette gli a capo tipici della tradizione poetica (cfr. p. 35; p. 37). Poesia in re, s’è detto. Ma anche ab re esse: dai fatti, dalle circostanze.
Molti testi riportano i nomi – sia pure indicati con la sola iniziale maiuscola puntata – dei protagonisti delle liriche (<<la signora S.>>, cfr. p. 9 e ss.; il << signor T.>>, cfr. p. 13; <<X>>, cfr. p. 14); altri componimenti sono dedicati (<<per I.>>, cfr. p. 32; <<per L. e G.>>, cfr. p. 33); altri ancòra si riferiscono a soggetti storici individuati: Henrietta Lacks (cfr. p. 35), Virginia Ruiz (cfr. p. 62), Elian Gonzales (cfr. p. 63), Dennis Avner (cfr. p. 65); ulteriori altri ruotano attorno al mondo animale: il gatto di Derrida (cfr. p. 59), il cane Laika (cfr. p. 60), il topo transgenico mito-luc (cfr. p. 61), la pecora Dolly (cfr. p. 66).
Circostanze, occasioni poetiche, di cui la poetessa – date le sue competenze professionali – è spesso testimone de visu, così da coniugare la scientificità degli aspetti tanatologici ad un’ontologia che pone la questione dell’essenza del corpo esanime; dell’entità-mano, ad esempio, che resta nominabile tale (che è ancora mano) a prescindere dall’orfanità del suo principio vitale (cfr. p. 10, <<la definitiva cessazione funzionale>>) a condizione che persista <<un qualche tipo di commercio fra vivi e morti>> (cfr. ibidem), una qualche forma di frequentazione, di interazione, di corrispondenza (anche <<d’amorosi sensi>> per dirla con Foscolo).
Una relazione, quella testé richiamata, che appare bidirezionale: non solo dal vivo all’estinto 8(cfr. p. 40, <<il ragazzo lo hai visto morire all’incrocio (…) / ogni volta che passi di lì ne ripeti / nome e cognome>>) ma, appunto, anche viceversa, con elementi di paranormalità (cfr. p. 17, <<per dirci che va tutto bene / gli appena morti muovono le gocce di vetro dei lampadari>>; cfr. altresì p. 18, <<i morenti (…) al fremito dei vivi rispondono: / se ci sentiste (…)>>).
Quanto esposto, vale a dire la motilità del defunto, la sua ipotizzata idoneità a modificare l’ambito fenomenico dei vivi, fa da contraltare alla iniziale staticità del corpo esanime della <<signora S. (…) estratta dal frigo>> (cfr. p. 9), la quale, nei frammenti di cui alle pp. 11 e 12, rispettivamente si muove (<<si tende come un butto dal legno>>) e parla (<<smettetela di sussurrare per abitudine al rispetto>>), quasi la Liberale volesse evidenziare che se la morte è fine (quantomeno della corporeità), non è escludibile che ciò che fu continui ad essere in forma altra.
Ed infatti, qualunque sia la visione esistenziale di ciascuno, non può revocarsi in dubbio che il <<fermarsi per sempre>> (cfr. p. 34) sia <<entrata nel mistero>> (cfr. ibidem) che, nell’ottica d’una (non ancora acquisita) death education, <<merita il massimo decoro>> (cfr. ibidem).
Un decoro che può esprimersi in forme diverse, come nel caso del figlio che rimuove la colonnetta funeraria dal locus horridus dello schianto del padre al fine di commemorarlo in più appropriata sede, vale a dire nel locus amoenus de <<l’angolo di bosco dove suo padre / andava a amoreggiare con sua madre>> (cfr. p. 22), atteggiamento, quest’ultimo, indicativo d’una volontà di recuperare in memoriam la dimensione vitale degli affetti sebbene trascorsi; o come nel prendere sul serio <<la tristezza>> (cfr. p. 33) dei vivi che <<è sempre un presentire la morte>> (cfr. ibidem).