Il mercato metropolitano
di Gianni Biondillo
Non riesco a starci dietro. Una volta era tutto più semplice. Negli anni Novanta a Milano non succedeva nulla, anche una semplice ristrutturazione di un appartamento, o un recupero abitativo di un sottotetto sembrava un’opera capitale. E pensare che c’erano più architetti che a Parigi: avevano lo studio a Milano (penso a Vittorio Gregotti, ad Aldo Rossi a Gae Aulenti) però lavoravano all’estero. Se volevi vedere qualcosa di nuovo bisognava prendere un aereo e andare a Berlino che dopo il crollo del muro era diventata il più grande cantiere d’Europa. Si andava in pellegrinaggio e si tornava tristi. “A Milano non succederà mai”, ci dicevamo, giovani architetti delusi. Così, per anni. Magari facendo una puntata a Londra che, si sa, ogni cinque anni qualcosa di grosso succede sempre da quelle parti.
Poi il capitale finanziario globale ha puntato gli occhi da qualche altra parte. Da noi. C’era di mezzo la scusa di organizzare Expo2015. Ed è cominciata la sbornia. Intere parti di città demolite, ridisegnate, trasformate. Milano, indifferente a crisi economiche o pandemie, era diventata il più grande cantiere d’Europa e non ce ne eravamo accorti. Io stesso che giro la città di continuo, non riesco più a starci dietro. Persino i grattacieli di César Pelli a Porta Nuova ormai sembrano cose vecchie, datate. A CityLife hanno da poco terminato l’edificio di Libeskind e quasi neppure lo guardiamo più, in attesa del nuovo portale d’accesso di Bjarke Ingels. Non c’è quadrante della città che non sia interessato al cambiamento: a sud ovest è in progetto SeiMilano, a nord est la trasformazione di MilanoSesto, a nord ovest Mind e Up Town, a Sud Est Santa Giulia. Case, uffici, palasport, parchi, stazioni, università, foreste urbane, infrastrutture, ospedali, centri commerciali. Una sbornia. Qualcuno direbbe: una colata di cemento.
Eppure, non c’è progetto che non mostri con vanto il suo essere “green”: un esempio, fra i tanti, MoLeCoLa, dove gli edifici sono pensati con strutture in legno smontabili e con pannelli fotovoltaici e tetti verdi. Proprio come in LOC, progetto coordinato dai Metrogramma per il rifacimento di Piazzale Loreto, con legno, tetti verdi, alberi, o come la Torre botanica di Stefano Boeri per Pirelli 39. Non c’è relazione di progetto che non usi lo stesso vocabolario “ecologista”. Forse anche perché gli sviluppatori, i progettisti e i consulenti, sono spesso le stesse persone, come in una sorta di compagnia di giro: Diller Scofidio + Renfro li trovi a Pirelli 39 ma anche allo scalo di Porta Romana assieme a Carlo Ratti, presente anche a MIND dove progetterà la nuova sede del campus scientifico dell’Università degli Studi, Mario Cucinella progetta la “città giardino” di SeiMilano e già c’è a MilanoSesto le nuove sedi dell’Istituto neurologico Besta e dell’Istituto dei Tumori, dove Barreca & La Varra (coprogettisti del Bosco Verticale) disegnano le residenze di edilizia convenzionata, gli stessi che si occupano anche dell’Innesto, progetto di riqualificazione dello scalo Milano Greco-Breda; se c’è da chiedere l’intervento di un paesaggista due volte su tre ci si affida a Land, se occorre progettare la mobilità tre volte su tre ci si affida a Mobility in Chain.
Sia chiaro: tutte persone affidabili, alcune le conosco di persona e mi fregio della loro amicizia. Molti di questi progetti (molti, non tutti!) sono anche di grande interesse. Cosa c’è che non va, allora? Cosa mi disturba se penso che in fondo, fra le rigenerazioni degli scali pensati da Rem Koolhaas, gli interventi di Park Associati, di Foster+Partners o di Renzo Piano Building Workshop, da qui a neppure cinque anni avrò una città che cambierà ancora il suo volto, diventando un vero e proprio museo all’aperto di architettura contemporanea?
Due cose, probabilmente. Una ha a che fare con il linguaggio: questa architettura, in fondo, si assomiglia tutta. Torri e stecche variamente disposte, chi allineato, chi con qualche rotazione vezzosa, facciate continue in vetro e acciaio per uffici o ospedali, tetti piani e logge intonacate per l’edilizia residenziale, insomma tutto un vocabolario architettonico – magari colorato con qualche accenno dialettale (l’uso di certi materiali a chilometro zero) o con qualche idea innovativa di cantiere – che sostanzialmente ci mette di fronte a un modo di pensare la città in maniera identica in ogni parte del mondo. Non è più l’International Style di un secolo fa, ma un Global style spruzzato di greenwashing, voluto dal capitale globale che chiede interventi di qualità ma soprattutto affidabili e riconoscibili per gli investitori. Ed è questa è la seconda cosa che non mi fa godere appieno di questa festa dell’architettura: il fatto che a ben vedere la mia città (come ogni città del mondo) non la sta cambiando la politica ma il mercato. A questo mosaico qualificato di interventi sembra mancare un disegno generale che li tenga assieme tutti. Un pensiero collettivo che non dimentichi quelle parti di città che, non coinvolte dal cambiamento, rischiano di precipitare nell’abbandono.
(precedentemente pubblicato su Abitare, n. 607, settembre 2021)
Grazie Gianni per questo articolo. Qualche volta mi è capitato di andare a leggermi i progetti che studi di architetti presentano ai bandi per i finanziamenti: effettivamente mi sono sembrati infarciti di un lessico utopistico-buonista molto green, che pare sempre lo stesso. Suppongo che sia perché così si vincono i bandi, ricorda un po’ la peer-review per le riviste accademiche: specialmente in alcuni settori, passa facilmente l’articolo che sfoggia determinati linguaggi e terminologie ricorrenti.
Dei progetti di cui parli ho guardato un po’ meglio il primo, che è di certo attraente, e ho tirato un sospiro di sollievo nel vedere che almeno è stato concepito un percorso in cui si cammina all’aperto al riparo di una pensilina. Ma mi vengono in mente almeno tre grossi progetti in cui gli agenti atmosferici non sono stati minimamente tenuti in considerazione: la BNF di Parigi, la stazione metro Garibaldi di Napoli, la stazione Tiburtina di Roma. Noterai che i primi due portano la stessa firma.
Nei primi due luoghi, l’umano non è contemplato: si bagnasse pure, gli venisse una polmonite, problemi suoi. Che fine fa la fruibilità? Che fine hanno fatto tettoie e pensiline? Non se ne poteva concepire una, magari piazzandoci un po’ di piante sopra, se green dev’essere?
Sui binari di Tiburtina ci sono delle (troppo corte) pensiline, ma si gela comunque anche ad ottobre, è un posto ventoso: anche lì, sarebbe stato bello, dopo aver costruito il dinosauro sovrastante, avere un minimo pensiero per i viaggiatori che aspettano al freddo. Non è più un elemento da considerare, il clima, non è una sfida prospettare soluzioni a queste problematiche?
Insomma, lo sfoggio acciaio/vetro futuristico (più o meno green) sostituisce la preoccupazione per l’umano?
Bisognerebbe seguire i flussi di finanziamento per capire a fondo la trasformazione in atto a Milano.
È probabile che seguendo l’esempio di altre metropoli in molti casi si costruisca sulla base di autentici “business plan” cioè puntando alla crescita speculativa dei prezzi di affitto degli uffici e soprattutto di vendita del residenziale sul medio termine (orizzonte 3-5 anni). In pratica si promette già oggi ai finanziatori che il metro quadro a Milano raggiungerà un valore di 12-15 mila euro nel 2025. Speculazione che tende a gratificare chi è già proprietario ma a tagliare fuori drammaticamente chi non lo è. Non è da escludere anche un effetto di compensazione delle ricchezze perse durante la lunga pausa Covid, particolarmente drammatica per Milano che non si spegne mai. Questa sarebbe un’altra faccia della speculazione.