Il mio dio che sapeva stare al mondo
di Jacopo Napolitano
Ricordo con esattezza l’odore della schiena del mio dio. Mi ha fatto salire sul suo dorso e l’incavo tra il collo e la spalla sembrava fatto apposta per riposarci la mia faccia. Il mento si incastrava con l’esattezza dei Lego tra la sua scapola e clavicola, e lì ce lo affidavo. Le sue mani allacciate mi offrivano un luogo in cui appoggiarmi, le mie braccia cascavano sul suo petto e ci tintinnavano contro, seguendo il ritmo dei suoi passi. Le mie gambe senza peli a penzoloni come sulle altalene. Era un odore carico della stanchezza di una giornata: il deodorante Axe messo a dura prova dal calore estivo, qualche sigaretta strappata alla regola, una pasta al ragù mangiata senza sporcarsi la camicia. Ci stavo pensando a sporcargliela io, quella camicia, con il sangue che mi scivolava via tra i denti, come mi capitava con il dentifricio. Solo il mio dio sapeva sfregarsi i denti senza far colare sopra il lavandino grumi di dentifricio gonfiati dalla saliva. Usava anche gli spazzolini con la setola dura. Quelli che la mia dea non mi concedeva.
Era un odore confortante quello del mio dio.
Mi piaceva come sanno farsi piacere solo i pomeriggi quando sono pomeriggi d’estate, quelli che si offrono nella loro bolla di umidità e con il loro ventre piatto di calma eccezionale.
Il mio dio era mio padre e mio padre era un uomo meraviglioso, mentre il mio muso, invece, infastidiva la gente. Con gli anni, la sua bellezza che non sapeva sfiorire si era caricata della consapevolezza di essere folgorante. Si era abituata a essere ingombrante e velenosamente invidiata.
Mia madre era la mia dea, mentre la gente era infastidita dal mio muso. Quando ancora non sapevo cosa fosse il sesso, intuivo gli occhi famelici che la percorrevano quando avevamo ospiti a cena. Quando si rivolgevano a me, invece, fissavano solo le mie labbra, e ci appendevano gli occhi a quelle.
Nelle foto di classe mettevo la mano davanti alla bocca. I miei compagni mi mettevano sempre in porta quando mi permettevano di giocare a calcio. La gente era infastidita dal mio muso. Mia madre era la mia dea e mio padre il mio dio.
Io, invece, avevo il labbro leporino.
Ricordo l’odore della schiena del mio dio quando venne a pescarmi da una rete di mani che mi stava soffocando. I miei compagni di classe accompagnavano i pugni che atterravano sul mio corpicino rannicchiato con delle leggere urla, come vedevo fare ai giocatori di tennis quando colpivano la palla. Le mani del mio dio mi sollevarono da quella pioggia di calci e io controllai che a terra non ci fossero dei pezzi della mia faccia: avevo paura che la mia dea non mi avrebbe riconosciuto. Ero convinto di trovarci almeno una guancia.
A casa, il tramonto filtrava dalle tapparelle forate e macchiava il pavimento. Sembravano arance spiaccicate a terra. Sembravano le uova che il nostro vicino aveva scagliato dal suo tetto. Le avevo viste quel pomeriggio, prima che andassi a tagliare il labbro a un mio compagno di scuola.
Quella mattina mi ero svegliato pieno di tutti i propositi con cui si saluta una giornata in cui non monta dentro lo stomaco il mal di pancia. Con gli occhi ancora stropicciati dal sonno, ciabattai fino al bagno: da qualche mese trovavo piacere nel lavarmi i denti perché avevo raggiunto l’altezza sufficiente per superare il lavandino con la fronte, e specchiarmi.
Entrai e mi accolse una nuvola zuccherata di vapore: la mia dea mi apparve in tutta la stupenda oscenità che può offrire solo un corpo nudo. La bellezza velenosa del proibito, di ciò che non si dovrebbe guardare. Il biancore del suo corpo: uno schiaffo ai miei occhi. Ma allora perché il vapore cotonato la incoronava con così tanta grazia? Fece scivolare, pigramente, la porta scorrevole lungo il suo carrello. Ricordo ancora l’arco smaltato del suo sorriso prima che il clack della porta me lo rubasse, per sempre. Scesi in sala senza preoccuparmi di nascondere l’ingombro nei miei pantaloni. Sollevai le tapparelle per lasciare inondare di luce la stanza e illuminai il corpo statuario del mio dio, steso sul divano.
«Ma non hai dormito nel lettone?»
«No, tranquillo. Non è colpa tua».
Sapevamo entrambi che non poteva non esserlo.
Andavo a scuola a piedi, trascinandomi dietro il mio zaino con le rotelle. Davanti alla porta del nostro vicino trovai delle macchie spiaccicate. Un centro arancione, leggermente desaturato, incistato in mezzo a una vischiosa palla bianca, tutto spolverato da pezzetti di gusci rosa. Di autunno rastrellavo anche le foglie dei giardini comunicanti con il nostro. Nel quartiere dicevano che ero gentile. Un paio d’anni, in una serata d’autunno dai tempestosi intenti, la mia dea era corsa in casa mentre la pioggia aveva osato bagnarla. Entrando aveva visto una foglia, marrone e sudicia di pioggia e fango, incollata alle scarpe. Aveva fatto una smorfia, sollevando quel pezzo di labbro che non mi era stato concesso. Ho cercato per giorni quel paio di scarpe per pulirgliele.
Il mio dio aveva dormito sul divano e come atto di rivolta al cosmo non pulii quelle uova rotte.
Nel cortile della scuola i miei compagni giocavano a calcio, ignari che il mio sostare, da solo, in disparte sulle scale che portavano alla mensa, era votato esclusivamente alla protezione del segreto della visione mattutina della mia dea. Il pallone mi rotolò vicino ai piedi e il richiamo sferico mi vinse, e tradii il mio culto. Lo calciai con il mio entusiasmo e lo rincorsi per unirmi al gruppetto di calciatori. Non mi dissero grazie, ma sapevo che nella foga della partita non c’è spazio per l’intromissione della gentilezza. Saltellavo sulle punte, in attesa di imprimere il collo del mio piede ed esibirmi in un tiro a effetto che avevo imparato da Oliver Hutton. Invece che congratularsi per il twist che avevo impresso alla palla mandandola in alto contro le nuvole, mi spinsero a terra. Sapevo che nella foga della partita non c’è spazio per la gentilezza: capitano dei contrasti duri. Mi spolverai i pantaloncini e tornai a saltellare, pronto a sfoderare il tiro della tigre di Mark Lenders ma mi dissero di allontanarmi. Mi spintonarono fuori dall’invisibile confine del campo. Dissi che stavo giocando anche io, ma quel nugolo di calciatori ribatteva che erano già in troppi. Erano già uno sciame, addosso a me, che mi spintonava indietro verso le scale. Una di quelle mani si fece un segno sul labbro, mimando il solco del mio labbro leporino, e disse che non potevo giocare: rischiavo di tagliarmi di nuovo. Le loro risate mi diedero fastidio alle orecchie come il gessetto che stride sulla lavagna. L’attrezzo a uncino del dentista che raschia sopra i miei denti cercando le carie. Le lame gelide delle forbici che si chiudono troppo in alto e mangiano via più della parte bianca che gli spetta, e il sangue che scivola fuori incapace del movimento di risacca del mare.
A pranzo, mi presentai a casa con un cerotto sul labbro per nascondere la vergogna della mia famiglia.
Aspettavo che tornassero a casa. Faticavo a credere che tutta la loro bellezza era uno splendore concesso al mio muso: cercavo disperatamente di esserne all’altezza. Avevo paura che le stelle iniziassero a pigolare prima che i miei dei rincasassero. Avevo già apparecchiato. Il cerotto che tenevo sul labbro venne a incontrarmi nel riflesso del vetro. Schiacciai la mia fronte per spiare il vialetto d’ingresso. Rimasi a vegliare tutto il pomeriggio. Dovevo evitare assolutamente di chiudere gli occhi. Quando mi cadevano le palpebre sentivo lo sciack delle uova che il mio vicino aveva buttato dal tetto di casa sua. Le palpebre andavano a incontrare il tappeto delle ciglia. Sciack. Sbarravo gli occhi e riprendevo il mio ruolo di sentinella. Temevo che il sole avesse cotto quelle uova. Sciack. Mi costringevo a tenere le serrande degli occhi sbarrate. Al quinto sciack capii che mi avevano punito anche loro. Non mi meritavo la loro bellezza. Avevo il labbro leporino.
Pensai di essere uscito a cercarli, invece i miei piedi mi avevano portato a caccia. Scovai lo stormo dei miei compagni che si accalcava attorno al pallone, nel parco comunale. Stavano ridendo, tronfi nelle loro labbra perfette. Chiusi gli occhi e vidi una frittata. Sciack. Un seno intoccabile. Clack. Aprii le serrande degli occhi e riconobbi una mano alzata a chiamare la palla, tesa come l’asta di una bandiera. Fui una tigre e sbattei a terra il mio compagno. Sentivo i loro pungiglioni sulla mia schiena, ma fui più veloce a estrarre i miei artigli e con una zampata precisa incisi il labbro superiore del mio compagno di banco.
Poi fu la notte su di me.
Ricordo con esattezza l’odore della schiena del mio dio che era venuto a salvarmi. Mi riportò a casa, in groppa. Pulì le mie ferite e mi fece usare il suo spazzolino con la setola dura. Sorridendo, mi concesse il privilegio del lettone. Dormimmo e ci svegliammo con l’alito appesantito dalla notte.
«La mamma?». Lo chiesi, ma sapevo che il culto della mia dea era finito.