L’odore dell’arrivo
(Per gentile concessione della casa editrice Ferrari Editore, che qui volentieri ringrazio, pubblico uno stralcio del nuovo romanzo di Gianluca Veltri, L’odore dell’arrivo, pagg. 158, Postfazione di Dario Brunori. G.B.)
di Gianluca Veltri
Quando, in un soleggiato sabato inglese di inizio estate, entrai nel piccolo cimitero di Tanworth-in-Arden, dove Nick riposa dal 1974, sul suo sepolcro contornato da un sacrario pop – anelli e corde di chitarre, capotasti e fasce per capelli, catenine e plettri – venni colto dal desiderio vertiginoso di lasciare lì anche qualcosa di mio. Non un oggetto qualsiasi, ma qualcosa di caro, di serio, che mi rappresentasse, in grado di stabilire una connessione dotata di senso, meno aleatoria.
Volevo depositare in quel cimitero inglese, sotto il cielo nordico, un mio prolungamento affettivo, significativo, non semplicemente la prima cianfrusaglia trovata in tasca. Rovistando tra i miei pochi averi – non mi ero preparato niente di adatto – emerse finalmente l’oggetto giusto: una foto formato tessera del nonno, ossia di Alce Nero – che non c’era più da vent’anni –, custodita nel portafoglio. […] Mi sentivo pienamente rappresentato da Alce, che stabiliva un ponte felicissimo tra la mia provenienza ancestrale, pre-moderna, alla quale non intendevo rinunciare, e l’omaggio dovuto a Nick Drake e alla sua musica.
Nick, in fondo, pur essendo un idolo pop-rock figlio della modernità, aveva un’anima antica; pur precorrendo i tempi con il suo talento innovatore, quei tempi non aveva saputo viverli.
Io ho sempre amato unire, connettere, anche a costo di qualche arditezza. Nick e Alce Nero avevano davvero poco in comune. Curiosamente, creavo adesso un paradosso, chiudendo un cerchio intimo tra una sorta di fratello, che sarebbe rimasto giovane per sempre, e un nonno che invece era già vecchio quando io iniziavo a ricordarmi di lui. Un giovane imprigionato per sempre nella sua gioventù, che non ha fatto in tempo a invecchiare; un avo che da giovane lo si può soltanto, a fatica, immaginare.
Il giovane Nick. Il vecchio Alce.
[…]
Quando vedo nelle nostre città d’arte pensionati americani, giapponesi o francesi che alle dieci del mattino mangiano al sole nei ristoranti, seduti ai tavoli all’aperto, con borse, guide turistiche, macchine fotografiche e occhiali, rilassati e girovaghi, mi capita di ripensare a mia madre, mio padre, i miei nonni, che del mondo non hanno visto quasi niente.
Adesso la sua antica faccia meridionale campeggiava sotto una quercia del Warwickshire.
***
Una delle volte che ricordo mio nonno fuori dal suo contesto abituale – da patriarca parmenideo nella casa del centro storico – risale a quando mi portò in gita per qualche ora nelle Puglie. Mi aveva preannunciato che un sabato di giugno, ora perduto nella notte dei tempi, saremmo andati a mangiare il pesce a Taranto. Era una delle formule che sentivo usare quand’ero piccolo: andare a bere il caffè a Salerno; andare a mangiare il pesce a Taranto; andare a prendere il gelato a Reggio, cose così. Erano, o mi sembravano, sbruffonate utilizzate dagli smargiassi con tanto tempo da perdere. Però, pronunciata da lui, la formula assumeva tutta un’altra piega: lui che era una specie di sciamano nella nostra famiglia, un capo Lakota.
Le sue parole avevano un peso. Per un po’ pensai scherzasse, ma presto capii che mi sbagliavo. Infatti, un sabato splendente, a ridosso del solstizio d’estate, si presentò presto di mattina.
Saturday Sun.
Non guidava, il vecchio Alce: a piedi arrivammo in una stazioncina secondaria e prendemmo un treno: si era informato sugli orari, evidentemente. Era la prima volta che salivo su un treno. Lui era compiaciuto dietro i suoi ottocenteschi baffi imbiancati alla Vittorio Emanuele.
Il vento ionico che entrava dai finestrini aperti del primitivo treno interregionale era inedito e avventuroso. Giungemmo nella remota e levantina città portuale a ridosso dell’ora di pranzo. Il sole del sabato era limpido e azzurro e si confondeva con il mare e con il cielo. L’obiettivo di Alce Nero era piantare la bandiera: poter raccontare a quelli della ruga che aveva portato il nipotino a mangiare il pesce a Taranto.
Stava fabbricando un ricordo, consapevolmente.
Per sé, per me e per quelli a cui lo avrebbe raccontato. Appena terminato il pranzo, tornammo alla stazione a prendere il treno che ci avrebbe riportato a casa, nella nostra piccola città.
Missione compiuta.
***
Nick Drake aveva da poco pubblicato Five Leaves Left. O forse mi confondo e, come di consueto, imbroglio; in realtà, era già uscito il suo epitaffio, Pink Moon: in fondo, la sua parabola si svolge tutta nel soffio di un triennio, e io, alla fine di quella parabola, ero ancora un bambino come lo ero all’inizio.
Con i dischi di Nick – tre in vita più uno postumo – ho un rapporto specialissimo: li ascolto assai poco. Ho paura di consumarli. Ma non materialmente; non sono mai stato feticista o fissato con gli oggetti: i miei dischi sono tutti consunti e le copertine dei vinili sono state devastate dai gatti. Lo sciupio a cui mi riferisco è quello sentimentale, provocato dagli ascolti ripetuti che rischiano di inflazionare le emozioni, sovrapporre troppi strati, anestetizzando le orecchie rispetto alla magia delle note. Quindi, le canzoni di Nick vivono più dentro di me che negli ascolti esterni. Me le suono dentro, le lascio intatte.
Preferisco così. Le canzoni non sono tutte uguali. Alcune sono fragili e preziose come il cristallo e vanno custodite, protette. Ci sono delle cose che ci portiamo strette al cuore e le tiriamo fuori soltanto nelle occasioni speciali, quando servono davvero.
Come la foto tessera del vecchio Alce Nero.