Umanisti del nuovo secolo e sottomissione tecnologica
Di Andrea Inglese
Forma e struttura della tecnologia seguono gli imperativi del rapporto sociale, e non l’inverso. Per questo persino gli apparecchi sono geneticamente penetrati dalla forma sociale.
Robert Kurz
L’universo del design industriale gravita in massima parte intorno al tema sensibile del servizio reso al fabbisogno di competenza necessario agli utenti strutturalmente incompetenti. Sotto questo profilo un utente è sempre un idiota che vorrebbe comprare sovranità.
Peter Sloterdijk
È diventato chiaro a tutti il “valore” dei dati, inteso come un sistema di informazioni al quale attingere per analizzare il presente, prevedere il futuro, cercare di conoscere meglio le condizioni di vita di ciascuno e di tutti.
Franco Pizzetti
Una minoranza di persone, in paesi come l’Italia e la Francia, ha denunciato una dittatura sanitaria, che avrebbe permesso una sorta di esperimento medico-scientifico di massa, e questo sarebbe avvenuto grazie all’apporto dei media, che si sono fatti propagandisti del governo, per manipolare la maggioranza del paese. Trovo tale lettura dei fatti non condivisibile su alcuni punti importanti, ma essa invita a riflettere su di un fatto indubitabile: da anni è in atto un esperimento di massa da parte di soggetti privati e pubblici, ma è di natura biometrica e politica, ed esso non avviene attraverso la propaganda frontale delle TV e della carta stampata, ma insidiosamente, attraverso il flusso informale d’informazioni che passa per i nostri social network. Di questo esperimento, poi, non siamo solo le vittime, ma i collaboratori premurosi e iperattivi, nutrendo dei nostri dati algoritmi dalla dubbia efficacia e aziende monopoliste, dedite alle molteplici pratiche illegali.
- Smartphone e tabù
Questo intervento ha poco da spartire con tutto ciò che, all’insegna di un fantomatico Umanesimo 2.0, dovrebbe decantare il felice sposalizio tra cultura umanistica e mondo digitale. D’altra parte, non è più un tema di moda da diversi anni, dal momento che la preoccupazione di tutti oggi è come continuare a servirsi sempre più diffusamente delle piattaforme informatiche, senza rimanerne schiacciati in un modo o nell’altro. È anche vero che una minoranza battagliera ha denunciato, in reazione alla gestione statale della pandemia nel nostro o in altri paesi, una svolta autoritaria, ovvero la perdita delle libertà individuali e l’instaurazione di una nuova forma di dittatura. Credo che queste persone, indipendentemente dalle loro motivazioni personali o appartenenze ideologiche, abbiano fissato con veemenza il dito, distogliendosi dalla luna. Quanto agli altri, cioè a noi tutti, la luna delle tecnologie elettroniche la guardiamo ancora con occhi acquosi e commossi, come figurine romantiche d’inizio Ottocento. Sappiamo che ha un lato oscuro, ma ognuno di noi si guarda bene dal formularne delle critiche in pubblico. Libertari o marxisti, ecologisti radicali o lucidi conservatori, cinici utilitaristi o liberali disincantati, noi gente di formazione umanistica ci guardiamo bene dal fare i bifolchi e gli oscurantisti. Si può criticare tutto – specialmente la democrazia –, strapparsi le vesti per i cataclismi climatici a venire, giurare di mangiare solo bacche e radici, ma delle tecnologie non si parla male in pubblico. Günter Anders lo aveva già constatato il secolo scorso: il tabù delle nostre società evolute e progressiste è la tecnica. Abbattete ogni pregiudizio, mettete sotto accusa ogni forma di vita, ma non toccate il mio smartphone!
2. La tesi della “dittatura sanitaria”: incompletezza e confusioni
La recente crisi pandemica ha contribuito ad allarmare una minoranza che, percependosi incompresa e perseguitata dalle istituzioni, ha denunciato la realizzazione di una forma di dittatura inedita, la dittatura sanitaria. Attraverso il cavallo di Troia della salute, nome supremo del bene pubblico, lo Stato e i governi sarebbero responsabili di aver dato il colpo di grazia alle nostre libertà di cittadini, imponendo forme di coercizione e di controllo di massa. Questa lettura della dittatura sanitaria, intesa non in senso metaforico ma in senso letterale, raccoglie adesioni in frange della popolazione eterogenee dal punto di vista ideologico: adepti delle medicine alternative, marxisti, libertari, neofascisti, populisti di varia sfumatura, ecc. Malgrado la radicalità di questa variegata minoranza nel rifiutare la prevaricazione delle istituzioni, una maggioranza della popolazione ha accettato di farsi vaccinare, e una parte consistente dei vaccinati considera il green pass come una sorta di male minore rispetto all’eventualità di nuove ondate pandemiche e di conseguenti confinamenti della popolazione. La denuncia della dittatura sanitaria tocca diversi problemi, tutti importanti ma non tutti ugualmente controversi. Inoltre, questi problemi vengono confusi spesso tra loro: esistenza del virus, nocività del virus, utilità dei vaccini, nocività dei vaccini, governo politico della crisi, obbligatorietà della vaccinazione, legittimità costituzionale del passaporto sanitario… (Tra le altre cose, questa veemenza contro l’imposizione del vaccino è essenzialmente eurocentrica, dal momento che, ad esempio, solo il 4% della popolazione africana è stata completamente vaccinata rispetto al 61% della popolazione residente in paesi ad alto reddito, secondo una stima delle Nazioni Unite. E il Sud Africa sta lottando per poter produrre da sé i vaccini sul proprio territorio, con l’ambizione di diffonderli su tutto il continente africano, liberandosi dalla dipendenza nei confronti delle case farmaceutiche statunitensi ed europee).
C’è comunque un punto incontestabile su cui gli allarmisti hanno portato l’attenzione: il modo in cui le istituzioni trattano i dati che riguardano lo stato di salute dei cittadini, grazie al potere di calcolo e scambio delle piattaforme e degli apparecchi elettronici. Di questo mi sembra importante parlare, ma al di fuori dell’ambito specifico della salute pubblica e di quello eccezionale della crisi pandemica. Vorrei ricordare come da anni sia in atto una forma di sfruttamento di massa degli utilizzatori mondiali delle piattaforme web e dei molteplici servizi informatici a esse legate, e come questo sfruttamento prepari, simultaneamente, le condizioni per forme non solo di controllo, ma di neutralizzazione della politica. Appare allora singolare che la massima allerta sulla situazione della nostra democrazia venga lanciata in occasione di una reale urgenza sanitaria, quando per anni la presenza nelle nostre vite delle tecnologie informatiche, anche da parte della minoranza oggi scandalizzata, è stata vista come poco o nulla problematica[1].
- Due scandali fondamentali (rivelazioni Snowden 2013 e l’inchiesta su Cambridge Analytica del 2018)
Da quando Edward Snowden, nel 2013, ha rivelato le pratiche di saccheggio sistematico e illegale di dati personali realizzato dalla NSA (Agenzia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti), tutti hanno capito che non è necessario essere i tanto commiserati cittadini di qualche Stato autoritario o dittatoriale come la Cina, per essere sottoposti a un regime di spionaggio capillare, e di trasparenza coatta che ricorda le distopie primonovecentesche di uno Zamjatin (Noi è del 1924). Possiamo essere invidiatissimi cittadini di democrazie liberali ad alto reddito medio, ed essere sottoposti a una metodica sorveglianza telematica, senza che questo crei disagi maggiori, almeno fino al giorno in cui scopriamo di essere stati considerati non come innocui studenti, lavoratori o pensionati, ma alla stregua di presumibili terroristi in atto di preparare qualche terrificante attentato. Non ci ha rasserenato neppure scoprire che i fedeli amici Facebook e Google, che da sempre garantivano l’opacità e l’anonimato nel trattamento dei nostri dati personali, si siano rivelati solleciti collaboratori dello spionaggio statunitense platealmente incostituzionale. Da quel fatidico giorno, tutti siamo diventati utilizzatori meno citrulli dei nostri apparecchi elettronici, e abbiamo richiesto ai GAFAM promesse di rispetto della privacy più altisonanti e convincenti. Abbiamo dovuto aspettare il 2018, però, per scoprire che, nell’uso illegale dei nostri dati, peggio della NSA poteva fare una società di consulenze inglese, Cambridge Analytica, grazie alle sempre sollecita complicità di Facebook. Le inchieste di giornalisti di media mainstream, quali il quotidiano The Guardian o il settimanale The Observer[2], hanno permesso di comprendere il ruolo cruciale che i dati personali hanno avuto nell’orchestrazione di efficacissimi programmi di propaganda mascherata, in grado di determinare l’esito di un referendum nazionale – quello sulla Brexit nel Regno Unito – o di un’elezione presidenziale – quella statunitense del 2016. Non siamo più di fronte, in questo caso, a una forma di sorveglianza globale orchestrata dalla superpotenza del pianeta, ma alla possibilità che partiti o singoli candidati siano in grado d’interferire in modo occulto sul meccanismo del voto libero, ossia sul fondamento delle società democratiche. Neppure un appello alla più abusata ragion di Stato può qui giustificare alcunché. In effetti, l’affaire Cambridge Analytica sta alle nuove tecnologie e alla crisi del processo democratico, come l’affaire dei subprime stava alla nuova economia (finanziaria) e alla crisi economica del 2008. Per capire come funziona il capitalismo del XXI secolo e quali minacce comporta, oltre a quelle ampiamente indagate dal marxismo e dal pensiero critico novecentesco (alienazione, sfruttamento, rapporti di potere, ecc.) è indispensabile studiare queste crisi, cominciando con l’individuare gli attori in gioco.
- Ideologie, saperi, tecniche
Per rendere intellegibile l’accusa di manipolazione di massa che è stata sollevata nel caso delle elezioni statunitensi del 2016 e del ruolo in esse svolto da Cambridge Analytica, bisogna mettere in campo almeno sei attori distinti: i finanziatori, gli scienziati, i raccoglitori di dati, i propagandisti, i candidati politici, gli utilizzatori – fonte di tutto il processo, in quanto fornitori gratuiti di dati, e obiettivo finale di esso, in quanto elettori-bersaglio. Il finanziatore di Cambridge Analytica, società privata, è il miliardario statunitense Robert Mercer, grande sostenitore dell’estrema destra politica e culturale, che ha costruito la sua fortuna nel mondo dell’intelligenza artificiale e in quello della finanza. All’origine stessa di CA vi è dunque un imprenditore che sostiene una specifica ideologia, e che non dissocia gli obiettivi commerciali da quelli politici. Lo scienziato è Aleksandr Kogan, un americano di origine moldava che, all’epoca dei fatti, lavora al Dipartimento di psicologia sperimentale dell’Università britannica di Cambridge. Lo statuto “disciplinare” di Kogan è fluido, ma abbraccia il campo della psicologia, della psicometria e dalla “scienza dei dati”. Inoltre ha un profilo professionale ibrido: è scienziato ma anche imprenditore. (In atri termini, siamo di fronte a un tipico membro di quella che un po’ pomposamente viene chiamata la tecno-scienza). Kogan infatti realizza un programma, This is your digital life, in grado di raccogliere i dati personali di 270.000 utilizzatori americani di Facebook con il loro consenso, per costituire dei profili psicologici di base (“personalità”). Partecipare al questionario implica una minima remunerazione e un accordo esplicito. In realtà, il programma raccoglie – con il benestare di FB – anche tutti i dati dei contatti ignari (amici, ecc.) di questi utilizzatori consapevoli. E questa seconda cerchia si estende a milioni di account. L’enorme massa di dati è poi venduta a Cambridge Analytica, che li utilizza al servizio della campagna elettorale pro-Trump, mettendo in opera uno specifico tipo di propaganda.
Fermiamoci, però, un attimo su Kogan e la sua app. Il tipo di lavoro di Kogan è quello che si riassume in formule come questa: “Se ha accesso a 300 dei tuoi like, l’algoritmo ti conosce alla fine meglio di tua madre o di tua moglie”. Ora questo è il tipico enunciato che richiederebbe di essere verificato scientificamente, ma sarebbe già complicato capire che cosa davvero significhi e come eventualmente potrebbe essere verificato. Quello che in realtà conta, è che un tale enunciato venga “preso come buono” (in attesa di eventuali e future prove scientifiche) sia da coloro che approvano l’uso di questo “riduzionismo” psicologico, sia da coloro che temono di finire troppo facilmente e troppo precisamente catalogati. Il sapere “scientifico” mobilitato da personaggi come Kogan trae il suo prestigio non da una verità a monte (d’ordine sociale o psicologico), ma dalle promesse più o meno mantenute a valle di qualche efficacia applicativa (la modificazione di un comportamento). Poco importa che le “personalità di base” corrispondano a una realtà oggettiva della psiche umana; conta soprattutto quello che esse ci permettono di fare sulle persone. D’altra parte, questo è il cuore della faccenda di Cambridge Analytica: “raccogliere ed elaborare i dati personali degli individui ci permette di prevedere i loro comportamenti”, dicono a braccetto scienziati e tecnici; in realtà l’uso di tali dati non è predittivo, ma condizionante. Nelle mani di politici o imprenditori, i dati personali servono per modificare i comportamenti (degli elettori o dei consumatori). La scienza psicologica sostiene, grazie alla potenza di calcolo delle macchine e alla massa di dati disponibile, di aver individuato le chiavi del comportamento umano (conosciamo le leggi, e quindi prevediamo i fenomeni); dietro questo paravento ideologico, i profili psicologici così elaborati forniscono strumenti ulteriori per azioni di vera e propria manipolazione, promosse da aziende, gruppi politici, ed eventualmente Stati e governi.[3]
Facebook è colui che ha permesso a Cambridge Analytica di avere in mano non solo i dati dei 270.000 sottoscrittori dell’applicazione This is your digital life, ma degli 87 milioni di account che erano collegati a quei primi 270.000. Ogni volta Mark Zuckerberg, coinvolto in inchieste parlamentari negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ha giocato la carta di colui che non sa e non capisce quello che è successo, scaricando la responsabilità sugli altri (nel caso specifico Cambridge Analytica). Da questa vicenda, però, abbiamo imparati tutti almeno una cosa: chiunque abbia un piano sufficientemente malvagio e sufficientemente finanziato, per ottenere un’immensa quantità di dati su ogni utilizzatore di Facebook (si parla, per il 2021, di 2,80 miliardi di utenti attivi ogni mese), fa una telefonata a Zuckerberg e può tentare di convincerlo. Noi non sappiamo se ci riuscirà, come ci sono riusciti in passato la NSA o Cambridge Analytica, ma sappiamo che Zuckerberg, lui, quella manna di dati che ci riguardano, ce l’ha pronta. Sono dati che lui possiede, non noi. E, se non gli bastassero, ogni nostro nuovo click sulle sue piattaforme – ogni nostro contenuto, condivisione, like, ecc. – va ad arricchire la manna.
Cambridge Analytica è stata la filiale “presentabile” di una casa madre, SCL Group, che per lungo tempo ha preferito restare nell’ombra. Si tratta di una società fondata alla fine del secolo scorso dall’americano Steve Bannon, ideologo della destra sovranista mondiale e celebre direttore della campagna presidenziale di Trump, e dall’inglese Nigel Oakes. SCL è stata una macchina di propaganda che offriva molteplici servizi, lavorando anche nel settore militare per clienti quali il Ministero della Difesa britannico o la Nato. Una delle specialità di SCL erano le Psychological Operations Group – le PSYOPS –, ossia operazioni di condizionamento di massa, realizzate in un contesto bellico. Uno degli ex-dirigenti pentiti di Cambridge Analytica, Brittany Kaiser (autrice di La dittatura dei dati, Harper Collins, 2019) ha confermato pubblicamente che Cambridge Analytica, nelle campagne per la Brexit e in quella presidenziale pro-Trump, utilizzava tecniche di condizionamento militare, per convincere gli indecisi (definiti i persuadables). Ciò che rende la propaganda messa in atto da Cambridge Analytica, però, ancora una volta, non è tanto la sua pretesa “scientificità” – questo è il loro argomento di marketing –, ma la sua capacità di passare inosservata, di non lasciare tracce, d’introdursi nel flusso della comunicazione in gran parte privata che scorre sulle piattaforme informatiche senza annunciarsi come tale, senza logo. In altri termini, non solo chi è l’obiettivo di questa propaganda ignora di essere sottoposto ad essa – a differenza di quanto accade anche nei casi di massiccia propaganda politica o pubblicitaria –, ma è poi impossibile verificare e documentare gli autori, l’origine, l’itinerario, la persistenza di tali contenuti propagandistici. Tutto entra in modo anonimo nel circuito delle piattaforme e tutto si disperde nei rivoli degli account privati, per poi eventualmente scomparire al momento opportuno.
Nel caso delle elezioni presidenziali USA del 2016, malgrado sia difficile misurarne l’impatto reale, l’obiettivo di Cambridge Analytica è stato chiaro: bombardare di contenuti un numero limitato di elettori perplessi nei pochi Stati del paese che avrebbero deciso la vittoria dell’uno o dell’altro candidato. E sappiamo che, in definitiva, 70.000 elettori in tre soli Stati (Wisconsin, Pennsylvania e Michigan), hanno determinato la vittoria di Trump (Usa 2016: Clinton +3 milioni di voti, per Trump decisivi 3 Stati – America 24).
Le attività di propaganda mascherata da realizzare sulle piattaforme, come quelle di Cambridge Analytica, non sono di per sé finanziate esclusivamente da soggetti politici conservatori o di estrema destra. Innanzitutto, come spesso accade in questi casi, le nefandezze in ambito militare, politico ed economico si sperimentano di preferenza nei paesi del Sud del mondo, ed è stato questo il caso sia della casa madre SCL Group che della sua filiale apparentemente più presentabile CA. La storia di queste due società – dei loro finanziatori, dirigenti, clienti privilegiati – mostra però una chiara preferenza ideologica, come il caso di Steve Bannon dimostra, essendo stato il fondatore di SCL, il vice presidente di Cambridge Analytica, il direttore della campagna di Trump e, dopo la vittoria di quest’ultimo, il capo stratega della Presidenza per i primi sette mesi. Questa constatazione vale anche per il tipo di tecniche che queste società mettono a disposizione. Tra gli strumenti di propagandata mascherata, vi è quello, ad esempio, dell’astroturfing, che consiste nel simulare iniziative di cittadinanza o movimenti spontanei dal basso, grazie alla creazione mirata di falsi account, forum, petizioni sul web. Non solo tecniche del genere minacciano il genuino processo democratico, ma anche richiedono, per essere efficaci, finanziamenti importanti che sono prerogativa dei soggetti economici più forti.
5. Facebook promette connessioni tra persone, ma noi vi cerchiamo soprattutto la nostra espressione individuale
Veniamo ora a coloro che forniscono quotidianamente la materia prima che permette il rafforzamento di queste realtà – dalle piattaforme elettroniche agli scienziati che lavorano su progetti di intelligenza artificiale, dalle società di consulenza e di comunicazione alle forze politiche che ne costituiscono la clientela. Noi utilizzatori del web, dei motori di ricerca, dei social network, di Amazon, ecc., costituiamo la base di una complessa piramide, che per esistere commercialmente, tecnicamente, politicamente, deve poggiare sulle nostre attività telematiche quotidiane, deve insomma trarre dai nostri comportamenti abituali il “petrolio del nuovo secolo”, ossia informazioni su quello che facciamo e quello che acquistiamo, su quello che pensiamo e quello che sentiamo. Per lungo tempo non ci siamo troppo interrogati su questo generoso accordo: le piattaforme come Facebook ci fornivano un servizio gratuito, un servizio per altro tra i più benevoli e desiderabili, quello di connettere le persone tra loro. Ma la semplice connessione non è bastata né a Facebook né a noi utilizzatori. Un’occhiata all’evoluzione della piattaforma (delle sue tecniche e dei vari re-design della sua pagina) mostra che il servizio si è articolato intorno a elementi come il tasto like (lanciato nel 2009), gli stickers e #Hashtags (2013), le cinque nuove Facebook Reactions (2016), a cui si aggiunge, in piena pandemia, la nuova Care Reaction (il pianeta che stringe un cuore nel 2020). Questo naturalmente è solo uno degli assi evolutivi del servizio gratuito che Facebook mette a disposizione della sua comunità mondiale, ma è anche uno dei più interessanti.
È paradossale che il mito di Facebook come grande “connettore” debba ormai coabitare con le immagini angoscianti del grande “divisore”. Da più parti si è sottolineato come il modo di funzionare di Facebook (ma ciò vale anche per altre piattaforme come Youtube) accentui le polarizzazioni ideologiche e le visioni riduttive della realtà (se ne parla, ad esempio, nel documentario The social dilemma). Di questo paradosso, però, siamo tutti coscienti, dal momento che tendiamo ormai ad associare il nostro account al concetto di filter bubble, ossia di bolla che gli algoritmi rendono ermeticamente chiusa nella sua soddisfacente autoreferenzialità. D’altra parte, questa chiusura o questa alta selettività ha una controparte importante: più siamo in un terreno protetto più siamo disposti a esprimerci liberamente. Le “bolle filtranti” ci permettono di essere noi stessi ogni giorno e in una sfera ibrida tra privato e pubblico. E se dobbiamo ringraziare Facebook per la gratuità dei suoi servizi, dovremmo riconoscergli oggi un interesse molto più indirizzato alla nostra autentica espressione di sé di fronte agli altri, che alla semplice connessione con gli altri. I bottoni che riguardano le nostre presunte emozioni sono stati pensati, disegnati, e installati per questo preciso motivo. Non basta far circolare foto, testi scritti (ricordi, opinioni, ecc.), tracce musicali, materiali giornalistici o di studio; a partire dal 2009 e ancor più dal 2016, è importante far circolare anche le nostre “emozioni”.
Anche in questo caso, bisogna chiarire di ciò che stiamo parlando. Quale sia un’autentica e soddisfacente espressione delle nostre emozioni è una faccenda assai complessa, e di certo nessuno crede davvero che il tasto Wow o Grrr offrano un equivalente del nostro vissuto emotivo o del modo in cui esso è modulato attraverso i quadri culturali d’appartenenza. Facebook, basandosi in parte su dei saperi scientifici (le Big Six dello psicologo statunitense Paul Ekman) e sul design grafico, ha proposto ai suoi utilizzatori una grammatica di stati emotivi, che sono ovviamente convenzionali e ai quali, quindi, gli utilizzatori si devono adattare. Il successo di questa grammatica non è quindi dato da una presunta adeguazione con quanto avviene nella psiche umana, ma dalla diffusione su larga scala della convenzione, dalla riuscita, insomma, dell’adattamento richiesto all’utilizzatore. Senza la buona volontà di quest’ultimo, le Facebook Reactions non avrebbero avuto lunga vita. Ognuno di noi si è adattato con minore o maggiore reticenza all’uso di queste ulteriori opzioni comunicative. Non è sorprendete, dal momento che Facebook sposa da tempo un nostro desiderio profondo, che è quello di esprimere noi stessi, e quindi ogni nuovo strumento, ogni nuova funzionalità, non può che incontrare una disposizione favorevole da parte nostra, e qualsiasi forma di scetticismo, di postura critica, finisce immancabilmente per dissolversi, sotto la pressione dello spirito gregario.
Ciò che, tra le altre cose, favorisce nostra docilità nei confronti delle nuove tecnologie e dei quadri comunicativi che finiscono per imporci è che noi tendiamo a darne una lettura principalmente psicologico-moralistica. Per un certo numero di anni abbiamo parlato dell’indecente impudicizia, del chiassoso esibizionismo, del compiaciuto narcisismo che l’uso dei social aveva fatto emergere. Poi abbiamo anche smesso di parlarne, dal momento che un certo esibizionismo sui social è divenuto in qualche modo una regola, una forma di vita condivisa pacificamente, e quindi inutile da criticare. Ognuno ha imparato a gestirlo, a dosarne la quantità, senza doverlo sciaguratamente soffocarlo. Tale diagnosi, però, rimaneva alla superficie, o meglio si rivolgeva come sempre alle debolezze (o colpe) dell’individuo, piuttosto che all’ampiezza e alla ragione d’essere di un sistema. L’atteggiamento moralistico permetteva (e continua a permettere) di difendere un mito essenziale: la neutralità della tecnica. Il tabù dell’ineluttabilità del progresso tecnologico ha come corollario l’idea che una nuova tecnica sia uno strumento, la cui buona o cattiva applicazione dipende dalla bontà o cattiveria del suo utilizzatore, ossia dal suo grado di maturità psicologica, integrità morale, consapevolezza politica, ecc. In L’industria culturale nel XXI secolo. Sull’attualità del concetto di Adorno e Horkheimer, una conferenza del 2010, Robert Kurz, filosofo d’ispirazione marxista, mostra come l’evoluzione dei GAFAM si possa leggere come una tappa ulteriore dell’industria culturale novecentesca e dell’ideologia che la legittima. In altri termini, è l’evoluzione sociale – il rapporto tra capitale e lavoro, quale si è definito attraverso l’offensiva neoliberista che dura ormai da quarant’anni – che precede e determina l’interpretazione tecnologica. Ovviamente ricordare che i nostri strumenti di comunicazione ed espressione di sé quotidiani sono impregnati di ideologia, e veicolano una visione del mondo, dei rapporti umani, dei nostri fini, non neutra, non astorica, non apolitica, non innocua, ci pone in un certo imbarazzo. Ci ricorda la fragilità della nostra buona volontà, del nostro grado di consapevolezza, persino del nostro impegno nel voler rendere la società migliore. Noi ci siamo talmente abituati a guardare la tecnologia come uno specchio del futuro, di qualcosa che deve ancora essere costruito, e di cui noi siamo attivi costruttori, che dimentichiamo facilmente come essa venga dal passato, sia stata pensata e costruita – decisa – da piccole cerchie di persone, e ci venga trasmessa come un’eredità indiscutibile da introdurre nelle nostre vite e da far fruttare.
“We built Facebook to help people stay connected and bring us closer together with the people that matter to us”, scrive Mark Zuckerberg in un post del 2018. Mia nonna (e come lei molte persone nate nella prima metà del secolo) avrebbe potuto rispondere: “Ma come ti permetti?”. Che cosa ne sai tu, e ne vuoi sapere tu, delle persone a cui io, abitante tra gli altri del pianeta, tengo in modo particolare? Cosa c’entri tu? E perché mai le relazioni umane per me più importanti (quelle dense di affetti) dovrebbero avere bisogno del tuo aiuto per esistere? Se, però, ci immaginiamo di essere, o siamo davvero divenuti una moltitudine atomizzata di individui che fa fatica a capire cosa la tiene assieme, se insomma i significati collettivi, come i progetti che ad essi si articolano, sono divenuti sempre più oscuri e misteriosi, allora è non solo utile, ma indispensabile che qualcuno si occupi non solo di connetterci tra di noi – povere isole che siamo – ma anche di permettere agli affetti di circolare (a partire dalle emozioni più elementari), in modo che lo stare assieme virtuale abbia una qualche vaga analogia con lo stare assieme conviviale, ossia quello radicato nei corpi.
In un altro passo della sua conferenza, Kurz fornisce un’interpretazione generale della nostra irresistibile tendenza a esprimere noi stessi sulle piattaforme elettroniche:
“Gli individui si comportano sempre di più come se fossero i loro stessi attori nel loro proprio teatro. Questa pseudo-vita virtuale non ha semplicemente una funzione compensatrice rispetto alla miseria dei rapporti sociali reali, ma in maniera ideologica e immaginaria è elevata al rango di “autentica” realtà riguardo alla quale l’esistenza sociale e materiale appare come una semplice appendice e come già quasi irreale.”
Pochi oggi si lasciano ancora persuadere dal gergo “dialettico” di Kurz e dalle vetero gerarchie ontologiche, che pretendono contro ogni evidenza post-moderna di dare priorità alle relazioni umane incarnate piuttosto che a quelle immateriali. Nessuno vuole “svalorizzare” grazie a una semplice formula concettuale una larga fetta di interazioni con il proprio prossimo che passa per l’account Facebook, bottoni “emozionali” inclusi. E questo è in parte comprensibile. Ognuno di noi può impegnarsi a dimostrare che le interazioni “virtuali” sono una continuazione con altri mezzi di rapporti sociali autentici con persone in carne ed ossa, o ne costituiscono eventualmente l’anticamera. Quello che però difficilmente si può ignorare è il meccanismo compensatorio (leggi consolatorio) che sta alla base della nostra non episodica attività sui social network. Di questo ho provato io stesso a scriverne proprio su Nazione Indiana (https://www.nazioneindiana.com/2021/04/30/di-lavoro-non-ne-parliamo-per-favore/), mettendo l’accento sulla nostra scarsa felicità lavorativa e sul modo di esorcizzarla in pubblico attraverso i social: “Ognuno si rimbocchi le maniche, e quando è uscito dal buco nero del lavoro salariale, vada altrove, sui social network ad esempio, a strofinare, laccare, addobbare la propria identità. Tutti abbiamo una vita fuori dal lavoro: bisogna pur farne qualcosa, esibirla, fotosciopparla, brandirla come la prova di un’esistenza degnamente umana e individualizzata.”
Dopo quarant’anni di offensiva neoliberista come sta il nostro lavoro salariato? Forse i nostri rapporti sociali sono radiosi, ma è difficile che le imprese o le istituzioni in cui lavoriamo, o cerchiamo di lavorare, siano altrettanto radiose nei nostri confronti. Naturalmente è possibile che tutta questa faccenda di un’offensiva ideologica, organizzativa e politica sfavorevole ai lavoratori, ai loro diritti e garanzie, ai loro valori e ideali professionali, sia stata una delle grande bufale del nuovo secolo, una delle più riuscite fakenews di matrice marxista. Se non fosse che di questo fenomeno storico esiste ormai una variegata e multidisciplinare letteratura. E poi basta leggersi i propri contratti di lavoro, per sciogliere ogni dubbio.
Naturalmente si potrebbe fare un’analisi più fine incentrata sul nesso splendore dei social e miseria del lavoro, includendo altre categorie: dai disoccupati a coloro che cercano di trasformare le piattaforme in una forma di reddito. In ogni caso, noi umanisti – disoccupati, precari o pienamente occupati – siamo quelli che maggiormente, io credo, viviamo un rapporto ambivalente con le nuove tecnologie: non ne godiamo direttamente i frutti economici e professionali, non ne siamo gli ideatori e gli architetti, non possiamo che fungere da retroguardia affannata, pronta a giurare sulle proprie capacità di aggiornamento (leggi sforzi di adattamento). Siamo coscienti di un ritardo cronico, di un’obsolescenza fatale legata alla nostra formazione; non ci resta, quindi, che saltare sul treno costi quel che costi e, nei casi migliori, esibire una sbrigliata attitudine multimediale. Percepiamo che, anche solo sul piano del lavoro intellettuale e creativo di ciascuno, tali ambienti sono una minaccia fortissima. Ci succhiano attenzione in modo osceno, indirizzandola su contenuti incredibilmente semplici e spesso irrilevanti. Acuiscono invece di saziarli i nostri bisogni di riconoscimento sociale. Disperdono e dissipano invece di concentrarle le nostre energie conviviali o critiche. Ma è terribilmente costoso rinunciarvi. La dipendenza dallo smartphone viene a completare il quadro.
Per inciso, sarebbe un errore illudersi che i “nativi digitali” siano stati risparmiati dal demone dell’ambivalenza, come se la loro familiarità con le piattaforme elettroniche non fosse frutto di un doloroso e conflittuale processo di socializzazione, ma un portato genetico. D’altra parte, l’ambiguità semantica connessa alla formula “nativi digitali” è la spia più evidente che siamo penetrati su di un terreno ad alto tenore ideologico. Il termine “nativo” in questo caso indica l’esperienza di un apprendimento o di un adattamento a un ambiente (linguistico o climatico) che avviene dalla nascita, ma esso viene volentieri inteso secondo una ben diversa accezione, quella di disposizione innata. Per il bene dei nostri figli, ci piacerebbe illuderci che essi scivolino senza attriti, ferite, conflitti nell’ambiente digitale, così come un gatto che salta da un muretto all’altro guidato da un istinto infallibile. La realtà è purtroppo diversa, come hanno cominciato a denunciare diverse inchieste sulla salute dei giovani utilizzatori di social (Ansia e depressione: gli effetti dei social sui giovani. ”Instagram è il peggiore” – la Repubblica / Association between Social Media Use and Depression among U.S. Young Adults (nih.gov).
6. Lavoratori del clic: alienati, sfruttati, ma contenti
“Nel quadro di un’economia del contributo, i molteplici link cliccati dagli internauti partecipano all’elaborazione di basi di conoscenza e di risultati statistici, sfruttati dalle piattaforme sulle quali essi agiscono. L’espressione digital labor designa l’attività degli utilizzatori così sfruttati (che noi proponiamo di tradurre con “lavoratori del clic”): i contributori di wiki, gli autori di commenti, gli iniziatori e gli intermediari di reputazione, i creatori di contenuti per i social network, gli operai che realizzano in serie attività che gli algoritmi non possono ancora industrializzare (…) e ben inteso tutti gli internauti dal momento in cui cliccano semplicemente su di un like, un cuore, ecc. Il lavoro effettuato costituisce un’attività a bassa intensità e richiede una competenza minima che, grazie all’industrializzazione di questo processo applicato a milioni di utilizzatori, produce un forte valore economico a beneficio esclusivo del proprietario della piattaforma numerica.”
Potremmo, ad esempio, partire da qui. Potremmo cominciare a considerarci lavoratori inconsapevoli del clic e, come tali, anche sfruttati e alienati. Un’analisi approfondita del nostro “lavoro in rete”, e della nostra capacità di mobilitare anche il livello più intimo delle emozioni e successivamente degli affetti, sollecitati delle piattaforme elettroniche, è presentata dai ricercatori universitari Camille Alloing e Julien Pierre in Le web affectif, une économie numérique des émotions, libro del 2017. Certo, questo non corrisponde al nostro punto di vista. Noi, soggettivamente, in quanto utilizzatori, siamo impegnati in strategie personali per trarre da Facebook e Google tutto quanto va a nostro vantaggio. E se le strategie paiono funzionare, se proviamo soddisfazione o otteniamo premi simbolici o addirittura materiali, non facciamo che infittire la nostra presenza. Se le cose vanno meno bene, cerchiamo di cambiare strategia. In ogni caso, ci sentiamo vincenti e sovrani nella nostra attività in rete. Dal punto di vista delle piattaforme, però, l’unico scacco possibile è la nostra latitanza dalla rete, il nostro assenteismo dal clic, la nostra decisione scriteriata di lasciare intatta, inutilizzata una qualche funzione. L’unico scacco Facebook lo conosce quando recidiamo il filo dell’attenzione e abbandoniamo lo schermo per andare a preparare una cena, per discutere con un amico senza smanettare contemporaneamente con lo smartphone, per sederci accanto a un figlio per leggergli qualche pagina di un libro, per impegnarci in una litigata di coppia. In tutti gli altri casi Facebook e le altre piattaforme sono pienamente vincenti, perché noi produciamo dati per le loro elaborazioni statistiche e perché ci esponiamo alla pubblicità dei loro clienti. Ed è questo che garantisce i loro introiti, il loro successo materiale, economico. La nostra continua disponibilità a fornirgli informazioni sulla nostra vita (i pensieri, i gusti, i movimenti, le emozioni, i bisogni, ecc.) permette anche l’evoluzione, il progresso, l’applicazione a raggio sempre più vasto dei loro algoritmi. Non vi è posizione più asimmetrica. Noi forniamo loro la materia prima (tutte le informazioni che permettono di costruire dei profili di consumatori e di elettori e di cittadini di future città intelligenti e securizzate) e, nello stesso tempo, contribuiamo a raffinarla almeno in forma elementare questa materia, grazie ad esempio alle Facebook Reactions o alla pratica di qualche nuova funzionalità. Loro in cambio ci permettono di dispiegare le nostre singole strategie, sempre fallibili e provvisorie. La gratuità è la loro forza di attrazione maggiore: nessuno nel mondo, quale sia la sua condizione sociale, potrà esitare nel mettersi al lavoro del clic.
La migliore controprova di questa nostra condizione di sfruttamento viene dal recente documento – febbraio 2020 – della Commissione Europea in materia di trattamento di dati. S’intitola Una strategia europea per i dati. Negli anni passati, l’Europa – avendo rinunciato a investire in proprie piattaforme informatiche – si era concentrata sulla protezione dei dati personali e sul diritto alla privacy. Ora vuole passare da semplice agente regolatore a protagonista attivo nella raccolta, gestione e circolazione dei dati non personali per quanto riguarda il territorio europeo[4]. (Per intenderci, i dati non personali sono quelli che già costituiscono il business legale di tutte le piattaforme dei GAFAM, quando non intervengono eventi “criminali” come la sorveglianza generalizzata della NSA o la propaganda mascherata di Cambridge Analytica.) Il punto che più m’interessa è messo in luce in un articolo dedicato a questa nuova iniziativa europea. L’autrice, Federica Maria Rita Livelli, parlando dei Data Trust, sorta di collettori e gestori paneuropei di dati, scrive a un certo punto:
“I cittadini raccoglieranno “dividendi per i dati”, che potrebbero includere pagamenti monetari o non monetari da società che utilizzano i loro dati personali. In questo modo i Data Trust faranno riferimento a circa 500 milioni di cittadini europei che diventeranno fonti di dati, dando origine al più grande mercato di dati del mondo. Inoltre, i dati – sia creati dai cittadini europei sia generati su di essi – saranno conservati in server pubblici e gestiti dai Data Trust. Si ipotizza che tali Data Trust potranno supportare le imprese e i governi europei, potranno riutilizzare ed estrarre valore dalle enormi quantità di dati prodotti in tutta l’area europea e, al contempo, permettere ai loro cittadini di beneficiare delle stesse proprie informazioni. La documentazione del progetto, tuttavia, al momento, non fornisce informazioni chiare sui compensi da destinarsi ai singoli individui.” (Corsivo mio).
Voi forse non lo sapevate con chiarezza, ma i membri della Commissione Europea, non certo dei marxisti incalliti, loro lo sanno fin troppo bene che, in un’economia mondiale basata sui dati, coloro che questi dati li producono attraverso attività in rete o come utilizzatori di servizi elettronici hanno diritto a dei dividendi. Ciò è talmente chiaro ai dirigenti europei, che si guardano poi bene dal fornire alcuna precisazione su quanto e come pagare il nostro lavoro del clic.
Oltre a essere sfruttati, però, noi, proprio come i vecchi operai novecenteschi, siamo anche alienati. Una frase di Peter Sloterdijk ci introdurrà al problema: “I più comuni macchinari del mondo contemporaneo – gli orologi, le automobili, i computer, il parco strumenti dell’elettronica di consumo, gli utensili di precisione e altre cose del genere – per la maggioranza degli utenti non sono altro che superfici luccicanti che risultano inaccessibili al loro interno se non in modo dilettantesco e distruttivo.” A questa opacità della macchina, va aggiunta – nel caso delle piattaforme informatiche – l’opacità degli algoritmi che organizzano le informazioni che mi giungono o che utilizzano i dati che io fornisco. Vi è tutta un’attività di spostamento, elaborazione, circolazione di dati che ho materialmente prodotto, ma di questa attività non ho né conoscenza né posso in alcun modo controllarla. Inoltre, non sono io che ho deciso di esprimere le mie emozioni attraverso stilizzate, gialle, faccine tonde, ma mi sono adattato a esprimerle attraverso quella grammatica, e non sono io che utilizzerò in qualche modo i milioni (miliardi) di faccine tonde prodotte ogni giorno, tra le quali ci sono anche le mie.
Ed è così che sfruttati e alienati nel nostro quotidiano digital labor noi non abbiamo neanche il diritto di rivendicare dividendi e controllo, di lamentarci almeno, di mugugnare, perché, come dice la canzone di Dario Fo:
E sempre allegri bisogna stare
Che il nostro piangere fa male a Mark Zuckerberg
Fa male a Larry Page e a Jeff Bezos
Diventan tristi se noi piangiam
Questa riflessione non si conclude con un inno luddista alla “sconnessione permanente”, anche se verrà il giorno in cui i comuni mortali faranno davvero piangere Zuckerberg, Page, Bezos e diversi altri, facendo degli scioperi dall’utilizzo delle piattaforme e degli smartphone. E inoltre è una riflessione che lascia fuori alcune questioni importantissime: quella del controllo dei cittadini e quella dello strapotere degli algoritmi, con la progressiva esautorazione dell’essere umano da tutta una serie di decisioni e iniziative quotidiane. A me interessava correggere solo certe formule a effetto, ma molto imprecise, come “dittatura digitale”. La realtà è diversa: non sono gli algoritmi che ci vengono imposti dall’alto, non soni i social media che ci manipolano occultamente; siamo noi che ci sottoponiamo docilmente o addirittura con foga al loro strapotere. E lo facciamo perché, nonostante tutti i disincanti, le consapevolezze, le diffidenze, siamo figli di un’idea di progresso che, in mezzo a tutte le decostruzioni postmoderne, svetta ancora come un intatto monumento imperiale. Lo facciamo a maggior ragione noi umanisti, perché temiamo di essere tagliati fuori in modo umiliante da tutto quanto ha successo e produce ricchezza (per pochi). Lo facciamo perché soccombiamo umanamente al fascino velenoso dell’automazione: l’irresponsabilità e la futilità ci rendono più leggeri e spensierati. Lo facciamo, infine, perché siamo malgrado tutto – lavoratori poco o tanto pagati – alla ricerca di un riconoscimento sociale, che può essere ottenuto grazie alla costruzione di identità sottili e liquide, in gradi di nasconderci come veli che coniugano opacità e brillantezza. Veli che ci occultano, ma dietro uno sfavillio accecante.
Glosse
[1] Chi ha letto in termini dittatoriali la gestione della pandemia ha dovuto lasciare in ombra l’esistenza autonoma del virus, che agisce indipendentemente dalle strategia politiche o economiche che una società o una parte di essa mette in opera. Gli allarmisti raccontano una vicenda che si snoda grosso modo intorno a tre personaggi: Big Farma (la sete di profitto), lo Stato (la sete di controllo) e la popolazione (le sete di sicurezza). (I mass-media vengono visti come una sorta di organo di propaganda perfettamente integrato allo Stato). Non tutti giungono a negare l’esistenza del virus, ricorrendo a più o meno implausibili scenari complottisti, ma quasi tutti minimizzano quello che il virus fa o ha fatto alla gente. Possiamo discutere molto a lungo sulle caratteristiche e la portata dell’azione del virus, ma quello che m’interessa sottolineare è che la narrazione della crisi pandemica implica almeno quattro personaggi principali: Big Farma, lo Stato, la popolazione e il virus. A meno di considerare che il virus sia un’invenzione immaginaria di Big Farma e/o dello Stato per sottomettere la popolazione mondiale a un consumo coatto di certi prodotti farmaceutici, bisogna constatare che Big Farma come lo Stato e la popolazione reagiscono all’azione traumatizzante del virus, e certamente lo fanno poi secondo strategie proprie.
Per ciò che riguarda invece il nostro quotidiano uso delle tecnologie informatiche – e le conseguenze che questo implica in termini economici, politici ed ecologici – lo scenario pertinente è riducibile a tre soli protagonisti: i GAFAM, le grandi aziende private monopoliste delle tecnologie e dei servizi informatici, lo Stato, che è simultaneamente cliente dei GAFAM e loro regolamentatore, e la popolazione che gode dei vantaggi e degli svantaggi della rivoluzione informatica. In realtà, anche in questo caso si potrebbe includere un quarto personaggio – l’ambiente – e considerare l’impatto che su di esso hanno le nuove tecnologie. Va precisato, però, che a differenza di quanto accade nella situazione pandemica, qui l’ambiente reagisce a un’iniziativa (di consumo energetico, d’inquinamento, ecc.) esclusivamente umana. Non è comunque di questo aspetto che mi voglio occupare, ma delle conseguenze che queste tecnologie hanno sulle nostre vite a livello individuale e collettivo.]
[2] Ormai, per darsi una divisa antisistema convincente, è bene parlare dei media mainstream come se si parlasse di un comparto globalmente squalificato, quasi si trattasse dell’ufficio propaganda di Goebbels. In realtà mai come oggi un certo giornalismo mainstream ha ancora la capacità di fungere da efficace contropotere, come il caso delle inchieste di Carole Cadwalladr sui rapporti tra Cambridge Analytica e Facebook ha mostrato.
[3] In realtà, nessuno è in grado di misurare l’efficacia della manipolazione occulta in circostanze come quelle delle elezioni statunitensi del 2016. Nessuno può dire con certezza: Trump ha vinto grazie al bombardamento mirato di Cambridge Analytica su un certo numero di elettori indecisi. Questo è innanzitutto ciò che Cambridge Analytica vendeva ai suoi clienti: la possibilità di ridare credito, attraverso le tecnologie informatiche, al mito della pubblicità subliminale, che si era sgonfiato assai rapidamente nel corso degli anni Sessanta (si ricordi il caso di James Vicary). L’incertezza sugli effetti di tale propaganda non permette però di minimizzarne la pericolosità. Mi sembra ragionevole, quanto ha detto a proposito Christopher Wylie, informatico ed ex-impiegato di CA, durante l’inchiesta realizzata dal Parlamento britannico: “Nel mondo dello sport, quando c’è certezza di sostanze vietate nel sangue di un atleta (doping), non ci si rompe il capo per determinare se la dose sia stata determinante per la vittoria oppure no. Si squalifica, e basta”. Sullo scandalo Cambridge Analytica, un altro approfondito documentario prodotto da Netflix: The Great Hack, 2019.
[4] “Poiché, però, è evidente che nella competizione globale digitale è essenziale, sia per le tecniche di Intelligenza artificiale che per qualunque altra attività legata all’ecosistema digitale, il possesso di dati che, in questo sistema, sono prodotti in quantità sempre più elevata dagli stessi operatori, utenti e fornitori di servizi, la UE ha man mano affiancato la sua attenzione alla tutela dei dati personali in conformità con i suoi valori fondamentali con una attenzione non meno rilevante e significativa al possesso dei dati, alla loro raccolta e alla loro utilizzazione.” Il futuro dell’Europa si regge sui dati. Pizzetti: “Così l’UE ha cambiato approccio” – Agenda Digitale Corsivo mio.
Un vero e proprio saggio breve, profondo e ricco di spunti di riflessione di cui tener conto. A maggior ragione per chi lavora o aspira a lavorare (come me) in campo umanistico. Lo condividerò sui social media nella speranza che qualcuno lo legga, e fino in fondo, intuendone le molteplici implicazioni.
Ho letto con il mio ebook reader tutto il lungo pezzo di Inglese che meriterebbe un articolo di risposta, ma da subito scrivo qua alcune impressioni. Intanto apprezzo sempre la metodicità di Andrea nel trattare un tema, che è sempre molto elegante anche quando – come in questo caso – non condivido molte delle tesi esposte.
Prima di tutto sgombro il tavolo da ogni tipo di ambiguità: Andrea ha ragione per buona parte delle cose che dice. I social network vanno distrutti, sono un aberrazione digitale che è cresciuta come una bolla, sono l’equivalente culturale della peggiore fininvest degli anni ottanta portata all’informatica. E lo scrive uno che li usa ogni cinque minuti, che ne è dipendente e che crea dipendenza al loro uso.
Le cose su cui non sono d’accordo con Inglese sono sostanzialmente due. La prima è che gli umanisti siano tutti zitti a seguire il carro del digitale per paura di apparire retrogradi. Mi permetto di autocitarmi e di incollare qua sotto un frammento del mio contributo a “Guida all’immaginario nerd”, Odoya edizioni, 2019:
“Recentemente la programmazione è tornata a essere una attività didattica multipurpose, rivolta a bambini, ragazzi e adulti. Non solo uno strumento professionale per programmatori, ma anche un oggetto con cui giocare, progettare, creare. Da più parti ci si è resi conto che la depauperizzazione del mezzo informatico, reso un portale per acquisto di applicazioni e servizi online o di comunicazione social, sta portando a un digital divide sempre più forte: da un lato chi produce beni e servizi e ha le capacità informatiche per farlo, dall’altro i consumatori, che di tutto l’ecosistema sono solo i clienti. Questa divisione è sempre più netta e rischia di coinvolgere diversi livelli di complessità. Non soltanto è una divisione tra chi sa programmare e chi no, ma anche tra chi ha in mano piattaforme sovranazionali dove stazionano e vengono assorbiti i dati di chi naviga o acquista e chi queste informazioni le cede, spesso senza rendersi conto di quello che sta facendo. La stessa educazione al digitale, la gestione della propria privacy, la coscienza critica nel giudicare le informazioni che vengono spacciate sui canali social, la netiquette: chi è arrivato al digitale senza averne conoscenza lo utilizza come utilizzerebbe un televisore e una lavatrice: male. Per questo la programmazione, anche come strumento didattico nelle scuole, assume un’importanza crescente. Non per formare generazioni di programmatori, ma per dare consapevolezza della complessità di un mezzo, il computer, che non ha niente a che fare con un elettrodomestico. Per rimettere quella tastiera in mano ai ragazzi per fare cose e non solo per subirne i prodotti”.
Questo scrivevo due anni fa e forse c’è già dentro la risposta ad alcune cose che Inglese scrive oggi. Non è vero che ci sia una accettazione supina a questa rete in mano a due o tre multinazionali del digitale, anzi, proprio chi è più vicino al mondo informatico avverte chiaramente il pericolo di questo modello che è – semplicemente – informaticamente sbagliato. Lo sappiamo benissimo. Ma contrastare questi colossi è complesso perché non c’è davvero stata una informatizzazione di base. La cittadinanza digitale è un illusione perché le persone che vanno in rete, per qualunque cosa, ci vanno senza sapere dove sono e cosa fanno. La magia di cui parla Andrea è il cuore informatico della grande maggioranza delle persone che sono in rete. Quando a partire dagli anni novanta e duemila si è accettato si bypassare l’informatica sostituendola con l’uso di versioni edulcorate e semplificate dell’informatica, troppo semplificate, si è fatta una scelta precisa che – sul lungo termine – ha portato ad avere miliardi di persone connesse in rete che non saprebbero spostare un *bit* dell’aggeggio digitale che hanno in mano. Facebook è IMHO solo una conseguenza di un problema più grosso: pensare che si possano usare oggetti informatici complessi come se fossero televisioni un po’ più potenti, sms un po’ più potenti. Non lo sono, non lo sono mai stati.
Anche dal punto di vista creativo, Facebook è una mutilazione. Con tutto quello che posso fare con l’informatica, a livello creativo e di produzione, quello che faccio è scambiare pensieri brevi, immagini, link. Per sempre.
E qui arrivo al secondo punto di disaccordo: i social network non sono ineluttabili. I social network non sono “la rete”. La telematica, la natura più radicale della telematica, è neutra. Niente impedirebbe alle persone di prendersi un dominio, metterci su un CMS, scrivere su usenet (esiste ancora eh) o creare nuovi servizi paralleli distribuiti. Non lo impedisce nessuno se non l’ignoranza di cui parlavo prima. La pigrizia di massa e l’ignoranza informatica. È più comodo e veloce trovare la struttura già pronta, anche se monopolistica e soprattutto già popolata. Fuori dai social network, dove c’è la libertà, ci sono i cespugli portati via dal vento dei film western. Nessuno ti sente urlare fuori dai social network, perché nessuno viene sul tuo sito a vedere cosa fai. Non è appagante lavorare nella parte libera della rete. Per ora.
La mia presenza in rete, anche qua in questo commento, non è un avatar, non è una continuazione di quello che faccio nel mondo reale: la mia presenza in rete, qualunque essa sia, è una parte del mio mondo reale. Questa cosa che leggi *è reale*, anche se non è su carta o anche se, distogliendo gli occhi dallo schermo, non mi vedi lì seduto accanto a te. Questa è la terza cosa su cui sono in disaccordo con Andrea. Il digitale è reale quanto la puzza che ho adesso addosso nel pigiama. E in questo caso, per fortuna di entrambi, sta impattando su di voi più la mia realtà digitale che quella del pigiama.
Tra le altre cose che condivido invece del pezzo di Andrea è quello della rivolta. La citazione che fa Andrea sul finale (non posso citare l’autrice perché Andrea non la indica e il link all’articolo non funziona) è dirompente, l’idea dei dividenti per la creazione dei dati credo sia qualcosa di irrealizzabile e affascinante nello stesso tempo.
Ma – mi chiedo – non si potrebbe partire a monte? Tutte queste forze – indipendenti e libere – che vogliono ancora uno sviluppo di cittadini digitali in un mondo informatico e telematico consapevole, non sono in grado, non siamo in grado, di fare partire una rivoluzione contro questo progressivo accentramento dei dati? Non solo – come già si fa – con leggi di tutela, ma offrendo alternative credibili, parallele, organizzate e coese di informatica libera?
Ci sarebbero ancora altre cose che vorrei scrivere sulle figure mitologiche dei nativi digitali, ma mi fermo. Solo una cosa: i nativi digitali, gli unici, sono quelli che – da ragazzini – hanno visto l’informatica arrivare come una sberla. I decenni degli anni settanta e ottanta, quelli che hanno preso in mano un home computer otto bit e sono rimasti a vedere quel cursore che lampeggiava immaginandosi cosa potessero fare. Tutto il mio pècmén, il romanzo che ho scritto l’anno scorso, parla di questi reali nativi digitali, quelli che hanno avuto la fortuna di assistere al passaggio da un mondo all’altro e – forse per questo – vedono con più chiarezza i pericoli, i limiti e la sozzura in cui il grande sogno dell’avvenire digitale si è ridotto.
Caro Fabrizio, intanto grazie del tuo intervento, e di aver risposto alla mia sollecitazione.
Per l’intanto ho rimesso a posto (quasi) tutti i link che non funzionavano (negli ultimi interventi su wordpress, erano saltati bellamente. Tante belle parole sul web partecipativo, ma poi i lettori – una volta severissimi – manco più te lo dicono se invece che il Ministero della Salute hai linkato per sbaglio youporn.
Torno più tardi per proseguire il dialogo sui punti importanti che hai toccato.
@ Fabrizio:
intervieni contestando che gli “umanisti siano tutti zitti a seguire il carro del digitale per paura di apparire retrogradi”. Hai ragione. E’ una generalizzazione, e in effetti quel “noi” retorico rischia di essere troppo inclusivo; ma TU non saresti incluso in quel NOI, tu non fai parte dei “puri” utilizzatori come me – e non ne fa parte neppure @Stefano Penge, da quel che intuisco. Qui è meno importante la formazione (universitaria o altro) nostra, che la competenza che col tempo abbiamo o non abbiamo costruito. Quando ti ho interpelllato, è perché tu non fai parte del noi, in cui mi sono messo. Non ne fa parte neppure, ad esempio, l’amico indiano Jan Reister, malgrado la sua formazione universitaria di sinologo, dal momento che si è costruito una competenza su queste piattaforme informatiche.
Quanto alla tua citazione tratta da questo libro – che segnalo ben volentieri – https://www.odoya.it/index.php?main_page=product_book_info&products_id=998 – ebbene essa consolida la mia ipotesi che si possa parlare di “uso alienato” delle piattaforme per tanta gente come me. Quindi mi rendo conto che voi già state insistendo su questo punto fondamentale (ma perché non vi sentiamo ancora cosi distintamente? – forse non siamo del tutto consapevoli delle conseguenze più gravi…).
Poi caro Fabrizio tocchi una questione per me ancora più decisiva, e qui sono io che sono perfettamente d’accordo con te. Scrivi:
“La pigrizia di massa e l’ignoranza informatica. È più comodo e veloce trovare la struttura già pronta, anche se monopolistica e soprattutto già popolata. Fuori dai social network, dove c’è la libertà, ci sono i cespugli portati via dal vento dei film western. Nessuno ti sente urlare fuori dai social network, perché nessuno viene sul tuo sito a vedere cosa fai. Non è appagante lavorare nella parte libera della rete. Per ora.”
Qui usciamo dalle questioni di semplice comptenza-non competenza, qui entriamo in quello che è per me la questione del “riconoscimento sociale” in una società assai atomizzata e assai competitiva. Chi è disposto a godersi la sua libertà, se questa lo porta in un bel deserto di cespugli rotolanti? Molto meglio un pacchetto già pronto (e popoloso). Qui ci scontriamo con una questione etico-politica. Quando io ero punk, all’inizio degli anni Ottanta, le reti di autoproduzione funzionavano come piccole nicchie, ma era proprio questo che ci piaceva. Oggi sarebbe percepito come un terribile fallimento comunicativo il do it yourself di quella fase dell’underground.
Attenzione, per quanto riguarda la questione dei “dividendi” – ora ho ristabilito il link – E’ UN’IDEA presente del documento della COMMISIONE EUROPEA. L’autrice che s’è spulciata la mappazza in burocratese l’ha trovata espressa (vagamente, ma realmente) li.
Una risposta a parte sull’altra obiezione che fai, altrettanto importante.
Probabilmente non sono la persona giusta per commentare perché in parte sono cose che dico e scrivo da tanto, ma essendo (stato?) un umanista non mi ritrovo nel ritratto dell’umanista utente passivo che emerge nell’articolo.
Cioè so bene che per la maggior parte è così, ma io non lo sono da troppo tempo e non riesco più a immedesimarmi in questo modello.
Quindi diciamo che non sono rappresentativo del target dell’articolo, che invece suppongo siano persone che non hanno seguito la vicenda di Cambridge Analytica, che considerano il GDPR una formalità in più, che non si domandano come fa un’impresa a fornire servizi gratis ma li usano allegramente perché “io di queste cose… ma già Platone nella Repubblica…”.
Non saprei dire – perché non lo so per quanto riguarda me stesso – se è sufficiente lanciare allarmi, scrivere bei testi argomentativi (ma di 7000 parole, che quindi verranno letti dalle poche persone che hanno tempo e voglia), o se si deve fare di più. Letteralmente, fare: realizzare “artefatti digitali filosofici” (neologismo di oggi), cioè oggetti che non si limitano a parlare di questo tema ma lo dimostrano con la loro stessa esistenza. Fare cose meno di nicchia: non convegni ma fiere, sagre, mostre. Non libri, ma film, podcast, giochi. Altrimenti siamo solo tre, tre briganti e tre somari. Mi candido come uno dei tre somari.
Per quanto riguarda la risposta di Fabrizio Venerandi, invece, potrei dire qualcosa: che bisognerebbe fare uno sforzo per formarli, questi umanisti digitali critici (ed è quello che mi piacerebbe fare, a cominciare dalle traduzioni dei testi del Critical Code Studies); che bisognerebbe trasformare il coding da esercizio di un supposto pensiero computazionale in vista di un futuro sfruttamento anticipato ad ambiente di sperimentazione pratico di teorie (che è quello che sto cercando di fare).
Questo ed altro premesso, sono contento che se ne parli di più, ovunque, quindi grazie ad Andrea Inglese e a Fabrizio Venerandi che me l’ha segnalato.
@ Stefano Penge,
1) è evidente che non fai parte degli umanisti acritici o troppo poco critici, o comunque incompetenti. Ben contento di snidarvi. E ti prego, linka o indicaci tuoi interventi, articoli, libri.
2) Scrivi: “Non saprei dire – perché non lo so per quanto riguarda me stesso – se è sufficiente lanciare allarmi, scrivere bei testi argomentativi (ma di 7000 parole, che quindi verranno letti dalle poche persone che hanno tempo e voglia), o se si deve fare di più.”
Ognuno deve cominciare a fare a seconda dei suoi strumenti e del contesto in cui si trova. Dimmi pure che c’è altro da fare, e che tu hai proposte in proposito. Ma non dirmi che scrivere su questo argomento cose “lunghe” non serve a nulla. Un tema è davvero condiviso (e sale a un livello di reale consapevolezza) quando se ne parla talmente tanto e da tanti punti di vista, che prima o poi si finirà per fare anche qualcosa.
Perché ho scritto un intervento lungo e non un post su Faceboo? Perché è il solo modo che ho avuto per elaborare una mappa e un’analisi a partire da cinque o sei documentari visti e cinque o sei libri letti di circa 200 pagine ciascuno. Ma non si tratta né di una sorta di “grande sintesi” né di una multirecensione; si tratta di combattere il “dividi et impera” sul piano informativo e conoscitivo. Ho cercato di creare nuove connessioni tra cose che già sappiamo. E se qualcuna di queste connessioni non era così evidente ed è plausibile, allora sto partecipando nell’avanzamento della conoscenza comune.
3) ” fare uno sforzo per formarli, questi umanisti digitali critici”. Non so esattamente cosa voglia dire, ma io mi candiderei subito, se mi promettete più strumenti di difesa e di alternativa all’esistente delle piattaforme come sono ora.
Grazie, è raro che qualcuno risponda punto per punto :-)
1) Qualche ragionamento lo appunto dal 2008 qui https://www.stefanopenge.it/wp . Poi ho scritto qualche cosa sul coding, che secondo me è uno snodo fondamentale del processo di fidelizzazione di docenti, studenti e genitor ( https://www.stefanopenge.it/wp/wp-content/uploads/2016/09/dietro_il_coding-1.pdf). E poi sto cercando di portare avanti una collana che propone le attività di coding come mezzo per essere più consapevoli (“program, or be programmed” diceva Rushkoff). Il primo testo è proprio sulle connessioni tra coding e discipline umanistiche, e il prossimo libro sui dati aperti e la cittadinanza digitale.
2) Non dico che non vadano fatte riflessioni e che non vadano cercate connessioni. Ci ho provato:
https://www.stefanopenge.it/wp/?p=723
Questo dialogo, scritto l’anno scorso insieme a Marco Guastavigna, è di 11111 parole. Parla soprattutto della possibilità di un uso aperto delle tecnologie digitali nell’educazione, che è poi il mio campo di interesse maggiore.
E’ per questo che mi permettevo di dire che un testo lungo viene letto da poche persone, tendenzialmente quelle che non ne avrebbero bisogno (ma chi può dirlo): perché il dialogo di Marco e mio ha fatto quella fine, per quanto diffuso e segnalato nel circolo degli amici, anche su Facebook. Non ha creato una discussione ulteriore, non ha generato altre domande o provocazioni. Ed era un tentativo di testo poco accademico, mosso, non deterministico.
3) Per promuovere una maggior consapevolezza degli umanisti (ma in realtà di tutti, compresi i tecnologi più digitali di Bill Gates) degli aspetti nascosti, non solo politici ma anche culturali, sociali, etici, estetici, dei codici sorgenti sono partito da un’idea che mi pare l’opposto di quanto ha fatto finora l’informatica umanistica, almeno da queste parti: usare concetti e teorie umanistiche per capire l’informatica, e non solo viceversa. Ho iniziato una ventina d’anni fa leggendo un libro di Pierre Lévy (De la programmation considerée comme un des beaux arts). Quando ho provato a portare queste idee in ambito accademico, per esempio all’Università di Pisa, ma anche alla Sapienza di Roma, ho trovato poco ascolto. Magari le cose ora sono cambiate.
Allora ho creato un’associazione, e con questa sono riuscito ad organizzare CodeFest (https://codefe.st/), il primo festival del codice sorgente, e poi CodeShow, la mostra del codice sorgente (https://www.codeshow.it), dedicata ai ragazzi e non solo. Non sono convegni ma luoghi/eventi che puntano ad un pubblico generico, a volte semplificando, a volte giocando. Vorrebbero servire anche a far incontrare persone, oltre che idee.
Nell’ambito di CodeFest sono riuscito ad invitare Mark Marino, John Cayley, Matthew Fuller, che sono tra le persone che si sono occupate di Critical Code Studies. Ora sto cercando un editore italiano disposto a pubblicare alcune traduzioni del loro saggi più recenti, più qualcuno fondamentale.
Questo è quello che intendevo per “fare uno sforzo per formarli”.
Articolo con cui condivido molte parti delle riflessioni e che, come dice Venerandi nei commenti, meriterebbe un articolo in risposta. Mi limito qui velocemente a evidenziare alcuni considerazioni: il disagio degli umanisti nei confronti dei social media, che spesso poi si traduce in adesione appunto ‘sottomessa’, deriva da una (credo) atavica incomprensione del rapporto tra tecnologia e saperi umanistici, che sono invece da sempre condizionati dalle relazioni tra quello che si può dire e come lo si può dire. Basterebbe insomma ricordarsi un po’ di Jakobson e della Scuola di Toronto per ricordarsene. Nel nostro piccolo, la scuola di informatica umanistica, che ha una bella e consolidata tradizione italiana, ha provato e prova da anni a farlo e, ancora nel nostro ancora più piccolo, ci si impegna anche personalmente, qui ad esempio quello che scrivevamo oramaia cinque anni fa con il collega e amico Fiormonte sulla traiettoria che stava assumendo la rete:
https://infolet.it/2016/10/12/controllare-internet-in-6-mosse/
Il che ci porta comunque a un errore storico computo dagli umanisti più in generale nei confronti, specificamente del web e che ha a che fare con quanto correttamente (gli ho dedicato un piccolo libro, al tema) Inglese individua come forza pregnante di Facebook: la disponibilità di un mezzo di espressione e di comunicazione individuale. Bene, questa era, tra le altre cose, la promessa del web e, come osserva Venerandi, era una promessa che, a partire dall’ipertesto, comprendeva una infinità di potenzialità espressive (direi: letterarie) alla portata di una platea che Facebook (e Instagram e Twitter ecc.) ha poi assorbito in una gabbia creativamente omogenea e dittatorialmente omologata per ogni utente. Ma, e anche qui sono d’accordo con Venerandi, faremmo un erore a pensare che facebook non contenga e non esprima realtà, identità reali, vite reali, fatti reali. Semplicemente, la realtà oggi passa, si racconta, si produce anche (e soprattutto) per quel medium, come è avvenuto per la carta, per il cinema, per la televisione: dimenticarlo sarebbe, secondo me, reiterare un errore di valutazione e comprensione del fenomeno.
Grazie Paolo Sordi del tuo intervento. Per prima cosa ti direi, visto che la tua bibliografia è ampia, di indicarci un tuo o il testo che consideri più aggiornato su questi problemi. Credo che non sarà utile solo per me una tale indicazione.
Incollo qui il paragrafo finale del vostro articolo:
“In conclusione, se l’universalismo anglo-digitale si sposa perfettamente con il rischio di epistemicidio ed eliminazione della diversità, dall’altro non possiamo negare, come mette in scena Dave Eggers nel suo romanzo, che nel favoloso mondo della “trasparenza” dei social media tutti, da Est a Ovest, da Nord a Sud, collaboriamo alla perdita della nostra privacy e della nostra libertà. Per evitare la scomparsa a ogni latitudine del diritto all’oblio e della diversità epistemica è necessaria un’alleanza più vasta e più profonda di quella auspicata dai teorici del post e decolonialismo. Il “border thinking” è condizione insufficiente: occorre unirsi per lavorare nella direzione geopoliticamente trasversale di una libertà dai (e di una “giustizia cognitiva” contro i) monopolisti dell’immaginario descritti da Eggers. Prima che sia troppo tardi, dobbiamo ampliare i concetti di libertà, diritti e democrazia alle nostre tracce digitali, considerandole a tutti gli effetti un’estensione della nostra cittadinanza, ovvero dei nostri corpi – e delle nostre menti.”
Rispetto a quanto già scritto da voi nel 2016, in un articolo come il mio non si troverà nulla di più (fatto salvo un paio di questioni, che ricordero’ dopo). Per altro, sottolineo il punto che a me premeva, e che voi proprio nelle conclusione sottolineate: “tutti, da Est a Ovest, da Nord a Sud, collaboriamo alla perdita della nostra privacy e della nostra libertà”.
Ora rispetto al 2016, vi è stato in più il caso Cambridge Analytica, ma non sembra che, nel frattemp,o l’osservazione da voi fatta, sulla scorta di Eggers, sia da corregere, o mi sbaglio? Mi sembra che sia stata soltanto la pandemia, oggi, a rimettere sul tavolo la questione, ma in un modo per altro spesso confuso. Insomma, domanda che vi faccio (e che farei anche a Venerandi e Penge): in Italia, in Europa, è cambiato qualcosa dal 2016? O dal 2018? Rispetto al modo in cui la maggioranza di noi utilizza piattaforme e smartphone? Ci sono forme di aggregazione politica significative intorno a questi temi?
La novità oggi viene dalla voglia della UE di implicarsi attivamente nella gestione dati, strappandola dalle mani dei monopolisti privati. E’ una buona notizia direi, ma solo in parte. Tutti i problemi di: 1) sorveglianza 2) condizionamento 3) mercificazione della vita quotidiana rimarranno intatti, se non ci saranno, come già sottolinevate voi, delle prese di posizione da parte dei cittadini.
L’altro punto, che mi sembra sia poco trattato fino ad ora è quello del “digital labor”, di considerare che sulla nostra attività quotidiana in rete viene estratto del valore economico, senza che a noi ne ritorni nulla. Insomma, il tentativo di realizzare un’analisi in termini marxisti dello sfruttamento (in tutti i sensi del termine) del lavoro del clic da parte delle aziende monopoliste.
Grazie a te, Andrea Inglese, per l’occasione di di dialogo e conversazione su questi temi. En passant, per quanto rigurarda il tuo invito ‘bibliografico’, potrei citare il mio ‘La macchina dello storytelling. Facebook e il potere di narrazione nell’era dei social media’ (https://www.ipertesti.it/portfolio/la-macchina-dello-storytelling/) e un testo che sto leggendo ora e mi sembra molto centrato sulla portata della rivoluzione epistemologica della digitalizzazione: ‘La giustizia digitale’, di Antoine Garapon e Jean Lassègue (https://www.mulino.it/isbn/9788815291332).
Tu chiedi che cosa è cambiato rispetto al 2016 o al 2018. Innanzitutto, mi sembra che il problema sia più al centro di un dibattito che pure è diventanto ‘mainstream’ con tutte le contraddizioni del caso, a cominciare dal ruolo della stampa, per finire a quello di scuola e università, su cui la pandemia e il conseguente affidamento alle piattaforme per la didattica a distanza hanno aumentato la portata del problema. A questo riguardo, la tendenza a estrarre profitto dal nostro vivere e agire socialmente online, nonché dalla nostra rinuncia alla privacy, è in moto da anni e i social media ne sono soltanto una delle manifestazioni: quando gestiamo il nostro conto corrente da soli sull’app o sul sito della nostra banca stiamo facendo il lavoro che fino a qualche anno faceva un impiegato retribuito della filiale presso la quale ci recavamo in quasi sacro pellegrinaggio, no?
È il modello economico e sociale della ‘società piattaforma’ (a proposito: https://www.guerini.it/index.php/prodotto/platform-society/), in altre parole, che va combattutto, sono qui molto d’accordo con te, ma insomma ce ne sarebbero cose di cui parlare e occasioni da trovare per farlo.
Articolo multiforme e pieno di direzioni d’indagine, su cui ho rimuginato un po’ per trovare un punto di attacco.
Partirei da Shoshana Zuboff, The age of surveillance Capitalism, 2019, dove l’autrice teorizza una fase del capitalismo in grado di trarre profitti marginali dalla lavorazione dei dati raccolti e sistematizzati in quantità enormi. Illuminante è il legame del capitalismo della sorveglianza (SC) con la zoologia, per il distacco del biologo in volo sulla pianura africana nei confronti del singolo zebù di cui sta osservando la mandria.
Sono aziende che traggono profitto dai dati delle persone, non solo i dati dello spirito e dell’espressione di sé, ma qualsiasi genere di dato inclusi quelli pedestri delle funzioni corporee (leggi: settore fitness) o i tediosi metadati cinetici dei nostri telefoni. Nella visione di GAFAM non conta tanto il controllo dell’individuo, in una concezione novecentesca dello spionaggio totale sul cittadino, ma la possibilità di plasmare e indirizzare senza darlo a vedere comportamenti aggregati.
Il core business GAFAM in questo senso è l’eterno fine della religione, delle ideologie, della finanza, della propaganda e della publicità: prevedere il futuro modificando i comportamenti delle persone. Ma a differenza della religione e delle ideologie manca completamente la pretesa di dare un senso al mondo e di giustificare sostenendolo l’ordine sociale e i rapporti di forza e disuguaglianza. Questo ci spiazza non poco quando leggiamo che il tal dirigente GAFAM è un estremista di destra, perché ci distrae dal principio di indagine: follow the money.
GAFAM fanno soldi arbitrando un sistema di scommesse sulla previsione del comportamento delle persone, e sulla modifica di questi comportamenti in funzione delle poste d’azzardo. E nel fare così GAFAM non sono però gli abili scommettitori, gli astuti manipolatori del mondo a vantaggio dei profitti del capitale, ma i gestori del casinò.
E’ il casinò che offre l’illusione di partecipare a un gioco immensamente profittevole e prestigioso, ma che non perde mai anche quando il cliente vince. GAFAM vende ai propri clienti l’illusione di compensare i rischi dello scommettere sul futuro con tecnologie raffinate e oscure, e in questo ha i tratti del con artist, del truffatore che raggira, blandisce, attira, solletica, spreme, abbandona, riprende i suoi bersagli. Inglese nel suo pezzo ci va vicino, senza dirlo esplicitamente.
Il centro del campo di analisi è questo confidence trick: la pretesa che GAFAM possa realmente manipolare le persone con forme avanzate di pubblicità/propaganda. La pretesa di efficacia nel controllo delle persone. Ora io non nego che tale propaganda abbia effetti devastanti, profondi e poco capiti, e faccia emergere modi e tecniche nuovi di controllo e resistenza, e giustamente se CA ha fatto doping sul voto democratico, questo è grave a prescindere da quanto nandrolone ha fatto assumere al corpo sociale.
Però mi sembra che siamo spesso preda di una strana pareidolia, dove cerchiamo di spiegarci la realtà digitalizzata e alienata con schemi a noi familiari (l’astuto Macchiavelli, il perfido Richelieu, la soffocante STASI), senza mettere a fuoco la quantità di sapere, innovazione, conoscenza dell’animo umano e della società che ha un con artist quando gestisce un enorme casinò globale.
In questo senso l’idea del controllo occulto, manipolatorio ed efficace non mi convince, perché per ottenerlo deve affiancarsi alla persuasione la forza coercitiva dello stato. Stiamo guardando in realtà aziende in settori economici in crescita fortissima, che stabiliscono immensi monopoli/monopsoni transnazionali, sottraendo il loro operato al controllo dello stato e del fisco, e in grado questo sì di condizionale la società nel suo complesso. E questo lo ha capito perfettamente la Cina che ha riportato sotto il controllo del Partito i propri colossi digitali ed ha avviato il loro smembramento in una logica antitrust molto lineare. Esattamente quello che molti sostengono vada fatto con GAFAM: rottura dei monopoli, divisione in aziende più piccole, tassazione dei profitti offshore, accountability, sottmissione al potere politico.
Qui per mancanza di tempo finisco.
Grazie anche Jan del suo intervento, e di nuovo a Stefano Penge e a Paolo Sordi: i vostri interventi chiarificano, correggono e aggiungono materiale importante rispetto alla mia cartografia da utente-incompetente.
Di certo la questione dei dati – chi li fornisce, chi li capta, chi li elabora, chi se ne serve e secondo quali obiettivi – dovrebbe divenire definitivamente uno dei problemi politici centrali del prossimo decennio, per il destino delle democrazie e di coloro che vogliono conquistare più democrazia. Ma parlare di democrazia, vuol dire parlare anche del valore dell’uguaglianza che continua ad essere uno dei terreni di scontro interni alle democrazie e non solo. Le nuove tecnologie non sono solo un progetto egualitario e libertario, che segna il passo. Gli anni recenti hanno mostrato cosa il neoliberismo e perfino il neofascismo o il populismo più reazionario possono fare di questo progetto.
Continuo a pensare che la maggior parte di noi sia ancora in una sorta di differimento rispetto all’esigenza di passare da utenti piuttosto passivi a utenti in grado di determinare su qualhe punto importante l’evoluzione di queste tecnologie. Cio’ dipende da diversi motivi che avete anche voi ricordato.
1) Come dice Jan, e su questo sono d’accordo, non siamo in una dittatura che possa usare in modo apertamente repressivo i nostri dati contro di noi. Ma nessuno ci garantisce che cosi sarà in eterno, che gli europei hanno una sorta di assicurazione democratica fino alla fine dei tempi. Durante la persecuzione nazista, si utilizzarono anche nei territori occupati tutti gli strumenti che la statistica allora metteva a disposizione. (A questo proposito un ducementario francese interessante: https://www.nouvelobs.com/ce-soir-a-la-tv/20211106.OBS50731/rene-carmille-un-hacker-sous-l-occupation-le-premier-des-pirates.html) Ma era ancora possibile falsificare dei documenti. Oggi non sarebbe più possibile.
2) Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi ha preso una direzione precisa, che è quella di proporre “un accompagnamento” sempre maggiore dell’umano, dominio d’inesauribili imperfezioni ed errori. Gli algoritmi prometteno, a patto di basarsi su una ricezione sempre più capillare e massiccia di dati, di guidarci in ambiti sempre più estesi della nostra esistenza, sia di privati, che di lavoratori, che di fruitori di servizi sociali. E’ questo che veramente ci interessa? E’ il nostro progetto di società? Che costi avrebbe realizzarlo?
3) @Venerandi ha ovviamente ragione quando dice: digitare su una piattaforma, chattare, mettere un like è altrettanto reale che mangiarsi una pizza. Vero. Ma io posso essere in grado di creare una gerarchia dentro l’unico e indifferenziato piano di realtà. Posso preferire prepararmi un pasto che farmelo recapitare già pronto da uber eats, e non solo perché “sono contro lo sfruttamento dei riders”. No, perché trovo più “gioia”, “soddisfazione”, “pienezza” nel processo di preparare un cibo e poi consumarlo. Vedere un film porno è un’azione altrettanto reale che fare l’amore in carne ed ossa, e non è che fare l’amore in carne ed ossa sia sempre una cosa soddisfacente, priva di aspetti magari squallidi e ripetitivi o persino distruttivi, pero’ c’è anche qui una differenza che posso individuare. Quindi non stiamo parlando di distinguere fantasmi da realtà solide, ma eventualmente possiamo confrontare stili di vita diversi, pratiche e pratiche. E questo è legittimo farlo.
4) Infine: l’estrazione di valore economico dalle nostre attività, anche in seno all’amministrazione – non per forza su Facebook. Il considerare e il rivendicare il nostro statuto di “lavoratori del clic”, in vista di un nostro potere di negoziazione sia nei confronti delle istituzioni che nei confronti dei privati. Non è una cosa di poco conto. In un documento ufficiale della Comunità Europea si è possta la questione dei “dividendi” da distribuire ai cittadini. Questo è il segno che possediamo non solo desiderio di esprimerci, di distrarci, di uniformarci sulle piattaforme, ma anche la “forza lavoro” del dato di cui Stati e imprese hanno bisogno.
In ogni caso, tutti gli strumenti che persone come voi possono fornire agli utenti-incompetenti (spesso di formazione umanistica) ma anche agli utenti competenti ma acritici sono ovviamente oggi più che mai importantissimi.
Finisco con un’autocritica. Un certo numero di persone da anni studia tali questioni, ha familiarità con il linguaggio di programmazione, ha delle competenze specifiche in materia (insomma, gente come voi), e oltre a questo un bagaglio intellettuale che li pone in una posizione critica rispetto ai miti circolanti. Bene. Gente come me, invece, non ha mai avuto né ingenuo né consapevole interesse per le nuove tecnologie. Non subisce alcuna fascinazione per gli oggetti tecnologici, e in definitiva non possiede neanche uno smartphone. Molti ambienti che si dedicavano ad argomenti tecnologici li ho a lungo percepiti come ambienti di specialisti che discutono in gergo del loro universo professionale o d’interesse. Quindi l’unica cosa che mi ha spinto in qualche modo a riguadagnare il tempo perduto, a dedicarmi con attenzione a tutta una serie di argomenti, attraverso pubblicazioni e documentari, è stato la comprensione della centralità politica che le nuove tecnologie hanno assunto nella nostra società. Se è una questione politica centrale non mi puo’ non riguardare. (Cosi è stato anche per la crisi economica del 2008). Ma questo vuol dire anche che per attirare l’interesse delle persone, questa dimensione deve essere esplicitata, messa in avanti, togliendo al discorso sulla tecnologia una sorta di neutralità assiologica. (E’ per altro quello che voi già avete fatto. Ma è di certo l’unica strada per strappare un ampio numero di persone a un uso alla fine fatalistico delle tecnologie, considerandolo indiscutibile (di cui è inutile, noioso, difficile discutere).
Grazie, Andrea, per questo lungo articolo, in cui mi sono imbattuto per caso mentre cercavo un’informazione sul web (e già…) e che mi ha, letteralmente, aspirato: è una tematica su cui ragiono – e ‘à vrai dire’ un po’ mi tormento… – da tempo e sono d’accordo con buona parte della tua costruzione (non tutta), sicuramente ne condivido interamente la filosofia. Tuttavia, se mi butto subito a commentare qui, è innanzitutto a causa di una tua considerazione marginale, nella prospettiva diciamo del “dito-luna”: “Appare allora singolare che la massima allerta sulla situazione della nostra democrazia venga lanciata in occasione di una reale urgenza sanitaria, quando per anni la presenza nelle nostre vite delle tecnologie informatiche, anche da parte della minoranza oggi scandalizzata, è stata vista come poco o nulla problematica”. Ecco, queste parole (e altre sulla stessa linea, in particolare quelle che sottolineano la più o meno marcata assenza del virus nel discorso di chi denuncia la “dittatura sanitaria”) sono state per me di vero e proprio conforto: è esattamente quel penso e argomento da quando è iniziata questa pandemia, in una desolante solitudine, è stata la mia prima critica, e proprio in questi termini, agli “anti”. Con tuttavia una sfumatura che mi sembra fondamentale: il controllo operato da Google, Facebook etc. non può comunque essere messo sullo stesso piano di quello operato dalla Stato, che “ufficialmente” diciamo detiene il potere politico, con la violenza che questo possesso implica, e il cui uso della schedatura di massa, anche a “buon fine”, apre scenari per certi versi nuovi, e certo non rassicuranti: in ogni caso meritano una riflessione – un’azione? – in sé, forte… (“Anti”: li chiamo così fra il serio, anzi il tragico, e il faceto: ma la dicotomia tra “pro” e “anti” è a mio avviso un’aberrazione, in Italia più radicata che altrove, che soffoca la comprensione della realtà; le posizioni sono tante, alcune – fra cui la mia – molto più sfumate, e in questa polarizzazione non riescono a trovare posto: fra l’altro alcune delle questioni sollevate da Giorgio Agamben o Barbara Stiegler, per non citare che due fra gli “anti” più intelligenti, che del resto il problema delle tecnologie informatiche se lo pongono da tempo, sono più che legittime; e viceversa, basta esprimere, anche da convinti vaccinati e “vaccinisti”, una critica, un dubbio su alcune misure prese, o anche solo sui tempi e i modi di queste misure, per essere stigmatizzati come bollenti “novax”… Su questa dicotomia tossica, e spesso falsa, che impedisce di considerare alcune questioni cruciali, ci sarebbe molto da dire, ma è un altro diciamo soggetto, anche se in realtà intrecciato con alcune delle cose di cui tratti nel tuo articolo: se ne parlerà magari in un’altra occasione…)
Al di là della condivisione di fondo, dunque, ecco qui di seguito brevemente qualche differenza, o almeno aggiustamento rispetto al tuo lungo ragionamento. Sempre molto, troppo brevemente (ma un po’ più a lungo di quanto faccia adesso, anche se indirettamente, ne ho scritto qualche tempo fa proprio su questo sito: https://www.nazioneindiana.com/2021/02/08/linvoluzione-digitale/)
Non direi che gli “umanisti” seguano acriticamente, come per paura di sembrare conservatori, l’onda della “rivoluzione tecnico-digitale”: le riflessioni critiche esistono eccome, sempre più numerose, alcune importanti, sono diventate quasi un campo di studi in sé: solo che spesso questa discussione avviene appunto fuori dai Social. Ma ecco (forse è in questi termini che aggiusterei il tiro della tua riflessione): è come se la critica fosse incapace di spostare gli equilibri – la stragrande maggioranza degli umanisti, sia pur criticamente, sembra pensare (agendo di conseguenza con fatalismo) che i Social, Google, lo Smartphone etc. siano oramai la realtà, l’ineludibile progresso. Mentre invece non sono il progresso, sono un uso del progresso – dipendente di fatto dal capitalismo totale che ha definitivamente conquistato il mondo dopo la caduta del Muro e il rapido dissolversi del socialismo reale. Altri usi del progresso sono possibili. E per cominciare: perché, al di là delle sacrosante riflessioni scritte, non mobilitarsi concretamente, collettivamente, tanto per cominciare, per la diserzione di Facebook (parlo per quelli che ci stanno, e fra questi molti di noi “ipercritici”…)? per costruire – o usare, alcuni esistono già – dei circuiti alternativi a Google? per rifiutarsi di utilizzare Amazon, a prezzo di qualche scomodità? Alcuni di noi, individualmente, già lo fanno: ma se l’azione prendesse una dimensione collettiva, verrebbe svelato il valore politico che questa azione in realtà possiede – individualmente, invece, assume spesso il senso (sia pur falso) di una dolorosa fuga dalla realtà.
Al di là delle pericolose “derive” di questa invisibile schedatura planetaria, che giustamente sottolinei e analizzi (a cominciare da Cambridge analytica) e che, ricordiamolo, sono (ancora) illegali e perseguibili nelle nostre democrazie, è il cuore stesso di questa gigantesca raccolta dati a essere una “deriva”, tanto più pericolosa in quanto legale, doppiamente legale per via del nostro consenso (continuamente riaggiornato nelle sempre più invasive condizioni d’uso di Google, FB, Smartphone, etc.). Dici anche questo, certo: si tratta in particolare delle diverse faccette dell’uso dei dati più “condizionante” che “predittivo”. Ma secondo me andrebbe sottolineato con ancora più urgenza che in questo “cuore”, in questo DNA – prima e più ancora che nelle continue e inevitabili più o meno pesanti sbandate verso l’illegalità – si cela il nodo tragico di tutta la faccenda: il legale sfruttamento dei dati che noi forniamo, a fini pubblicitari, per il profitto. In altri (e troppo veloci) parole: il lavoro non remunerato, e quindi di fatto schiavizzato, che noi utenti forniamo volontariamente a ogni passo che inoltriamo là dentro, in termini di informazioni poi sfruttate a fini pubblicitari, il che di fatto dà luogo a una forma inedita e spaventosa di alienazione collettiva … Ecco, tu spieghi e critichi giustamente una serie di tratti morali, estetici, filosofici, culturali se vogliamo, insiti soprattutto nella spaventosa macchina dei Social (il pensiero breve, il narcisismo solipsistico al posto dello scambio, etc.): ed io sono d’accordissimo, tanto più che ne parlo anch’io nell’articolo evocato all’inizio. Ma, come dire, credo – forse è un riflesso della mia formazione marxista degli anni 70 – che questi tratti siano in qualche modo un riflesso sovrastrutturale di questa nuova forma di capitalismo, che con Shoshana Zuboff potremmo chiamare della sorveglianza, che ha preso possesso del pianeta – e andrebbe studiato come queste nuove forme di comunicazione siano “esplose” sulla scia della fine della galassia sovietica: non voglio certo difendere il “socialismo reale”, ma è certo che il suo tramonto ha dato al capitalismo una sorta di patente di invincibile onnipotenza. Ottima l’equiparazione che dal punto di vista culturale fa Fabrizio Venerandi (sì, ho letto rapidamente anche i commenti, alcuni non meno interessanti del tuo pezzo) fra i Social, aberrazione del digitale, e “la peggiore Fininvest” degli anni 80. Ma credo che bisognerebbe spingere l’equiparazione ancora più lontano, intenderla concretamente, nel senso dell’economia. I Social, anzi più generalmente i GOFAM, le maggiori aziende digitali, sono il motore, il cuore di questo nuovo capitalismo che governa il mondo, e sono ai primi posti in termini di fatturato (ma non di occupazione). Se non si parte da qui, e dall’alienazione materiale che questa nuova forma di capitalismo implica, ogni critica dei Social rischia a mio avviso di rimanere sterile. (Ai tratti culturali dei Social che analizzi, e la cui analisi condivido pienamente, ne aggiungerei uno, che per me è cruciale: il ‘reagire’ che ha preso il posto del ‘pensare’, e che rivela appunto la necessità di correre – come sto facendo adesso io! – perché il tempo, la competizione sono denaro, profitto… Prova a reperire, ne esistono, i luoghi dove non è il profitto a dettar legge, e constaterai che di nuovo il pensiero, necessariamente lento, il dialogo, riprendono i loro colori…). E penso, com’è ovvio, al recente libro della già menzionata Zuboff (The Age of surveillance capitalism, 2019) ma anche a un precedente librino di Renato Curcio (sì, proprio lui, e forse è anche per questo che il libro è stato praticamente ignorato), L’impero virtuale: Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale (2015).
Ultimo punto, che è conseguenza di ciò che ho appena detto. Alla fine ribadisci quel che avevi annunciato sin dall’inizio: non siamo vittime, o non solo vittime, ma “solerti collaboratori”. Ecco, vorrei dirti que questo, di nuovo, è proprio il nodo del problema: la “servitù volontaria” (su cui c’è una vasta letteratura), in particolare la falsa gratuità o semigratuità con cui funzionano Google, Facebook etc. che è l’altra faccia del profitto e della sfruttamento più spietato (nel senso che la merce siamo noi, i nostri dati, che ‘noi’ forniamo gratuitamente), è il DNA di questo nuovo capitalismo. Un capitalismo che mi viene da definire gassoso, nel senso che se una volta il “nemico”, per così dire, ci stava di fronte, ora ci sta dietro, accanto, dentro, è la stessa quotidianità di cui siamo fatti: come combatterlo? L’impasto sembra inestricabile. Breve, doverosa precisazione, per cui mi permetto un piccolo copia incolla dall’articolo di cui dicevo prima: questo benessere da schiavi dentro il quale prosperiamo nelle nostre società, ipnotizzati innanzitutto dalle presunte comodità e praticità che ci fornisce – e che sono oggi, più del pugno di ferro, le vere armi di governo, del potere! (o almeno, quelle più sofiscate) –, si fonda sullo schiavismo miserabile ed esplicito dentro il quale vive l’umanità al di là della nostra vista, o quasi, fatto di miniere, sfruttamento concreto, anche di minorenni, migrazioni, fuga dalla fame e dalle guerre, distruzione ecologica… Questa è forse, da un certo punto di vista, l’epoca più schiava della storia umana! Insomma, tu inviti gli umanisti (e non) “esperti” diciamo di “nuove tecnologie” a uscire dal ghetto, a fare sentire la loro voce; io avrei voglia di invitare tutti gli altri, a sinistra, soprattutto gli incompenti di “nuove tecnologie” o che le accettano passivamente, a riflettere sul fatto che le questioni poste in questo tuo articolo e nei suoi commenti vanno molto al di là dell’uso di internet: sono fondamentali per potere di nuovo pensare e agire una vasta battaglia, politica e culturale, per cambiare (o almeno migliorare? ma è migliorabile?) questo sistema umanicida e planeticida È una battaglia generale di “progresso” (fra virgolette, perché il termine non mi convince) e di sinistra, e non il piagnisteo di umanisti dinosauri che non sanno usare i Social o lo Smartphone: e questo, i dinosauri come te e me, che non hanno uno cellulare degno di questo nome, dovrebbero cominciare ad assumerlo, a capirlo. Non si tratta di tornare indietro, a prima delle nuove tecnologie, si tratta di andare avanti, per liberarne un uso diverso, non più alienato, libero e veramente gratuito: cè un vasto, straordinario universo di possibilità da esplorare… Essere “impegnati” (altre virgolette) politicamente oggi, o se vogliamo lottare per un mondo più giusto, più libero, non può prescindere da questa fondamentale questione.
… Anzi no, l’ultimo punto è questo!… La suprema astuzia della “rivoluzione informatico-tecnologica” è l’aver convinto la maggior parte di noi che questo sia il – naturale, inevitabile – progresso scientifico, e non un uso del progresso, delle scoperte (il “progresso” per altro non è mai neutro, è sempre legato a un uso, a un’interpretazione): un po’ come se ci convincessimo che la bomba atomica coincide con la scopertadell’ energia atomica, ne è la conseguenza naturale, inevitabile. Ecco, quando parlo dell’uso alienante delle nuove tecnologie, come quando penso alla trasformazione del potere e al sempre più invasivo controllo sociale (panottismo, etc.), non ne faccio una questione personale, di persone: nel senso che per capire quello che succede, per capire cioè come il potere si è trasformato, si sta trasformando, non credo serva ‘personalizzare’ le colpe, attribuendole, che so, a Marck Zuckerberg, a Bill Gates, o a Macron, a Draghi, ai proprietari delle Big Pharma etc, o peggio ancora ai loro perfidi piani orditi insieme nelle stanze segrete. Con questo non voglio dire, ovviamente, che le scelte degli uni o degli altri non possano essere più o meno scellerate (e quindi giudicate, criticate, combattute, etc.), o che dei piani segreti non possano traversare la storia delle nostre società; voglio dire che queste scelte, questi eventuali piani sono inseriti in una realtà, una macchina globale, economica, innanzitutto, e poi amministrativa, politica, perfino culturale, categoriale (il modo in cui capiamo il mondo) che è, in certo senso, indipendente dalla volontà dei singoli, che anzi sono in qualche modo, anche se potenti, presi dentro l’ingranaggio – ed è quest’ingranaggio che bisogna innanzitutto capire e “smontare”, facendo cultura e politica – o anche poesia: è la differenza se vogliamo fra una comprensione storico-politica del potere e una di tipo complottista. E con questo torno all’inizio, menzionando la terza riserva forte che nutro per il discorso del tipo “dittatura sanitaria”, in cui troppo spesso, appunto, sembra che i potenti della Terra si siano segretamente messi d’accordo per dominare l’umanità. Da continuare…
Caro Giuseppe,
ti ringrazio per il tuo generoso intervento, che rivela in realtà una comunione visione critica, in qualche modo ben maggiore di quella che io ho voluto vedere; in effetti il tuo intervento risuona con altri che lo precedono e hanno arricchito e rettificato questo mio post.
Un punto che ci tengo a ribadire. Tu scrivi:
“Ecco, tu spieghi e critichi giustamente una serie di tratti morali, estetici, filosofici, culturali se vogliamo, insiti soprattutto nella spaventosa macchina dei Social (il pensiero breve, il narcisismo solipsistico al posto dello scambio, etc.): ed io sono d’accordissimo, tanto più che ne parlo anch’io nell’articolo evocato all’inizio. Ma, come dire, credo – forse è un riflesso della mia formazione marxista degli anni 70 – che questi tratti siano in qualche modo un riflesso sovrastrutturale di questa nuova forma di capitalismo…”
Attenzione, proprio gli ultimi due capitoletti del mio (ahimé) lungo testo, sono dedicati a questo, ossia a mostrare che la critica morale-estetica non è sufficiente, e che ormai abbiamo sufficienti elementi per avanzare una critica politica, che riguarda innanzitutto “lo sfruttamento” e “l’alienazione” di noi lavoratori del clic. L’ultimo punto s’intitola infatti “Lavoratori del clic: alienati, sfruttati, ma contenti”. Quindi anche qui vediamo esattamente lo stesso scenario.
Ora, come trasformare questa consapevolezza in azione politica, la quale si inserisce nel discorso più ampio di lotta contro il capitalismo che tu formuli? E come pensare a delle alternative di comunicazione e scambio alla pagina facebook? Non è certo qui che risolveremo tali questioni. Ma esse non sono state ancora poste in modo frontale. L’abbandono delle piattaforme non esiste ancora come gesto collettivo. Ma forse è anche perché non esistiamo abbastanza come colletivo. Quanto alle alternative possibili… Dobbiamo cominciare a precisarle, anche perché su questo Venerandi è stato chiaro e implcabile. Là fuori (fuori dalle piattaforme monopolistiche) c’è tutto un mondo da costruire, ma per ora è deserto, inospitale, e nessuno ci vuole vivere.
Caro Andrea, mi sono appunto accorto, leggendoti, di questo comune sentire critico, la mia riflessione su questo punto andava al di là delle tue parole, e voleva sottolineare come questa dimensione “politica” non dovrebbe essere un elemento fra tanti, ma piuttosto la linea di partenza, il centro della nostra critica (e ci intreccio insieme quel che riguarda i meccanismi della “servitù volontaria”, e l’analisi del potere e delle sue trasformazioni come qualcosa di indipendente dalla volontà dei singoli, etc.). Il fatto è che moltissimi umanisti a noi vicini approverebbero la tua (e nostra) riflessione “estetico-morale” o viceversa ti direbbero (a mio avviso sono quelli che hanno capito di meno la natura del fenomeno) che “i social, dipende da come li usi…”: ma gli uni e gli altri cadrebbero dalle nuovole rispetto al finale del tuo ragionamento (e alla parte centrale del mio…). È da lì invece, secondo me, che bisognerebbe partire, ed è a loro che pensavo scrivendo. Ma basta. Per quanto questo sia uno spazio pubblico, rischiamo di restarci imprigionati dentro: invece, innanzitutto, dovremmo adoperarci per dissotterrarle, queste parole, le tue, quelle dei commenti, portarle fuori: meriterebbero una più vasta discussione…