Scrivere l’assenza: Filippo Polenchi, “Figlio fortunato”
di Andrea Dei Castaldi
In una scena memorabile de Lo specchio, film di Andrej Tarkovskij del 1975, due improvvisi schiaffi di vento spazzano il declivio d’erba alta che separa i due protagonisti dopo il loro primo fugace incontro, due folate che raggiungono lo spettatore come l’onda d’urto di una deflagrazione avvenuta a molti chilometri di distanza, o su un diverso piano di realtà. La misura tra i due movimenti – l’incontro e la separazione – è colma di vuoto apparente, e il presente narrativo si carica del peso di ogni futuro possibile e immaginato, di ciò che non è o non è ancora, ma anche di ciò che potrebbe non essere mai. È in fondo una delle più cristalline rappresentazioni di un’assenza, dolorosa e insieme vitale.
La materia di cui è fatto Figlio fortunato, romanzo d’esordio di Filippo Polenchi – uscito di recente per i tipi di 66thand2nd –, appare fortemente affine a quei pochi magistrali secondi di sospensione: qui l’onda d’urto si palesa nelle minime increspature della trama e nei sommovimenti interiori dei singoli personaggi, primo fra tutti il protagonista Giona Caligari, trentenne sradicato e disilluso che si lascia alle spalle Roma e il sogno di diventare regista, mentre la – terribile – deflagrazione è la morte di un ragazzino, il giovane Elio Lavatori, nel giorno del suo undicesimo compleanno. È lui il “figlio fortunato” di Anapola, paese di una provincia ripiegata su sé stessa a difesa delle proprie radici rurali, ormai esili, contro fantomatiche invasioni cinesi, speculazioni edilizie e lottizzazioni selvagge, che proprio alla famiglia Lavatori ha sempre destinato un ruolo salvifico, quello di custode di un’identità in via di dissolvimento, e in particolare a Elio, investito fin dalla nascita di una carica quasi messianica quale ultimo erede di una dinastia di figli prediletti. La sua morte improvvisa sembra derubare l’intera comunità di ogni barlume di speranza per un qualsiasi futuro, lasciandola sprovvista di riferimenti e in balìa dei propri timori più irrazionali. Il fantasma di Elio ora si aggira privo di corpo tra una folla di corpi senz’anima, gusci vuoti incapaci di orientarsi nel buio pesto di una notte tanto inattesa. Tra questi – e non potrebbe essere altrimenti – il corpo più dolente e svuotato è quello della madre Silvia, figura di mirabile complessità e dalla sensualità disturbante, il cui spaesamento di fronte all’impensabile si traduce, nuovamente, in una forma di assenza, in un buco nero la cui forza di attrazione non tarda a intercettare la traiettoria apparentemente imperturbabile di Giona: Silvia non è più madre e fatica ormai a essere moglie, non ha più un chiaro ruolo sociale e non soggiace nemmeno agli obblighi morali di una comunità in lento disfacimento. Il suo incontro con Giona ha la natura inevitabile e brutale di una collisione, la carica elettrostatica di due corpi senza equilibrio. Esemplare il dialogo tra i due in una stanza di motel, una conversazione tra sordi la cui sola urgenza è quella levarsi di dosso e di dentro il peso dei propri fallimenti. Ma è proprio nelle parole di Silvia in un’altra occasione che leggiamo Giona in un lampo di chiarezza: «I tuoi occhi… Non sembrano occhi vuoti, ma solo inquieti. Mobili. Come se avessi perduto ogni punto di riferimento e cercassi di guardare in tutte le direzioni».
Giona il regista mancato, che da sempre guarda la vita rinunciandovi, che per un attimo crede di salvare sé stesso e di restituire alle cose il senso andato perduto immaginando di fare un film sulla morte di Elio Lavatori, e che ancora una volta lascia che questa possibilità rimanga tale, volutamente inespressa: è attraverso i suoi occhi che Filippo Polenchi ci mostra il mondo, con il medesimo spaesamento e dispiegando un immaginario comune che ha senz’altro molto cinema e molta fotografia, ma anche molta America, dentro. Mentre somiglia soltanto lontanamente all’abbacinante hinterland di Guido Guidi, Anapola mostra i tratti rarefatti e le dimensioni stiracchiate di un’idealizzata cittadina rurale del Midwest, i campi coltivati a perdita d’occhio e le aree di servizio deserte di Bryan Schutmaat, i negozi sprangati, i supermercati e i parcheggi desolati di Alec Soth, i bar macilenti e i locali notturni di lynchiana memoria, la provincia di un sogno andato in frantumi osservata con la compostezza di chi non vi appartiene. E questo perché la scrittura di Figlio fortunato è guidata rigorosamente dalla visione: Polenchi dimostra di aver fatta propria la lezione di Robbe-Grillet e dei suoi compagni di avventura, ma lo scarto e il superamento della stessa sono dati dalla misura – o dall’assenza di misura, di nuovo – nel suo sguardo, che vorrebbe essere distaccato mentre è attonito, disorientato quanto quello dei suoi personaggi. E da qui deriva non soltanto l’originalità della sua voce, ma pure la sua oggettiva bellezza. Il punto di vista oscilla tra distanze siderali e adiacenze quasi osmotiche: nello stesso periodo troveremo galassie e microrganismi, pianeti e particelle subatomiche, il cosmo e l’eternità ricacciati sotto la terra smossa dei campi coltivati di Anapola.