Il fermo di Ferlinghetti
di Giorgio Mascitelli
( la scorsa primavera un amico mi aveva chiesto di immaginare qualche testo per ricordare Lawrence Ferlinghetti, ne è venuto fuori questa cosa qui, g.m.)
Ferlinghetti, avendo scoperto che suo padre, morto prima della sua nascita, era nativo di Brescia e in particolare del popolare quartiere del Carmine, il 13 ottobre 2005 si reca sul posto a cercare la casa del padre ed eventuali tracce, ma gli abitanti, verosimilmente insospettiti dall’aspetto, dall’accento e dalle domande del poeta, chiamano le forze dell’ordine. Poco dopo una pattuglia della polizia ferma il furgoncino su cui viaggia Ferlinghetti e porta il poeta in questura per accertamenti, come è prassi fare con extracomunitari sospetti. In questura naturalmente si rendono conto di chi sia il fermato e l’incomprensione è appianata.
Qui sotto ho immaginato il discorso di scuse di un anonimo funzionario della questura a Ferlinghetti.
- Illustre ospite, è mio compito porgerLe le nostre scuse per lo spiacevole equivoco. Non si può pretendere del resto che dei semplici agenti di una volante potessero sapere che Lei è un illustre poeta, immagino lo capisca, anche se il Suo accento americano avrebbe dovuto quanto meno insospettirli e indurli a domandarsi le ragioni di questa confidenza con la lingua dei padroni, ma viviamo in un’epoca poliglotta in cui questi buoni vecchi segnali non valgono più. Un visitatore illustre, specie se giunge nella città di cui è illustre nipote, non pretende di arrivare semplicemente come farebbe ogni signor nessuno, ma si annuncia e si palesa come tale per non indurre le autorità locali a sbagliarsi nella scelta del tipo di protocollo di accoglienza. Bisogna riconoscere che, per quanto illustre, Lei non è collaborativo, è anche poco comunicativo e un po’ divisivo. Un viaggiatore illustre non trascura il vestiario e si accompagna a personale specializzato nell’illustrare la sua condizione. Insomma, noi ci scusiamo, ma Lei sembra ignorare quella che si chiama la legge dei lustrini.
Sebbene il rispetto della legge dei lustrini, grazie alla quale l’apparenza si accorda alla sostanza, sia un dovere civico, se fosse solo questo, il nostro comportamento resterebbe biasimevole, ma che dire delle motivazioni che Lei ha allegato per questo viaggio clandestino? Come credere alla dichiarazione di essere venuto qui clandestinamente ( perché se Lei non dichiara subito di essere illustre, diventa a tutti gli effetti un clandestino) solo per raccogliere informazioni su suo padre? Come catalogare questa affermazione, che forse in un ventenne in cerca di radici sarebbe vagamente giustificabile, ma in un signore di ottantasei anni suonati diventa qualcosa di indefinibile e perciò sospetto? Questo non è solo amore per un padre mai conosciuto, ma amore per la vita e amore per il mondo, con un’intensità francamente disdicevole alla sua età. Ed è ben strano poi un amore per quel mondo del quale, a quanto mi consta, ha descritto nelle sue poesie quelle che Lei chiama ingiustizie e io preferirei definire più sobriamente inestetismi. Che essere singolare e indefinibile è colui che continua ad amare il mondo in ogni cosa bella, pur conoscendone tutte le brutture, anzi forse proprio per questo? Come lo potremmo definire ( perché oggi è importante che ciascuno abbia una sua definizione che lo definisca o, come amano dire i giornalisti, un’identità che lo identifichi)? Intanto si potrebbe sostenere che è uno che va contro ciò che raccomandano gli specialisti di ogni campo: ossia ignorare il più possibile le brutture e amare poche cose della vita, il meno possibile, comunque amare sempre con ordine & moderazione, ma soprattutto poche, possibilmente quelle consigliate dalla serie trasmesse dalle televisioni in rete, che nel 2005 a occhio e croce non ci sono ancora, almeno in Italia, ma tanto stiamo andando in quella direzione e un piccolo anacronismo è concesso. Noi naturalmente ribadiamo di scusarci, ma bisogna ammettere Ferlinghetti che lei va un po’ a cercarsele.
Io poi sento il bisogno anche di scusarmi personalmente perché arrossisco al pensiero di dover essere io, ossia un funzionario alle prime armi di una città di provincia di una provincia lontana, a ricordare a Lei e alla Sua venerabile età queste banalità di base, ma davvero non mi lascia altra scelta.
Quando i re erano re, per davvero, a quei tempi allora per gli sbandati c’era sempre un bel ramo a disposizione sull’albero degli impiccati. Adesso c’è la libertà e ovviamente ne siamo tutti contenti. E’ un bel progresso, sicché Le offro un caffè e poi ci salutiamo. Anche qui però mi consenta di farLe notare che Lei non sembra aver capito qual è la libertà del nostro tempo. Essa coincide con un grosso catalogo più alto di dieci dita nelle cui pagine si trova tutto ciò che c’è da ordinare. Curiosamente per Lei la libertà sembra invece essere una sorta di riserva mentale nel valutare se quel fantastico catalogo valga la pena di essere sfogliato oppure nell’anteporre certe cose ad altre, che per convenzione generale e per comprovata utilità si è deciso di posporre. Visto che oggi noi ci scusiamo, sarebbe lecito augurarsi che in futuro aiuti di più il nostro lavoro perché non sempre ci saranno le condizioni per scusarsi per lo spiacevole malinteso.
Adesso vada e si accontenti di sembrare quel che la società pensa di Lei, rientri nelle definizioni, sfogli il catalogo, collabori con il nostro lavoro, La smetta di essere….