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Enigmi a Busto Arsizio

di Riccardo Ferrazzi (cappello di Marino Magliani)

In questo romanzo (“Il Caravaggio scomparso. Intrigo a Busto Arsizio”, Golem edizioni, 2021) l’unica autopsia possibile occorrerebbe farla alle rughe del Caravaggio, forse ritrovato. Ma lo è? Si tratta di un giallo dove a condurre l’indagine è un giornalista, ironico e scanzonato, e ci si muove tra fabbriche e industriali, anzi, tra industriali, anche in questo caso, scomparsi… Riccardo Ferrazzi è un traduttore, ha scritto saggi su Napoleone da giovane e sui miti, ed è un affabulatore. Di solito spazia tra mesetas e i quartieri di Madrid, dove ha vissuto a lungo. Oppure a Vienna e Coblenza, ma prima o poi le sue trame si spostano dalle parti del milanese e dimostra di conoscerlo bene, in tutte le sue rughe. Qui di seguito un passo.
M. M.

Per chi non è pratico della zona, sarà meglio chiarirlo subito: Busto Arsizio dista da Milano venti chilometri oppure duemila. Dipende dai punti di vista. In autostrada sono venti, in tutto il resto sono di più. Il fatto è che a Milano vive un milione e mezzo di persone, e ogni giorno ne vanno e vengono almeno altrettante, invece a Busto siamo ottantamila in tutto e siamo sempre quelli. Ma soprattutto a Milano si compera, si vende, si intermedia, si pubblicizza; invece a Busto si fabbrica. La differenza è tutta qui perché chi vende deve ruotare lo sguardo a 360 gradi; invece chi fabbrica deve stare concentrato sul prodotto, e così non vede quel che gli succede intorno. In compenso, dove si fabbrica succedono cose che altrove manco se le sognano. A Busto Arsizio sessantamila bustocchi originari (o integrati da precedenti migrazioni) convivono con ventimila siciliani, tutti oriundi di Gela (ridente cittadina in provincia di Caltanissetta). In un altro posto sarebbe scoppiata la guerra civile, a Busto no. Finché hanno madre e padre da riverire, i gelesi fanno i bustocchi in fabbrica e i siculi in casa. Quando poi si affrancano dalla famiglia, si assimilano fin quasi a confondersi con gli indigeni. Dev’essere colpa (o merito) dell’aria, quest’aria nebbiosa e pesante dell’Alto Milanese, che incombe sul cranio di tutti noi figli di Eva e ci costringe a tenere gli occhi bassi. Anche chi ha memoria di cieli azzurri e siepi di ficodindia quando timbra il cartellino da queste parti diventa un nibelungo.

Con Mick Navarra, gelese a metà, non ero mai stato amico nel vero senso della parola. Avevamo fatto le medie e il liceo assieme ma non nella stessa classe. Lui aveva un anno meno di me e parecchi milioni in più. Niente di male: fino ai quindici anni certe differenze si sentono poco. Si gioca al pallone, si fa il filo alle ragazzine, i contrasti si aggiustano con la personalità o a cazzotti. È quando cominci a intravedere l’età della patente che scatta il meccanismo perverso: tu ce l’hai la macchina? E che macchina è? Mick aveva in mente la Porsche e Salvatore gliela comprò: da buon siculo era sensibilissimo al fascino degli status symbol. Ma anche chi nasce con la camicia ha i suoi guai e Mick dovette fare i conti con i condizionamenti psicologici: anche se papà ti scuce la paghetta in dosi omeopatiche, tutti sanno che un giorno i milioni saranno tuoi ed è meglio esserti amico che nemico. Siccome prima o poi te ne rendi conto, cominci a pensare che 24 25 la gente non ti sorride perché sei simpatico ma perché vuole qualcosa da te. E diventi un sospettoso stronzo col quale non c’è verso di entrare in confidenza. Mick era così. Potevi incontrarlo al bar Haiti all’ora dell’aperitivo e tra un crodino e un camparisoda potevi chiacchierare da pari a pari sulle prospettive di classifica della Pro Patria. Magari ti raccontava anche una barzelletta. Ma appena usciti dal bar tornavi a essere un perfetto estraneo.

Comunque, per Navarrone e Navarrino i rapporti sociali erano il minore dei problemi. Narra infatti la leggenda che, dopo aver lasciato Gela in giovane età, Salvatore Navarra approdò a Busto con la classica valigia di cartone legata con lo spago e le idee confuse: suonava i campanelli delle fabbriche, il portinaio si affacciava, lui chiedeva in tono altero di parlare col padrone, il portinaio gli domandava paternamente: «Cosa sai fare?». Lui alzava il mento e rispondeva: «Tutto!». Con queste credenziali non lo assumeva nessuno. E lui girò per aziende meccaniche, chimiche e della plastica, ma anche per tipografie e salumifici, prima di bussare alla porta giusta: una tintoria di filati che aveva bisogno di un apprendista. Lì cominciò il suo cursus honorum. La tintoria era piccola, quasi artigianale, e lui fungeva più che altro da uomo di fatica quando c’erano da consegnare o ritirare i subbi, gli enormi rocchetti sui quali si avvolge il filo, tinto o da tingere; ma in questo modo Salvatore poté ficcare il naso dappertutto: filature, torciture, amiderie, tessiture e stamperie, tanto che riuscì a farsi un’idea dell’intero ciclo del cotone, dal batuffolo colto sulla pianta in Georgia o in Mississippi fino ai vestiti griffati esposti nelle vetrine di via Montenapoleone. Se ne venne fuori con l’idea di un marchingegno da applicare ai telai per renderli più versatili e migliorare la produttività. Fu il primo dei suoi successi: tutte le tessiture lo adottarono. Quando le richieste cominciarono ad arrivare anche dall’estero, Salvatore vendette il brevetto e si dedicò a svilupparne altri. Verso la fine degli anni ’80, quando la crisi del tessile aveva già mandato in rovina i cotonifici e i colossi delle fibre sintetiche, lui calzava scarpe Church, ordinava le camicie in Savile Row e collezionava le cravatte di tutti i reggimenti inglesi. Suscitando commenti di ogni genere, aveva sposato la Teresa Barlocco, procace sciampista di chiara fama nelle discoteche dove la gioventù bustocca praticava la 26 27 caccia grossa. Ma a Salvatore la fama della Teresa non faceva né caldo né freddo: ormai aveva capito che a Busto Arsizio l’uomo d’onore è colui che paga le cambiali prima che vadano in protesto, dopodiché quel che succede a letto o sui sedili reclinabili di un’automobile sono soltanto fatti suoi. Salvatore pensò che gli occorreva una donna per il riposo del guerriero e, mentre gli altri puntavano alla camporella spensierata, lui propose il matrimonio. La Teresa fece i suoi conti e decise che le conveniva. In qualità di guerriero, Salvatore si riposò abbastanza per mettere al mondo due figli. Ma fra un riposo e l’altro seguitò a inventare congegni e meccanismi, tanto che in una ventina d’anni la sua “fabbrichetta” arrivò a contare una cinquantina di dipendenti. L’industria tessile era in crisi, invece la meccanica aveva un gran bisogno di brevetti. Salvatore era l’uomo adatto e passò di successo in successo. Ormai, oltre ad abitare in un attico, era proprietario di un discreto numero di appartamenti in giro per la città, possedeva il dieci per cento de “La Subalpina” (che a Busto vende come il Corriere della Sera, o quasi) e una quota del circolo del golf, dove si faceva vedere ogni tanto, solo per incontrare al bar gli altri industriali. Aveva fatto anche l’abbonamento alle partite casalinghe della Pro Patria e, con esiti esilaranti, si azzardava a pronunciare poche brevi frasi in dialetto. I guai cominciarono quando Mick finì gli studi laureandosi in qualche cosa. Salvatore Navarra, il geniale inventore, come padre era un disastro: non concepiva l’idea che il suo erede potesse desiderare, per esempio, di fare il medico o l’avvocato. Mick doveva entrare in fabbrica, punto e basta. Doveva entrarci da figlio del padrone, ma guai a lui se si fosse permesso di spostare un chiodo! Aveva studiato, sì, ma cosa sapeva? Niente! Era un bamboccio, uno sprovveduto, un babbeo. Aveva tutto da imparare. Doveva guardare e tacere. Come per il delfino di Francia, si sarebbe visto chi era solo dopo che il padre fosse sceso nella tomba. E così Mick si ritrovò piazzato in un ufficio dal quale avrebbe dovuto vedere tutto e imparare tutto; ma non era responsabile di niente, neanche dell’archivio, e l’unica iniziativa che poteva prendere era andare a bere il caffè alla macchinetta. Voi direte che da qualche parte bisogna pure cominciare e uno che ha la Porsche in garage ha poco da lamentarsi. Ma Salvatore sembrava che facesse apposta a trattare suo figlio come l’ultimo dei cretini. Ogni volta che lo incrociava in giro negli uffici lo assaliva rimproverandogli errori e omissioni (soprattutto omissioni, dato che per sbagliare bisogna pur avere qualcosa da fare) e non si tratteneva dal chiamarlo fesso, pirla e coglione, facendosi sentire fino in Perù.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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