Il silenzio

di Fiorella Malchiodi Albedi

Mi sono alzato storto. Tutto mi dava noia, una specie di nausea mentale, non riuscivo a posare lo sguardo su qualcosa senza provarne disgusto. Ho pensato di aver fatto qualche sogno bislacco poi dimenticato, di quelli che ti perseguitano a lungo con una scia di malessere incomprensibile, perché ormai il ricordo del sogno è svanito. A volte mi succede anche da sveglio: mi rimane un cruccio per aver fatto qualcosa di sbagliato, ma non ricordo cosa, forse era una mancanza seria, oppure era una cazzata e sto a dannarmi per niente, e per quanti sforzi faccia, non c’è verso, non mi torna in mene; poi il fastidio si attenua, piano piano, e alla fine si confonde in mezzo a quelli per tutte le altre cazzate che invece ricordo, ne faccio tante…

Alla fine ho deciso di uscire e sono andato in lavanderia. Non che avessi da fare il bucato, ma è un posto tranquillo e fresco, dove nessuno ti rompe le scatole, e sanno che ogni tanto ci capito anche senza avere biancheria da lavare. Chissà, magari lì mi si placava l’ansia.

Prima andavo nella lavanderia di Bob e Timothy[1], poi a un certo punto tutte quelle chiacchiere su Dio, sul purgatorio, sul peccato mi hanno davvero seccato. Non ci capivo nulla e comunque erano frastornanti, così ho cambiato. Quella nuova è gestita da un cingalese. Traspira spezie e invece che in una lavanderia sembra di entrare nella cucina di un ristorante indiano, ma almeno lui non blatera.

Mi siedo. Ci sono pochi avventori oggi, qualche faccia nuova, qualche sconosciuto. I frequentatori delle lavanderie sono di due tipi: quelli che si portano qualcosa da fare durante l’attesa e quelli che non fanno niente. Io appartengo al secondo gruppo, anche se fare niente non è proprio la definizione esatta. È vero, me ne sto seduto senza smanettare sul cellulare o leggere libri o giornali, ma la mia non è un’assenza totale di attività. La definirei un’inerzia operosa. Anche se me ne resto apparentemente ozioso, in realtà io osservo. Guardo il disegno del linoleum del pavimento, cercando forme in cui si possano riconoscere facce, animali o cose, oppure percorro centimetro per centimetro gli oggetti della stanza, cercando di memorizzare e classificare le imperfezioni, come le piccole scalfitture nello smalto delle lavatrici o le opacità nei vetri degli sportelli. La volta successiva le ripercorro tutte, così mi accorgo se ci sono novità. Anche la sporcizia è un soggetto interessante da osservare, ma il cingalese tiene il locale molto pulito e quindi lì c’è poco da registrare.

Mi piace ovviamente guardare gli altri frequentatori del locale, anche se non devo farmi accorgere. Da Bob e Timothy, una volta, un tizio nerboruto mi ha minacciato, se non la smettevo di guardarlo. Anche se era davvero difficile distogliere lo sguardo: aveva dei vistosi tatuaggi sui bicipiti, ma uno perché se li fa se poi non si possono guardare? Valli a capire.

Di apparentemente inoperosi, come me, ce ne sono pochi, ma sono facilmente riconoscibili. Quando entra un nuovo cliente, cerco subito di classificarlo e difficilmente mi sbaglio. Se piove, ad esempio, ed entra uno senza ombrello, 10 a 1 che infilato il bucato nell’oblò si metterà a fissare la parete con uno sguardo assente, oppure si concentrerà sulla punta delle sue scarpe. Quelli che

non usano l’ombrello sono membri di una stessa famiglia universale, affratellati dalle stesse abitudini e in grado di riconoscersi tra loro.

Ma oggi neanche la lavanderia riesce a temperare la mia frenesia. Così decido di andare al parco, dove ho una panchina speciale, che considero mia: è vicino ai cassonetti, lì non ci va mai nessuno, ovviamente. Non c’è proprio nulla di bello da vedere, da quella postazione, e già questo mi rilassa.

Macché, non è proprio la mia giornata fortunata: sulla panchina c’è seduto un tipo. Non sta facendo niente, ma forse è lo stesso “fare niente” di quando sono in lavanderia. O forse no, perché, al contrario di me, che in lavanderia scalcio, mi gratto, faccio smorfie, lui sta perfettamente immobile. Continuo a guardarlo, perché trovo qualcosa di familiare in lui che non capisco. Sorride, ma appena appena, un sorriso impercettibile. Che stronzata, se non lo percepisco, come faccio a dire che ha un sorriso sulle labbra? Eppure non posso definire seria la sua espressione. Insomma continuo ad arrovellarmi per un po’ sempre osservandolo ostentatamente, la sua fissità comincia a darmi sui nervi. Alla fine mi avvicino, gli passo davanti, ma lui niente, non si muove di un centimetro. Mi siedo accanto a lui, senza smettere di squadrarlo. Non fa una grinza. Tutt’altra pasta rispetto all’uomo con i tatuaggi. E quella strana sensazione di conoscerlo…

Alla fine, sapevo sarebbe finita così, gli parlo.

– Scusi, ma cosa guarda?

L’uomo si volta e ora mi fa un vero sorriso.

– Nulla.

– Sta aspettando qualcuno?

Mi guarda meravigliato, come se avessi fatto una domanda sciocca.

– Qualcosa, non qualcuno.

– E cioè?

– Aspetto il silenzio.

E poi torna a guardare di fronte a sé. Il sorriso si è spento, ma non del tutto, e di nuovo ha quell’espressione indefinibile.

Ma che voleva dire? Che gli sto rompendo le scatole? Che vuole stare tranquillo e invece io lo scoccio? No, non avrebbe quell’aria amichevole.

– Scusi, non capisco.

L’uomo sorride di nuovo e mi guarda con simpatia.

– Presto capirà.

Capirò cosa? Comincio a infastidirmi. Sarà uno fuori di testa. E mi ci sono pure messo a parlare. Così mi alzo e me ne vado. La mia giornata storta prosegue, evviva! Ogni tanto però continuo a girarmi per guardarlo, perché sono sicuro che il suo viso l’ho già visto da qualche parte, ma dove? O piuttosto è la sua espressione?

Magari è solo uno che non usa l’ombrello.

Ma proprio mentre sto per uscire dal parco, sbam!, il ricordo mi colpisce come un cazzotto, dritto sul mento. Ho quasi barcollato.

Non è stato un sogno a guastarmi la giornata, stanotte, ora tutto mi torna in mente con chiarezza. Mi sono trovato all’improvviso con gli occhi sbarrati, è vero, e lì per lì ho pensato all’autobus: frena a poca distanza da casa mia e il suo sibilo è molto fastidioso. Ma no, mi sbagliavo. Non era stato un rumore, a svegliarmi, era stato invece un improvviso silenzio, completo, irreale, come se fossi sigillato in una bolla isolata ermeticamente dall’ambiente. Fermo il traffico, muti i rari uccelli notturni, perfino il tarlo che nel cassettone aspetta il buio per rosicchiare il suo microscopico cunicolo si era bloccato. Un silenzio totale che sembrava dover durare all’infinito e mi ha riempito d’angoscia.

Da piccoli, quando a tavola aspettavamo il pranzo, sapevamo che nostro padre si innervosiva se facevamo chiasso, e allora parlottavamo e ridacchiavamo a bassa voce. Ma poi a uno di noi, più spesso a me, capitava di perdere il controllo, e alzare la voce, o far uscire una risata meno soffocata, senza accorgermene, e quando la mano di mio padre piombava come un masso sul tavolo, sobbalzavamo ignari.

– Silenzio!

Quel grido aveva un potere incredibile e il silenzio che ne seguiva era davvero assoluto.

Perché non solo ci zittiva, ma riusciva a cancellare qualunque onda sonora intorno a noi. Il borbottio della pentola sul fuoco, la tapparella che sbatteva, l’abbaiare di un cane in lontananza, tutto ammutoliva, per un momento. Poi lentamente, i rumori riprendevano, ma in quell’attimo, il silenzio era stato perfetto. Proprio come quello che mi ha svegliato stanotte. E che mi ha riportato indietro alla mia “infanzia felice”, anche se inconsciamente: nessuna meraviglia che mi abbia rovinato la giornata.

Come allora, così anche stanotte, i rumori hanno poi ripreso, poco a poco. E così i pensieri. Perché nel silenzio, mi sono accorto dopo, anche la mente aveva taciuto. È strano, si potrebbe pensare che la mente lavori meno facilmente in mezzo al frastuono, che le idee possano rimanere impigliate in qualche suono insolito o che non riescano a districarsi tra uno schiocco e una sirena, tra un clangore metallico di un cancello e l’accelerata di una moto. E invece no, quel silenzio così profondo aveva tacitato anche i miei pensieri, occupando tutto lo spazio fuori e dentro di me.

Alla fine mi ero riaddormentato.

Ora che mi è tornato in mente l’insolito risveglio, mi viene un dubbio. E se quello di stanotte fosse proprio il silenzio di cui parlava il signore sulla panchina? Sarebbe strano, lui sapeva del suo arrivo, mentre io, al contrario, non me l’aspettavo proprio. E lui era sicuro che gli avrebbe portato qualcosa di buono, si vedeva che l’aspettava con trepidazione: se era quel silenzio lì, perché invece a me ha rovinato la giornata? Solo per via di quel ricordo? Cioè, avrei sperperato un’occasione di felicità, del tutto gratuita, per un merdoso ricordo d’infanzia?

Tutte queste domande mi fanno annaspare. Così torno indietro, forse il signore ha delle risposte e mi può aiutare, ma quando arrivo vicino ai cassonetti, la panchina è deserta. Se n’è andato e io rimango solo con le mie domande.

Almeno posso sedermi al mio solito posto. Mi metto a fissare il punto che stava guardando lui, almeno credo sia quello, e non c’è proprio niente di bello da vedere, dei rovi un po’ bruciacchiati dalla siccità, qualche cartaccia, erba secca calpestata. Mi sento un po’ sciocco, me ne rimango qui seduto immobile come poco prima stava lui, sarà un contagio? E mentre sto lì a rimuginare, arriva un tipo dinoccolato, con una felpa col cappuccio, e comincia a squadrarmi. Io non mi giro e rimango fermo, mi viene da ridere, ma cerco di camuffarlo, il mio sorriso gli sarà appena percettibile; lui continua a guardarmi e so che non resisterà, e prima o poi mi interrogherà. Lo vedo con la coda dell’occhio, ha un’aria familiare. Forse è un altro che non usa l’ombrello.

 

[1] La lavanderia di Bob e Timothy, in Balthus di Sandro Sacco

Print Friendly, PDF & Email

3 Commenti

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Un inizio

di Edoardo d'Amore
È una storia piccola, troppo minuta e fragile perché se ne sia parlato. Si può non credere a queste parole e andarla a cercare tra mondi virtuali e mondi reali, ma si scoprirà solo quanto già detto

Una facile profezia. La storica analisi di Hirsch jr. sulla scuola

di Giovanni Carosotti
Hirsch jr. denuncia la «refrattarietà dei pedagogisti a sottoporre le loro teorie a una libera discussione pubblica», consapevoli che quanto sostengono non reggerebbe a un adeguato confronto intellettuale.

Il pop deve ancora venire

di Alessio Barettini
Un esordio convincente, Il pop deve ancora venire, dove la forza della scrittura e la precisione del lessico appaiono in primo piano, con la padronanza di Anna Chiara Bassan e l'abilità nell'uso delle parole «instabili, precarie e mutevoli anche da sole.»

Il mazzero

di Arjuna Cecchetti
Beh, il mazzero inizia sognando che è a caccia. Insegue un animale, un cinghiale o un cervo, e lo segue lungo un fiume poi spara all'animale e lo uccide e quando lo raggiunge e lo gira, scopre che il cinghiale ha il volto di una persona che conosce.

Le rovine di La Chiusa

di Giorgio Mascitelli
In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine: esse sono una forma di allegoria della condizione storica del presente

Buchi

di Serena Barsottelli
La sensazione che provava non era simile ai brividi. Eppure spesso tremava. Non si trattava neppure dell'umidità, quel freddo capace di filtrare sotto il primo strato di pelle e poi sciogliersi nei cunicoli tra nervi e vene.
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: