Soggettività, storicità e frin frin
di Giorgio Mascitelli
La questione del valore letterario è oggettivamente un po’ complicata in quanto c’è uno scarto tra i criteri che astrattamente e teoricamente pensiamo per stabilire cosa esso sia e il giudizio di valore che diamo concretamente su singole opere e singole letture. Tale scarto è tanto più ridotto quanto più si ha un gusto pronunciato e consapevole, ma sussiste sempre perché è ineliminabile nell’esperienza di lettura (e ovviamente in quella di scrittura) un fondo psicologico e biografico, un riconoscimento di una nota nuova e significativa che entra nella propria esperienza. Così come non è possibile innamorarsi astrattamente di un’idea di fascino e bellezza, ma sono sempre il modo di disporsi di una persona nella nostra vita e anche magari contingenze a prima vista trascurabili, per esempio come la luce illuminava il suo viso quel determinato giorno o come sono risuonate in noi certe sue parole neanche particolarmente meditate, a rendere possibile la relazione, allo stesso modo funziona quella relazione con i libri che ci porta ad attribuire un giudizio di valore. La lettura di Memoriale di Paolo Volponi per me sedicenne ha rappresentato l’introduzione alla letteratura contemporanea, a un mondo e a un modo di narrare che non conoscevo prima, nel quale certi mali senza nome venivano trattati in una maniera che finalmente li nominava e allo stesso tempo allargava inequivocabilmente la mia esperienza e conoscenza di essi. Comprensibilmente un’esperienza del genere è stata capitale per me e quindi anche la rilettura in età adulta, pur sostanziata da una diversa consapevolezza estetica, mi ha portato, al di là di quelle che sono le collocazioni critiche e storicoletterarie di quel romanzo, a riconoscerne la centralità nel mio percorso. Mi rendo conto di aver giocato facile richiamando un’età in cui tutto, dai baci al vino, ha più sapore, d’altra parte non si può dare nessun rapporto profondo con qualsiasi opera d’arte se non c’è un restare ragazzi che coesiste con l’affinamento dello sguardo che lo scorrere del tempo comporta. Ogni riconoscimento successivo di valore, per quanto fatto in maniera più scaltrita, sta in rapporto con quell’esperienza, anzi non esisterebbe nemmeno, se essa non ci fosse stata. Dico che in questo modo si riceve quell’imprinting o si stampa interiormente quell’archetipo che ci spinge a cercare non opere simili da un punto di vista letterario, ma opere che producano una simile tensione emotiva.
Il termine valore letterario d’altra parte rimanda a un’intenzione di oggettività che non può essere elusa, specialmente in un’epoca come questa in cui pare che tutto vada bene e non ci siano più gerarchie di gusto, cornici generali di significato e grandi linee di dibattito culturale. E’ chiaro che il valore non può essere determinato solo tramite il richiamo all’impatto psicologico, perché sarebbe una sorta di sdoganamento soggettivistico di qualsiasi esperienza di lettura, ossia l’esatto contrario di quanto indica il concetto di valore letterario. Allora, da vecchio espressionista, potrei dire che un criterio oggettivo per me è quello dello scarto alla norma, ma a parte il fatto che talvolta mi è capitato di leggere dei testi di tal genere dei quali ho pensato che avrebbero fatto meglio a non scartare, in un’epoca in cui una norma letteraria dominante non c’è, questo criterio forse perde di senso. E qui vediamo come torna in questione la storicità del valore letterario: infatti noi ereditiamo dal passato delle tradizioni di lettura di singole opere o autori sui quali per così dire si forma la nostra idea di valore letterario, ma l’epoca presente rimette in discussione quei valori ed essi si salvano solo nella misura in cui si modificano aprendosi al presente. Questo significa che il valore letterario non può prescindere da una relazione fertile con il presente colto nella sua storicità. E’ frequente che tale relazione assuma le forme di quella che è stata niccianamente chiamata inattualità.
Mi sembra che a questo livello si collochi un altro criterio che empiricamente indica il valore letterario ossia la tenuta di un testo alla rilettura. Il fatto che un testo ci appaia nella stessa dimensione di valore a una seconda lettura, nella quale fatalmente non ci possono più coinvolgere gli effetti della sorpresa, è un sintomo concreto di quella inattualità, specie se si tratta di una lettura condotta ad anni di distanza. Non si tratta soltanto di constatare quanto sono acuti e profondi nel trattare la peste Boccaccio, Manzoni o Camus adesso che c’è il Covid, ma di cogliere come gli stimoli che quel tal testo ci fornisce rinnovano ancora una volta la nostra percezione del mondo circostante.
Ciò è in definitiva possibile soltanto a quei testi che portano in sé il segno di una sensibilità individuale che ci fa cogliere una nuova sfumatura del mondo che prima non si poteva osservare. E’ questa nota che rende ancora significativa una lettura non meramente filologica ma empatica di testi ormai distanti, allorché sono tramontati i codici culturali di riferimento nella loro composizione ( e non si deve pensare a secoli, ma talvolta basta una manciata di lustri). Questa sensibilità non è mai disgiunta o meglio si esprime attraverso una qualità idiolettica del testo dovuta a un’abilità fabbrile sul linguaggio e sul taglio delle situazioni narrative. In fondo il sogno flaubertiano di scrivere un romanzo sul niente, che si regga soltanto sulla forza dello stile, racchiude il desiderio di una scrittura che per sé stessa rappresenti uno sguardo sul mondo. Ovviamente prendendo alla lettera tale desiderio si arriva a un’estremizzazione paradossale perché non esiste linguaggio fuori dalla semiosfera, ma inteso approssimativamente indica una linea di valore rispetto al frin frin che in ogni epoca qualche poetino suona sempre nel Parnasino con il chitarrino, per dirla con Carlo Porta.
Se all’epoca di Porta, tuttavia, il frin frin veniva da un certo tipo di banalità perbenista neoclassica o arcadica ed era circoscritto pertanto all’interno di quella che potremmo chiamare la battaglia delle poetiche ( e si sa che è stato così per buona parte del Novecento), oggi nel capitalismo postmoderno il frin frin ricorda piuttosto la musica di fondo che viene diffusa in ogni centro commerciale per creare la giusta atmosfera per gli acquisti. Il frin frin cessa di essere l’espressione di un gusto cattivo o banale ma caratterizzato precisamente e diventa un’assenza di gusto che include oggetti letterari eterogenei raccolti senza una linea di significato qualsiasi, ma tenuti insieme dal fatto di avere successo di mercato. Proprio qui sta l’esperienza nuova degli ultimi trenta quarant’anni rispetto al passato, perché non si tratta di formulare un’idea di valore letterario in polemica con un’altra dominante e considerata superata, ma si tratta in primo luogo di affermare l’idea dell’esistenza di un valore letterario indipendente da quello di mercato. E’ bene precisare che questo fenomeno, che altrove mi è capitato di chiamare estetica del profitto, non riguarda tanto l’editoria e i suoi calcoli economici: nell’Ottocento l’editoria era molto più avida e molto più spregiudicata nel rapporto con i testi e con gli autori di quella attuale, eppure un’idea alta di valore letterario era diffusa. E’ nella società che si diffonde, in maniera per così dire disinteressata, il criterio di giudizio che è apprezzabile esteticamente solo ciò che riscuote l’approvazione del mercato. Tempo fa mi è capitato di vedere un critico sconfortato perché i suoi colleghi non capivano l’importanza di parlare di Elena Ferrante, che lui reputa occupare una posizione centrale nella cultura contemporanea perché è un’autrice venduta in tutto il mondo, credo che il suo sconforto fosse sincero in quanto aveva ormai interiorizzato che non si dà valore se non di mercato.
Così l’unica forma di validazione diventa quella di mercato: registrato il successo di un’opera, se ne stabilirà a posteriori il merito estetico, che coinciderà con la spiegazione delle ragioni del suo successo commerciale. Ecco l’atto di affermare oggi il concetto di valore letterario, prima ancora di stabilire quale, è sovversivo in questo paesaggio, ma non è saggio compiacersene; si tratta piuttosto di prendere atto di un’involuzione e di attraversare questi tempi con la consapevolezza della loro storicità. Strettamente connessa con questa nuova forma di validazione è la messa in crisi della figura dell’autore tramite la moltiplicazione degli scrittori e dei poeti della domenica che si presentano sui social a ritmi incessanti e sommergono chi ha fatto un percorso di serietà secondo i criteri della ormai defunta società letteraria. La rete è il teatro di questa alluvione, ma non la causa perché in essa non si fa che replicare a livello più diffuso e casereccio una tendenza delle élite professionali della comunicazione a favorire la pubblicazione di romanzi e, in misura minore, raccolte poetiche da parte di personaggi che hanno una notorietà extraletteraria a qualsiasi titolo ( attori, cantanti, giornalisti, politici, imprenditori). Infatti secondo gli esperti di marketing letterario non è importante scrivere testi interessanti, ma essere persone interessanti che destino curiosità nel pubblico. E’ insomma il trionfo della logica del testimonial che entra nella produzione editoriale, rendendo obsoleta la funzione della critica. In questo modo il valore letterario non deve essere spiegato e dibattuto come è stato nella modernità, ma coincide con il successo commerciale. Più accelera però questo processo, più è evidente che si tratta delle contorsioni di un sistema in profonda crisi, se si mantiene una prospettiva storica nel considerarlo. Certo questo tipo di sguardo ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi: tra i primi sicuramente la certezza che un giorno tutto questo sarà sepolto da una risata, tra i secondi la probabilità che, quando ciò accadrà, noi saremo un po’ morti per poterne ridere. Ma non si può avere tutto dalla vita.
( questo intervento è apparso sul numero 75 de Il Verri; l’immagine è Art art art di Natale Galli)
Argomentazioni esaustive e che condivido pienamente, essendo da tempo un lettore-scrittore che si lamenta del valore estetico attribuito al mero successo commerciale. Già l’idea e la realizzazione delle classifiche di vendita, nelle quali le opere di narrativa sono messe nello stesso calderone di quelle usa e getta, commerciali pure, perdendo immancabilmente perché vendono meno, sono un abominio culturale, a mio avviso: educano il lettore medio a considerare arte ciò che ha successo.
Allo stesso tempo, l’atteggiamento ruffiano (nei confronti delle ridotte capacità dei lettori meno colti) delle case editrici che impongono agli autori un linguaggio veicolare per la narrazione, pena l’esclusione dei testi, depaupera il potenziale artistico della produzione romanzesca: tutto giustificato con ciò che è oggi ritenuto (ma mi pare mai apertamente dichiarato) il valore culturale più importante: la vendibilità.
Ritengo che lasciare ai posteri la giustificazione estetica delle opere solo dopo che avranno avuto o meno successo sia un atto di codardia culturale, perché è una fuga dalla responsabilità di emettere un giudizio di valore artistico a un’opera contemporanea – un giudizio che si può comunque emettere, quando il proprio bagaglio letterario ha fatto maturare una certa sensibilità artistica di cui si parla in questo articolo in modo più ampio e preciso, per quanto soggettiva possa essere la valutazione di merito.
Insomma, i posteri rideranno forte di noi, leggendo i nostri dibattiti culturali e le nostre recensioni “critiche”, se proseguiremo a sguazzare in questo oceano kitsch.
Mascitelli sempre arguto e interessante (detto per inciso, bella l’espressione «richiamando un’età in cui tutto, dai baci al vino, ha più sapore»). Per motivi analoghi, ho letto anch’io più volte – a distanza di anni – alcuni testi che ritengo mi abbiano dato molto. È un po’ come riascoltare una musica che amiamo.
“Così l’unica forma di validazione diventa quella di mercato: registrato il successo di un’opera, se ne stabilirà a posteriori il merito estetico, che coinciderà con la spiegazione delle ragioni del suo successo commerciale”.
E poi:
“Infatti secondo gli esperti di marketing letterario non è importante scrivere testi interessanti, ma essere persone interessanti che destino curiosità nel pubblico. E’ insomma il trionfo della logica del testimonial che entra nella produzione editoriale, rendendo obsoleta la funzione della critica”.
Se il fenomeno dell’asservimento della letteratura alle logiche di mercato è da tempo sotto gli occhi di tutti, cruciale mi sembra oggi chiedersi se può darsi letteratura – nel senso più specificamente artistico del termine – senza una critica nel pieno delle sue funzioni: se potrebbe oggi ancora esistere un Montale senza un Contini.
Grazie a tutti per i commenti e le osservazioni che condivido
“Così l’unica forma di validazione diventa quella di mercato: registrato il successo di un’opera, se ne stabilirà a posteriori il merito estetico, che coinciderà con la spiegazione delle ragioni del suo successo commerciale.”
I critici più avveduti in questo gioco di validazione a posteriori, saranno quelli che diranno: 1) alla vecchia élite di lettori borghesi, abbiamo sostituito il lettore democratico, in un paese ormai largamente alfabetizzato; 2) non esistono opere di un certo esito rimaste impubblicate (il mercato gioca su tutti i tavoli -anche se con “puntate” di valore differenti); 3) il pubblico quindi ha avuto accesso a tutto, e poi ha scelto. Chi ha vinto commercialmente, nel bene e nel male, esprime almeno lo spirito dell’epoca, ha risposto all’inconscio del lettore. E quindi questa rientra nelle giustificazioni estetiche, intrinseche (universalità).
Una nota di pessismismo, rispetto al tuo discorso, Giorgio, la introducono poi coloro che dicono che, certo, tutta questa faccenda è una brutta fase storica (per i valori indipendenti dal successo commerciale), ma in ogni caso dopo questa fase non ci sarà più né libro né letteratura – secondo certi criteri – quindi perché mai piangere o accigliarsi? Io non condivido questa visione, ma sento che sto mettendo piede nelle questioni di “fede”.
Credo che la tua fenomenologia del procedimento critico sia condivisibile. Al declino del libro invece personalmente non credo, anche se penso che vivremo una fase in cui probabilmente certi romanzi da 1000 pagine, indipendentemente dal loro valore, avranno meno circolazione di quanta ne abbiano adesso rispetto a forme brevi. Il libro però è una forma assoluta come la ruota, difficile da superare. Sicuramente, invece, sta già sparendo la società letteraria ai cui valori siamo stati educati.
Se posso permettermi di rilanciare la tua riflessione, Andrea, chiederei al critico “più avveduto” se alla letteratura come forma d’arte secondo lui possa bastare riflettere fedelmente – come in uno specchio – la sua epoca. Ne seguirebbe infatti – se così fosse – una legittimazione reciproca di arte e mondo, mentre io per esempio credo che un valore davvero universale dell’arte tutta consista nella sua capacità di lanciare il sasso oltre il cerchio chiuso dell’orizzonte (di un’epoca, ma anche di un qualsiasi piccolo o grande sistema di valori) e di costringere così lo sguardo a seguirne la traiettoria oltre e ancora più in là.
Mi rendo conto di camminare su un crinale di parole mitiche e quindi molto scivolose, ma siamo sicuri – direi a questo critico – che la forma piena di democrazia sia la coscienza spontanea dei supposti uguali? O dobbiamo pensare alla democrazia come ad un esercizio sempre fatalmente asimmetrico di fecondazione del corpo sociale in vista di traguardi via via ulteriori di consapevolezza e – nella fattispecie – di gusto estetico? Se dunque l’arte è oltranza, oltranza senza specificazione e quindi potenzialmente con ogni specificazione, essa parla un mondo che ancora non c’è e che necessita di qualcuno – di un critico, il gemello diverso dell’artista – per diventare a tutti manifesto: necessita di un Contini, dicevo nel mio commento sopra, o dell’apparato di note che Eliot è stato costretto suo malgrado ad aggiungere a The Waste Land.
Gianfranco Contini e le note di Eliot al suo poemetto hanno consentito al democratico pubblico dei lettori di fare uno scatto un po’ più in là, mentre sono convinto che assecondare il gusto e l’orizzonte culturale dell’indistinto popolo dei lettori, la cui alfabetizzazione – avrebbe detto Marcuse – è oltretutto puramente funzionale alla odierna società dell’organizzazione e del mercato totali, finirebbe per trascinare la letteratura in una spirale al ribasso che, se arreca indubbi vantaggi economici agli operatori più scaltri del settore, di certo non promuove alcuno positivo sviluppo né della società né della cultura.
A Davide:
” io per esempio credo che un valore davvero universale dell’arte tutta consista nella sua capacità di lanciare il sasso oltre il cerchio chiuso dell’orizzonte (di un’epoca, ma anche di un qualsiasi piccolo o grande sistema di valori) e di costringere così lo sguardo a seguirne la traiettoria oltre e ancora più in là.”
Mi ci ritrovo perfettamente, ma oggi questa visione è una sorta di articolo di fede – forse lo è sempre stato, ma ai tempi di Adorno e Fortini c’erano fior di preti e parecchi fedeli. Per sostenere questa visione della letteratura, bisogna in qualche modo sposare l’idea che l’orizzonte attuale non costituisca in definitiva il mondo cosi com’è dev’essere, ma una configurazione storica specifica, che potrebbe essere superata verso una configurazionemeno meno irrazionale e più umana, ad esempio. Ma cio’ implicherebbe che il critico stesso sia in qualche modo scontento del suo orizzonte, e in virtù di questa scontentezza anche in grado di sporgersi (con l’aiuto delle opere) al di là di esso. Ma mi sembra che la critica, più degli autori stessi, abbia paura di non esistere, e quindi tende chiedere prove della propria realtà al presente, nel chiuse di quell’orizzonte di cui si parlava, appunto.
Considerazioni puntuali e condivisibili.
C’è però anche la questione dei premi letterari, asserviti in genere anch’essi a logiche di mercato o alla forza dell’editore (il che è lo stesso), e che con le loro giurie fatte anche di critici sanciscono a lungo andare non solo il successo commerciale di certi libri ma un certo canone.
La critica letteraria, secondo l’etimologia del termine, avrebbe proprio la funzione di separare ciò che vale da ciò che non vale da un punto di vista artistico. E quindi, se essa funzionasse, quantomeno accanto all’inevitabile successo commerciale di certi libri (frutto delle scelte, per quanto discutibili, dei lettori e degli editori che li stampano) dovremmo avere una sconfitta di questi prodotti sulle recensioni delle riviste culturali o nei premi letterari a vantaggio di altre opere. E invece ciò raramente avviene. E’ difficile che una rivista pubblichi una recensione negativa di un libro noto e che magari ha avuto un certo successo commerciale o letterario (specie se l’autore è uno scrittore affermato) e si preferisce codardamente in genere ignorare il libro che vale poco più che stroncarlo. Quindi il problema sta anche in quelli che dovrebbero essere “critici letterari”, che non svolgono più, se non in rari casi, la loro funzione sanamente discriminatoria.
La critica letteraria è la parte più in crisi del sistema letterario, se vogliamo è la farfalla dell’ecosistema perché nelle sue forme moderne, nate a partire dal Settecento e Ottocento, è negata dall’estetica del profitto. I premi letterari sono parte di questo sistema, anche se in realtà ogni tanto cercano di segnalare qualche testo insolito, non penso invece che, a parte lo Strega e forse il Campiello, incidano sul mercato