Distopia del ritorno
di Lisa Ginzburg
E’ di ogni ritorno un moto circolare; quasi, verrebbe da dire, è essenza del rivolgersi all’indietro, sua prospettiva obbligata, una geometria concentrica: cerchi le cui spire rimandano a un prima che diventa poi senza quasi nemmeno saperlo, involontariamente, per obbedienza a una metafisica del tempo che si fa struttura ritmica della prosa. Di questo anche racconta un saggio tripartito di Daniel Menedelsohn, Tre anelli. Una storia di esilio, narrazione e destino (trad. di Norman Gobetti, Einaudi). Una riflessione su quella circolarità della cronologia che pertiene a ogni esplorazione e déplacement sia fisico che esistenziale, così come a ogni forma di deviazione dal centro anche in senso stilistico. Quell’andatura circolare che è peculiare di ogni digressione, per propria natura o poi o prima destinata a un nòstos, a una resa verso l’origine, la radice, il tema chiave di cui essa stessa come digressione è deviazione, ma anche propaggine, appendice, epilogo che torna a essere prologo per forza di cose, perché a un Uhr sempre si torna, sia esso fonte, casa, paese di provenienza, lingua madre. Come che sia, ogni forma di appartenenza richiama a sé quasi ipnoticamente ogni détour. Non sorprende che a un tema del genere si appassioni Daniel Mendelsohn, in un suo ideale “ritorno a sé”, provato psicologicamente dalla serie di inchieste/interviste con quei tanti testimoni della Shoah i dialoghi coi quali sono stati suggestione della sua opera più imponente, Gli scomparsi. Sua in modo peculiare è un’attenzione profonda alla fatica di ogni esilio, di ogni sostare, sia quello lontano, sia quello più vicino come è per un “ritornante”. Così, a partire da una riflessione sull’Odissea, e in margine a una crociera fatta insieme al padre prima che questi morisse – un viaggio per mare organizzato e pensato comme periplo sulle tracce di quello di Ulisse – Mendelsohn divaga, e divagando fa della divagazione un argomento principe, il tema del suo libro.
Ulisse “polytropos” (“dalle molte svolte”) torna a Itaca così descrivendo un cerchio, e insieme chiudendolo. In parallelo, e per analogia/simmetria, l’intera Odissea può esser letta come architettura concentrica di digressioni che finiscono col ricongiungersi al loro proprio tema: cronaca e vicenda di un ritorno, che ha al suo centro, stilisticamente, la digressione stessa. Nasce così la “composizione ad anello”, tecnica narrativa che si riassume in un girovagare per poi sempre finire col rintracciare la via di casa. Un’arte di fare digressioni per contemporaneamente elaborare un progressivo, infallibile riavvicinamento al tema. Risultato è che tornare è fare il punto, e così liberarsi da illusioni: arrivare a una visione (e descrizione) chiara del reale, e farlo grazie a innumerevoli deviazioni dal cammino.
Medesimo criterio, Mendelsohn argomenta, governa in senso sia stilistico che contenutistico un altro grande capolavoro della digressione, la Recherche di Proust. Due strade, dal narratore pensate nell’infanzia come divergenti, la strada di Swann e quella dal lato dei Guermantes, seguite in una continua divagazione che fa da cardine a centinaia e centinaia di pagine, finiscono con l’essere comprese nella loro coincidenza: entrambe conducono ugualmente a stesso luogo, il Marcel Proust adulto scopre. Un ricongiungimento anche mentale che, una volta di più, coincide con un’agnizione liberante e trasformante. Un comprendere una ciclicità in nome della quale tanto maturare ed evolvere (e tornare) diviene possibile, tangibile, concreto.
“Réculer pour rebondir” si potrebbe dire, parafrasando un noto detto francese: tornare, traendo dal ritorno slancio per un ricominciamento che a sua volta trova senso in un’agnizione. Perché solo sostando nel ritorno arriva la forza di elaborare i lutti – compreso quel profondo lutto che molte volte è il peregrinare, o, per Mendelsohn, l’aver tanto riflettuto e ascoltato sullo sterminio degli ebrei, sulla perdita da pensarsi come terribile scomparsa collettiva.
Oltre a Ulisse (e a Proust), altre figure si impongono, autori che Mendelsohn individua come simboli di resurrezione, date condizioni di partenza di profondo disagio per eccesso di dislocamento. Eric Auerbach, confinato a Istanbul a causa delle leggi razziali, che concepisce il suo capolavoro Mimesis strutturandolo grazie a una personale (straordinaria) memoria di una biblioteca inconsultabile perché lontana (a “casa”, in Germania). Quello straniero che Auerbach impersona, stanco e provato da troppa nostalgia e troppo esilio, Mendelshon lo raffigura interscambiabile con tanti altri viaggiatori per necessità e per destino, “lo studioso greco che da Istanbul scappa in Italia nel 1453, il musulmano cacciato dalla Spagna a Istanbul nel 1492, l’ugonotto passato dalla Francia alla Germania nel 1685”. E interscambiabile con autori venuti dopo di lui: il W. G. Sebald dalla Germania emigrato nel Regno Unito, autore di Austerlitz, grande libro su un’agnizione legata a un improvviso volgersi indietro della memoria, e più ancora, scrittore de Gli anelli di Saturno, un testo che composto quasi esclusivamente di digressioni riverbera il vagabondare come stato dell’anima, prima ancora che fisico. Qui anche, a essere usata è una “composizione ad anello” (Mendelsohn non la cita, ma si potrebbe facilmente aggiungere la Olga Tokarczuk de I vagabondi); qui anche a dominare è una visione dell’esistenza come connessione di cerchi concentrici, snodi di nodi che interconnettono avvenimenti e loro interpretazioni.
Avvenimenti – sia reali che interiori – disposti secondo un’assialità che sfiora la nemesi e asintoticamente scorre parallela a un destino che stenta a compiersi ma di continuo si annuncia. Ai fatti così concepiti si aggiunge, alle comprensioni interiori proprie di ogni ritorno, un lutto aggiuntivo: la comprensione della distopia messa in atto dalla mente durante ogni distanza, ogni esilio. E qui, refrattaria come sempre più mi sento rispetto all’autobiografismo, lo stesso racconto un aneddoto personale, che Daniel Mendelsohn forse capirebbe cogliendone la dimensione “ad anello”. Tornata a vivere in Italia dopo dodici anni francesi, ho portato mia figlia in “pellegrinaggio” alla panchina seduta sulla quale la cullavo, lei appena nata, in carrozzina. Nel buio di un giardinetto pubblico, ben più spelacchiato di quanto non campeggiasse nel ricordo nostalgico, insieme abbiamo notato su una delle lamelle della panchina una piccola insegna. “Itaca”, diceva la targa. Sbalordita dalla casualità fatale, ho ricordato (come non farlo) l’omonima bellissima poesia di Kavafis. In particolare quei versi che recitano: “E se la trovi povera / Non per questo Itaca ti avrà deluso/Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso/già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare”. Ritorno è anche, spira conclusiva del cerchio, accettazione di un tempo concluso, il tempo dell’esilio. E’ accogliere lo scorrere di quel tempo, il suo essersi compiuto, aprendo a un presente forse rimpicciolito, eppure ricco di consapevolezze nuove. Sortilegi degli anelli in cui si condensa il tempo: si elaborano – tornando – lutti di distopie passate, generate da nostalgie che non sono più.