Il cielo per Roma – l’ipercalisse ilarotragica di Mariano Bàino
di Daniele Ventre
“Chiamatemi Chiaffredo. Ma non chiedetemi il perché…”: così si inizia, con richiamo evidente all’Ismaele del Moby Dick, il nuovo romanzo di Mariano Bàino, Il cielo per Roma, ed. Exorma 2021, ed è subito ironizzazione della forma narrativa par excellence, deformata in uno dei suoi modelli archetipici, secondo i principi di corrosione decostruttiva a cui l’autore di opere come L’uomo avanzato, In (nessuna) Patagonia e Dal rumore bianco ci ha già abituato da tempo. L’avvocato Chiaffredo Buffaldieci Guastella, narratore in prima persona e protagonista dal comico nome composito, fra il Buffalmacco di boccaccesca memoria e il Guastella di filosofica tradizione, è tuttavia, inevitabilmente, un Ismaele à rebours. È personaggio e avatara di una condizione metafisica, come l’Ismaele melvilliano, ma la sua vicissitudine è calata nella post-istoria, dietro una parvenza opaca da oscuro avvocato romano, a cui poco si adattano gli austeri nomi del mythos biblico. Eppure, dietro la maschera resurretta, di una resurrezione anch’essa comica e priva di qualsiasi dignità epocale da re sacro, di Chiaffredo, si nasconde niente meno che Sinesio di Cirene, neoplatonico privato e pubblico cristiano, vissuto ai tempi di Ipazia di Alessandria e degli ultimi rossi bagliori di tramonto del tardo-antico. Sinesio è rimandato sulla Terra, nella notte nebulosa del post-moderno, come angelo improprio, apprendista dalle ali ancora in bozza, a indagare sul giallo metafisico del potenziale affioramento dell’Anticristo, e sulle tracce della conseguente apocalisse prossima ventura, di cui è già segno patente il manifestarsi di una misteriosa pandemia-infodemia, il morbo di Farlock, o Morfar 19, sprigionatosi non si sa da dove, per improvvida ricombinazione genomica, fra virus polmonari, virus informatici e notizie virali in internet. Fedele alla visione orfica, pitagorica e (neo-)platonica della caduta dell’anima nel corpo, prono alla natura discenditiva dell’uomo di manganelliana memoria, Sinesio, già avvezzo, nella sua vita precedente, a una linda compostezza di elleno tutto d’un pezzo, precipita sulla terra, nel corpo mal tenuto di Chiaffredo, in séguito alla dolorosa ierofania impostagli da quell’improbabile capo dei Servizi Segreti Angelici che è Kontrollo, il quale opera, ormai paranoicamente da solo, dal medio-alto dei cieli, per conto di un Deus talmente otiosus da essersi del tutto ecclissato.
Avviatosi passibus incertis, e con non troppa convinzione, alla sua pre-apocalittica indagine sull’identità della Scimmia di Dio, Sinesio-Chiaffredo, da principio ammaccato nel corpo e in quello spirito non più puro che è ormai ri-divenuto, lungo tutto il suo percorso di inchiesta solo per metà fisica si produce di continuo in sofferte dichiarazioni di amekhanía cognitiva, cioè di sostanziale inabilità a “chiarire le cose in un senso o nell’altro”, così che l’indefinitezza nominativa dell’esordio neo-melvilliano si dipana in ironica trasformazione prosastico-narrativa del “non chiederci la parola” di tradizione montaliana. Chiaffredo, istruito sull’involuzione del nostro tempo e sulle sue follie tramite una sorta di corso accelerato oltremondano, durante il quale è rimasto ingabbiato, per un bel segmento di oltre-vita, in una mirabile capsula del sovra-tempo, nella stessa condizione di Alex in A Clockworck Orange, si aggira fa spaesamento e straniamento nel mondo della post-verità. Se peraltro si considera che l’indagine verte sul punto di innesco dell’apocalisse, che tecnicamente, dal punto di vista etimologico (apo-kálupsis) è il disvelamento escatologico del divino alla fine di tutto, l’impotenza sistematica di Sinesio-Chiaffredo a rivelare alcunché crea, nel sottofondo, un contrappunto inquietante all’atmosfera ludica che il gioco dello stile di Mariano Bàino continuamente produce, così che ci troviamo di fronte a una sorta di nuova ipercalisse, termine già foscoliano, che qui va riesumato e riadattato, a partire dalla sua effettiva valenza originaria di offuscamento/oscuramento completo e definitivo. Il lettore, accompagnato com’è dal narratore interno, si aggira insieme allo spaesato Sinesio-Chiaffredo in un mondo lasciato alla deriva destinale di una fine oscura, senza illuminazioni trascendenti a lacerare il velame dei cumulo-nembi dell’epoca. Condotto per mano a immedesimarsi con Sinesio-Chiaffredo e la sua duplicità ontologica, da un narratore anch’esso ontologicamente duplice per vocazione strutturale (ben si potrebbe parlare di Bàino-[Sinesio-]Chiaffredo), il lettore vive così una vita ibrida, liminare rispetto ai confini della narrazione, man mano che alla narrazione si fa intrinseco, tanto che al culmine della vicenda il narratore interno lo evoca dal diaframma della pagina, provocandolo e onorandolo dell’appellativo nobiliare di Sua Grazia, unico lettore possibile di una letteratura anch’essa sentita, dal suo creatore, sempre più liminare e limitanea -e in questa evocazione del Lettore-Sua Grazia l’autore si diverte a giocare con la tradizionale modestia manzoniana dei venticinque lettori, riducendoli a due occhi leggenti, che con tutta probabilità si riducono ulteriormente a quelli aperti sulla fronte di un unico individuo, personaggio ai confini della diegesi, essendo alquanto inverisimile l’incontro dell’opera con due lettori entrambi guerci. La provocatio ad lectorem diviene pagina dopo pagina così stringente, che il leggente, alla fine, si vede costretto a intervenire nell’opera, materializzandodsi in un comico capitombolo proprio addosso a Chiaffredo, che sgomento se lo ritrova fra i piedi, come inopinato personaggio aggiuntivo e aiutante indesiderato.
Nel terrifico e ilare percorso della sua inchiesta, Chiaffredo-Sinesio si imbatte, e si dibatte, in un narrato tragicomico dell’assurdo, disseminato di improbabili personaggi, a cui la pirotecnia e la polifonia stilistica dell’autore offrono spessore e consistenza. Lo stesso Sinesio-Chiaffredo appare anzitutto connotato da una lingua limpida, intellettualistica, costellata di esclamazioni rievocative di personalità trascorse della filosofia e della scienza antica (“per la barba di Ippia maggiore!”, “per la barba di Seleuco di Seleucia!”), esternazioni interiettive in cui l’emotività si fa celebrale riargomentazione filologica; rende quanto mai forte la costruzione letteraria di questa prodigiosa persona loquens, il suo doppiofondo esistenziale e storico, fra il ricordo del suo amore per Ipazia di Alessandria e la progressiva e faticosa presa di possesso del nuovo corpo, quello di un avvocaticchio-spia-killer improvvisato ai margini dei sotterranei vaticani. Ancora più eclatante è la caratterizzazione di personaggi come il beato Benicio Aparecido Pereira Rodrigues, figura di santone e profeta custode occulto del nome dell’Anticristo, che si cela dietro uno dei due papi della Chiesa, il regnante Materno I e l’emerito Gregorio XVII, maschere nominali ominose i cui volti i lettori riconosceranno facilmente. La lingua di Benicio è una trama dirompente di voci dialettali italiote di varia provenienza, mescidate a improbabili morfemi e lessemi di sapore brasiliano, a definire una sorta di incrocio satirico fra l’immaginetta di Padre Pio e figure di paragnosti sudamericani à la Chico Xavier. Né manca la figura di una femme fatale, Matilda, il cui ambiguo posizionamento nella trama ne fa un carattere di giunzione sui torbidi confini fra bene e male in cui Sinesio-Chiaffredo, nella sua duplicità, si avventura.
Lungo la vicenda, in cui i “fatterelli” si giustificano in virtù della tramatura stilistica, vera forza portante della narrazione, due presenze, il Deus otiosus di incerta sussistenza, sullo sfondo di una fragile eternità, e il diavolo, agiscono come parametri di definizione delle forze in campo. Abbiamo in realtà già accennato al fatto che in nome del Deus otiosus agisce Kontrollo, una sorta di capo dell’intelligence metafisica, a cui si contrappone l’Avversario, il diavolo, che a metà del romanzo intreccia con il narratore interno un inatteso dialogo meta-letterario di sapore solo esteriormente bulgakoviano. Il problema alla base dell’ipercalisse di Bàino è appunto questa latitanza dell’assoluto, il Triperuno folenghiano e sanguinetiano, opacizzatosi come il Metatron, il suo cabalistico e talmudico angelo portaordini. Il Triperuno è deliquiato nell’incertezza, tanto che il Figlio, e lo stesso Kontrollo, non sanno più se indossano “corone di spine o corone di carnevale”. Altrove, nel pensiero di Sinesio-Chiaffredo, si allude “a Dio, come a un diomorto macerato in decomposizione. Un dio-budino dall’odore grasso e dolce”. Assistiamo alle beghe di un retroscena spirituale e figurale oltremondano della Storia ridotto a commedia non più così divina, mentre la Storia stessa assume un’aura da autunno del media-evo, e forse dell’umanità, a cui non esiste risposta e per cui non si trova senso, ma solo il possibile sfociare in una granitica nulleternità. Su questa prospettiva della nulleternità si centra il nucleo della narrazione, così come si legge nella scena centrale dell’abboccamento fra Bàino-[Sinesio-]Chiaffredo e il diavolo, un escerto narrativo che da solo meriterebbe lo status di opera a sé, dialogo lucianeo e luciferino sul senso del fare letterario, oltre che dell’esistenza e del suo orizzonte. In questo momento centrale emerge la condizione stessa dell’autore, rispetto alla sua opera e allo stile: “…Questo stile” (esclama il diavolo) “mi sembra un diavolo di stile… Eh eh! Lo stile è il diavolo…” Tentazione dopo tentazione, il diavolo dello stile consegna così a Bàino-[Sinesio-]Chiaffredo e per suo tramite al lettore-Sua Grazia, gli occhiali di un nuovo sguardo sul mondo, il gioco dell’ottico di Edgar Lee Masters, ma anche la teoria critica secondo la metafora di Althusser: gli occhiali per osservare il mondo secondo un’ottica specifica. Lo stile, principe di questo mondo e sostituto improprio degli assoluti, offre al lettore questo servizio e lascia a chiunque si sia cimentato nella lettura de Il cielo per Roma, la capacità di contemplare con sorridente ironia l’andare a rotoli dell’universo: l’inganno più onesto del disinganno, l’ingannato più saggio di chi non si lascia ingannare, assunto nella paradossale accettazione di un filosofo neo-platonico in parodia. Questa gaia scienza deve il lettore, che non sarà mai abbastanza riconoscente, agli occhiali e allo stile di Mariano Bàino.
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Trama intrigante,penso che lo leggerò.Conosco bene l’autore, è già di per sé una garanzia