Su «Quando tornerò» di Marco Balzano
di Antonella Falco
Badante. Ossia persona addetta all’assistenza di anziani, ammalati o disabili. Di questa figura professionale tutti abbiamo, direttamente o indirettamente, fatto esperienza nel corso della nostra vita. A queste donne, spesso provenienti dall’Europa dell’Est, affidiamo la cura di genitori anziani, nonni, zii non più autosufficienti che non possiamo (o non vogliamo) accudire personalmente. Tutti, dunque, conosciamo questa figura professionale. Pochi di noi, però, quasi nessuno, si sofferma a riflettere sulla storia personale e privata di queste donne, sulle loro vite interrotte per andare a racimolare un po’ di soldi in un Paese straniero, svolgendo mansioni spesso non attinenti agli studi fatti e alle ambizioni coltivate. Lontane dagli affetti più cari. «Destini che ci riguardano da vicino, ma che spesso preferiamo non vedere», si legge nella quarta di copertina di Quando tornerò, l’ultimo libro di Marco Balzano, che dopo lo struggente e bellissimo Resto qui torna in libreria con un potente romanzo familiare a tre voci. La storia è quella di Daniela, donna rumena che una notte fugge di casa come una ladra e parte per Milano, dove farà di volta in volta la badante, la baby sitter, l’infermiera. A casa lascia un marito senza lavoro e dedito all’alcol e due figli adolescenti a cui desidera poter assicurare un futuro dignitoso.
Questa poteva essere la storia solo di Daniela, colei che parte. Ma fin da subito diventa la storia di chi parte e di chi resta. Della madre che va ad accudire altre persone, e dei figli che restano a casa covando rabbia e senso di abbandono. Perché se da un lato c’è la solitudine e la nostalgia delle donne che partono, dall’altro c’è la realtà delle famiglie, dei figli, che restano in attesa del ritorno. Così a raccontare questa storia sono Daniela e i suoi figli, Manuel e Angelica. Ciascuno dal proprio punto di vista, ciascuno spiegando le proprie ragioni, mentre compie le proprie scelte (spesso forzate) e subisce quelle degli altri. Ognuno rivendicando le proprie esigenze, le aspirazioni ma anche le ferite che la separazione determina.
La vita di Daniela, sdoppiata, dimidiata, perennemente col cuore altrove, subisce un giorno un ulteriore scossone: suo figlio Manuel ha avuto un incidente e giace in coma. Un incidente sul quale si addensano dubbi inquietanti. Rientrata in Romania, Daniela trascorre le sue giornate al capezzale del figlio addormentato, narrandogli la vita che ha vissuto lontano da lui, cercando di riannodare i fili di un dialogo interrotto, sempre domandandosi se, dopo essere stata lontana tanto a lungo, le è ancora lecito definirsi madre.
Balzano costruisce un romanzo di grande impatto emotivo. Mediante una scrittura asciutta, priva di fronzoli, ma nello stesso tempo calvinianamente “leggera”, ci racconta la fatica di vivere, la frustrazione di queste donne, la loro storia di migrazione che è in realtà un esodo forzato e può trasformarsi in un lento logorio esistenziale.
Una migrazione, peraltro, tutta al femminile. Balzano, nella nota che conclude il libro, sottolinea che «da trent’anni a questa parte, due terzi dei migranti del pianeta sono donne». Donne a cui affidiamo «il peso della cura dei corpi e delle menti più fragili», ma che per noi restano prevalentemente delle figure fantasma. Trasparenti. Evanescenti. Abbandonate alla loro solitudine. A una quotidianità che pone loro sotto gli occhi null’altro che corpi malati o moribondi e farmaci dai nomi astrusi. «Le prime parole che ho imparato in Italia», dice Daniela nel romanzo, «sono stati i nomi delle malattie, i principi attivi dei farmaci, le parti inferme del corpo. Quando me ne rendevo conto impietrivo». E ancora: «…La mia vita, finché non ritornerò a Radeni, sarà sempre veder morire dei vecchi, pensavo». Il tutto acuito dalla difficoltà di trovarsi in un Paese straniero di cui non si conosce bene la lingua: «Uno fa solo pensieri da animale senza la sua lingua».
Quando tornerò è un romanzo che consente di ricostruire il mondo di provenienza e quello di arrivo delle badanti, facendo affiorare tutta la loro umanità e mettendo sotto accusa la nostra indifferenza. La difficile e complicata condizione lavorativo-esistenziale di queste donne finisce per avere ripercussioni a livello psicologico e sociale. Lasciate pressoché sole a fronteggiare malattie complesse, come il Morbo di Parkinson e l’Alzheimer, queste donne sviluppano una sindrome da burnout (in inglese il termine significa “bruciarsi”) legata allo stress di gestire quotidianamente i problemi delle persone di cui si prendono cura. Gli psichiatri dell’Est Europa definiscono tale patologia col nome di «Mal d’Italia». L’alto prezzo che pagano sul piano affettivo porta le badanti a mettere in discussione la propria identità di mogli e soprattutto di madri. Il loro lavoro implica di solito un miglioramento delle condizioni economiche della famiglia e questo fa sì che, per non alterare la nuova condizione di benessere raggiunta, queste donne prolunghino il loro soggiorno lavorativo all’estero. «Quando tornerò» diventa allora più che altro un auspicio, per giunta sempre più aleatorio. Fino a divenire una pura chimera. Si innesca allora il fenomeno degli orfani bianchi, il disagio psichico delle madri diventa in tal modo anche il disagio di molti minori che subiscono le conseguenze di questo esodo transnazionale.
Leggendo il romanzo di Marco Balzano mi è venuto in mente un libro dell’antropologo Vito Teti, Il vampiro e la melanconia. Miti, storia, immaginazioni, letto anni fa: un libro che affronta la tematica del doppio nel fenomeno migratorio, lo spopolamento dei paesi, i temi della nostalgia e della malinconia. In particolare, nel volume, la metafora del vampiro è accostata a quella del migrante, un’immagine insolita, certamente poco esplorata, ma che mi è parsa fin da subito molto pregnante. L’emigrato è colui che abbandona il mondo d’origine e diventa in un certo senso un defunto, uno che muore agli occhi della propria comunità d’origine. Nei suoi ritorni, spesso provvisori, il migrante è un revenant che inquieta e perturba, «che cerca amore e riconoscimento e che subisce spesso allontanamento ed espulsione da parte dei familiari rimasti, che lo vivono e lo accolgono ora come un aiutante benevolo, ora come una figura che provoca disordine e mette a rischio i valori e la mentalità, l’esistenza stessa dell’universo d’origine». La letteratura sull’emigrazione, spiega Teti, descrive spesso l’emigrante come uno spettro, un essere sospeso a mezz’aria: «l’emigrazione si configura come morte e il viaggio dell’emigrante si ricollega al viaggio del defunto nella società tradizionale». L’emigrante, sebbene amato e atteso, è guardato con diffidenza e sospetto, quasi con paura. «L’emigrante è un vivente che è morto per la società d’origine: è, in fondo, un vampiro. Il vampiro vive senza sentirsi vivo. L’emigrato conosce l’esperienza di vivere senza sentirsi vivo. […] Il vampiro è metafora dell’esule e dello straniero che cerca accoglienza e perturba, che viene tollerato o allontanato, raramente compreso e accolto».
Il libro di Marco Balzano, tuttavia, riesce a dare anche un messaggio di speranza, mostrando la forza e la tenacia di queste donne, il loro non arrendersi di fronte alle difficoltà. Balzano, che da sempre utilizza la letteratura come una lente d’ingrandimento che consenta di vedere meglio realtà a volte scomode, chiude infatti il romanzo con un’immagine suggestiva e fortemente simbolica: quella del boomerang. Senza svelare troppo della trama, credo si possa affermare che tale immagine rappresenti per Daniela e per i suoi figli la conquista di una nuova consapevolezza, e quindi di un legame più maturo, il quale grazie a un percorso di emancipazione – affrontato in primis dalla madre e, per riflesso, anche dai figli – non teme più la distanza.