Da “L’uomo avanzato”
di Mariano Bàino
[Per Oèdipus, esce in questi giorni L’uomo avanzato di Mariano Bàino, prefazione di Remo Ceserani e postfazione di Cecilia Bello Minciacchi. Il libro è la riedizione della prima prova narrativa di Bàino, uscita nel 2008. Oggi appare in nuova veste grafica firmata 8ki e con un nuovo finale.]
Nella gola del mare
In sottofondo, continuo, avverto il rumore di crostacei che stridulano con le chele, con le mandibole, con le loro anime cornee, con chissà cos’altro. Ogni tanto tutto tace, di colpo, e nel silenzio che ne segue un brivido mi attraversa il corpo. Qualcosa deve aver attirato l’attenzione di un intero popolo di granchi e di gamberi. Sì, hanno sentito qualcosa che a me è sfuggito completamente. Che cosa c’è là? O qua? Suoni che non posso sentire, città invisibili ai miei sensi limitati e annebbiati. Creature e correnti si muovono nella luminescenza, lungo il fronte marino della scogliera, che arriva a pochi centimetri dalla superficie e sprofonda per centinaia di metri in una scarpata scoscesa. Ma l’esistenza sonora di quanto mi circonda si trova in lunghezze d’onda che non posso percepire. Sto sospeso sul fondo, sull’orlo di qualcosa che può essere l’annegamento, la paura, la comprensione…
Avevo la nausea anch’io, il cervello confuso, ma la mia battaglia contro il mal di mare non intendevo combatterla al chiuso, bensì seguendo il vecchio rimedio per il quale occorre fissare, all’aperto, l’orizzonte. Quella linea illusoria, però, era già stata avvolta dalle ombre della sera. Stavo male. Trovai aperto un bar e mi ci infilai. Era vuoto, le poltroncine disseminate qua e là, chissà se per via del rollio. Il barman, anche lui con una faccia pallidissima, mi rimproverò, disse che non eravamo così lontani dalla tempesta; che potevamo capitarci dentro, in quel brutto tempaccio, da un momento all’altro; che non bisognava uscire negli spazi all’aperto. Boccheggiando, promisi che sarei andato subito in cabina. Ma portai via con me nel vento una bottiglia di champagne. Con una mancia che definirei lauta prevenni ogni protesta del barman e mi feci dare anche una flûte, che misi nella tasca della giacca. Ero sul punto di vomitare, tuttavia chiesi al barman, cercando di assumere un’espressione scherzosa: “Scusi, secondo lei l’equipaggio, la sera, dorme a bordo?”. Avevo ripetuto una delle tante scemenze sentite in crociera, attribuite, chissà quanto falsamente, a passeggeri strampalati. Feci ciò per istinto, come un rappresentante di commercio che tenta di accaparrarsi la benevolenza di un interlocutore troppo diffidente, troppo preso a scrutare. Poi uscii.
È la stessa cosa per i grilli. Anche le rane delle risaie fanno così, lo ricordo bene. Avviano il loro motorino notturno, lo fanno girare a velocità costante, per un’ora e più; all’improvviso lo fermano. Dopo un silenzio, si sente un colpo, un altro: alcune audaci cercano di avviarlo di nuovo il motorino, altre imitano, il baccano riparte… Le creature notturne, qui, succedono a quelle diurne attraverso gli stessi corridoi, gli stessi alveoli nella roccia. Ma solo dopo uno strano vuoto, un intervallo che può durare, non so… venti minuti… Creature diverse… Tuttavia, in nessun posto in particolare, invisibili, lunghi processi si protraggono. Anche nella profondità della notte brillano luci sparse. Il mio vagare nella luce o nel buio sottomarini. Giorno dopo giorno, mese dopo mese. Anni! Fino a esserne tediato. O forse non tediato, ma bloccato. Le orecchie piene d’acqua, gli occhi affaticati dietro il vetro, troppo sprofondato in un’attenzione pignola per i dettagli e troppo intento a decifrare messaggi che sembrano raccontare tutto, continuo a non afferrare il punto essenziale.
Nel viola profondo della sera mi piegai per vomitare. Infine, dopo diverse soste obbligate dovute alla nausea, aggrappato ai mancorrenti ma senza allentare la stretta sulla bottiglia, raggiunsi l’estrema prua. Come in crociera fanno solo le giovani coppie d’innamorati, gli sposini in viaggio di nozze, quando né il comandante, il monarca assoluto, né gli altri dell’equipaggio stanno più di vedetta a impedire la scena cretina, lì sull’estrema prua. Io ero più in là, più avanti ancora, sull’estremo dell’estrema prua, alle prese con la carta stagnola della bottiglia, che non riuscivo a strappare. Volevo brindare; ma a cosa, poi? Intanto, il movimento della meganave mi dava l’impressione di trovarmi sul dorso di un immenso animale, che si alzava e si abbassava di non so quanti metri per effetto del suo respiro; so solo che erano onde alte, forse più dei diesel che avevo visto con mia moglie in sala macchine, alti come case. Sull’estremo dell’estrema prua cadde la flûte, mentre tentavo di estrarla dalla tasca, dopo che il tappo della bottiglia di champagne era saltato nel vento. Poi caddi io. Giù. Con il mio mal di mare nel mare agitato.
Questo libro l’ho letto. Dell’autore ricordo anche (per averlo fotocopiato e incorniciato nel mio studio)il frammento:”Nessun uomo è un’isola.Posso dunque rompere i ponti “(nel libro Le anatre di ghiaccio).
Paradossale ribaltamento di senso rispetto al primo e famoso assunto (“Nessun uomo è un’isola”).È il venir meno dei vincoli interpersonali, la crisi dei legami che si vive oggi. Sono curiosa di leggere il nuovo finale di questa riedizione.