Damiela Eltit, «Mai e poi mai il fuoco»
di Damiela Eltit
Per gentile concessione dell'editore Gran Vía, pubblichiamo un estratto da Mai e mai il fuoco, romanzo dell'autrice cilena Damiela Eltit, in libreria dal 14 ottobre nella traduzione di Raul Schenardi. Dalla nota dell'editore: "All’inizio del nuovo millennio, nello spazio ridotto di una stanza, una coppia di ex militanti ripercorre il proprio passato e gli ideali rivoluzionari che ha condiviso, mentre entrambi assistono all’inesorabile declino dei loro corpi. Circondati da spettri del passato, logori compagni di viaggio divenuti anch’essi simbolo di rovina e decadenza, i due combattono tra loro per imporre un discorso politico alla comune, fallimentare esperienza rivoluzionaria". Ho scoperto la voce di Damiela Eltit grazie a Manodopera, e sono felice e onorato di poterle offrire uno spazio su Nazione Indiana.
È da più di cent’anni che è morto Franco. Il tiranno. Profondamente storico, Franco saccheggiò, occupò, controllò. Fu, come no, coerente con il ruolo che dovette rappresentare. Uno dei migliori attori per pensare l’epoca. Anziano. Militare. Decorato dalle istituzioni. Non brillante, no, mai, bensì efficiente, ostinato, neutro. Idiota, dici, era un idiota. È già trascorso un secolo. No, no, mi dici, non un secolo, molto di più, di più. Sì, rispondo, tutto circola in un certo modo determinato, impreciso, mai letterale, giammai. Stiamo parlando dopo un secolo – più di un secolo –, ci scambiamo serenamente parole cordiali e compassionevoli. Dobbiamo fare attenzione al grido che non ci permettiamo mai, mai, perché potremmo ferirci e spezzarci. Tu non gridi con me né usi espressioni troppo disdegnose, le ometti e lasci che circolino dentro la tua testa. Concentro i miei sforzi nel controllare qualsiasi indizio di rancore per fare parte di questa pace che ci siamo concessi. Ci troviamo in una condizione di pace vicina all’armonia, tu raggomitolato nel letto, con addosso la coperta, gli occhi chiusi o socchiusi, io sulla sedia, a disporre con lentezza e lucidità i numeri che ci sostengono. Una colonna di numeri che riportano la dieta rigorosa a cui siamo sottoposti, un’alimentazione abitudinaria ed efficace che va direttamente a soddisfare la domanda di ciascuno degli organi che ci governano.
Mangiamo in modo assolutamente corretto. Concisi.
Il riso si sposa con il pane, entrambi compiono la loro funzione di fornirci il sonno e il sollievo. Mangiamo pane e riso. Cucino il riso sempre alla stessa maniera. Il riso, la sua forma comune, la cottura necessaria che richiede una relativa concentrazione, cattivo, è cattivo il riso quando risulta stracotto o quasi crudo, i suoi chicchi repellenti che varie volte ti hanno quasi strozzato. Sì, tossisci e i chicchi di riso ti escono dalla bocca per rotolare in modo caotico sulla coperta, espulsi dalla tua gola otturata, soffochi, puoi morire, è dolorosa questa tosse da riso, e la saliva che sputi insieme ai chicchi mi turba. Non voglio guardare la saliva mischiata con il riso, simile a un leggero vomito o a una sostanza acquosa, un miscuglio alimentare impossibile che macchia e si sparge sul letto che occupi, il mio letto.
Fumi e mangi.
Per questo ti strozzi o soffochi o muori. Fumi e mangi con la medesima ansia. In questo secolo preferisco non dirti: non fumare. Rinuncio a dirti: non fumare mentre mangi, o a dirti, piano, piano se non vuoi soffocare, o a dirti, non mangiare perché ti strozzerai, o a dirti, non tossire perché questa tosse mi fa schifo e mi fa schifo la piccola avvisaglia di vomito, o a dirti, che hai, ma che ti succede con il riso, sembri un bambino senza denti o un cane malato. Non dico niente per preservare il languore che questo secolo ci concede, un dono a cui non si può rinunciare, perciò Franco ci serve per attenuare: il suo fascismo. No, dici, era un nazi. D’accordo, d’accordo, ti rispondo. Non è la stessa cosa, mi dici, la confusione concettuale porta con sé conseguenze tragiche, non te ne rendi conto? Tu dici fascista con una leggerezza che dobbiamo riconsiderare. Sì, ti rispondo, ricorrendo a un tono che vuole essere conciliante, a volte mi confondo. Non ti confondi, no, non è questo, è che tu non distingui un fascista da un nazi. Vediamo, mi dici, che cos’era Franco, in quale corrente lo situi, come lo cataloghi, secondo quali parametri potresti classificarlo, qual era la realtà della sua struttura, come si potrebbe stabilire una gerarchia per conteggiare i suoi atti, quali elementi determinano la sua filiazione, qual è stato il paradigma che lo ha mobilitato, le sue politiche, le sue strategie, la burocrazia inestricabile che è riuscito a istituire.
Conserva una correlazione sorprendente con il fascismo, ti dico. Lo fa per la sua volontà velatamente unilaterale, per la precisione iconografica, per la sua solitudine senza il minimo segno di smarrimento. Per la sua morte pragmatica e universale. Per le decorazioni delle sue parate, le truppe, la divisione dei poteri, il tradimento dei suoi collaboratori, la ricerca instancabile di legittimità, per le sue espressioni perverse, per il rictus della sua bocca, per la sua statura rachitica, per le sue strategie e gli errori di comprensione riguardo alla storia, per l’insano attaccamento alla famiglia, l’atteggiamento assurdo di sua moglie e la febbre avida dei suoi figli. Ha avuto figli?, quanti? Non divagare, mi dici, non cercare rifugio nei dettagli. Sì, è vero, dobbiamo essere esatti e integerrimi.
È trascorso più di un secolo, ti rendi conto?, ti dico, un secolo intero e spezzato, mille anni, un’epoca che si conclude quasi senza echi, come se non fosse successo, ti rendi conto? Senza finale ed è già memoria. So che la mia affermazione potrebbe innervosirti o annoiarti per la sua sequela di ovvietà, allora mi alzo dalla sedia, vado in cucina e mentre rimescolo nella pentola sperimento una specie di vertigine, il segnale di un malessere che non arriva a preoccuparmi perché lo addebito al riso, alla moltiplicazione dei chicchi che girano e girano mentre si consolida un frettoloso e confuso riscaldamento. I chicchi saltano, si mischiano, si attaccano, il riso che ci sostiene e ci fortifica. Ne prendo una porzione e la distendo sul piatto. Torno nella stanza e, con un tono di voce eccessivamente euforico, ti avviso che è già l’ora, che devi nutrirti.
Ti allungo il riso, ti sollevi parzialmente, esausto, con una severità che mi preoccupa. Mangi seduto a metà sul letto. Ti osservo distratta di fronte a una cerimonia ormai usuale. Ricordo che, nel secolo che in un certo qual modo ci apparteneva, io ascoltavo meravigliata le tue sentenze riguardo all’atto alimentare. Non avevo pensato alla fame come a un fatto pericoloso che richiedeva una subdola strategia che lo ridimensionasse, finché tu non me lo di- cesti, segnalando che ti sembrava troppo personale, quella fu la formula esatta che utilizzasti. «L’atto di mangiare è personale» e per questo motivo mi chiedesti, con una cautela che non voleva essere lesiva, di non guardarti mentre mangiavi. E aggiungesti, con un tono affabile e di circostanza, che se io avessi persistito ti saresti allontanato, che preferivi restare solo: preferisco starmene da solo, isolato con il cibo. Non mi guardavi mai, è vero, quando io – anche questo mi segnalasti – inghiottivo. Usasti quel termine. Inghiottivo, dicesti, e quanto di insaziabile conteneva quella espressione mi fece disprezzare la parola. Capii che per te la mia maniera di trattare la fame era insopportabile. Che cosa mangiavamo?, mi domando ora, prima del riso, prima di adottare la mania per i chicchi. Avevi, lo so, una certa consolidata avversione per i latticini; il latte e i suoi derivati. Risi mentre tenevi in mano il pezzo di formaggio, stavi esitando, riflettevi sul fatto se fosse appropriato o, magari, se fosse imprescindibile. Rimanevi assorto. Guardavi estasiato o spaventato il pezzo di formaggio che tenevi fra le dita. Le tue dita affusolate, protette dalla finezza delle ossa e delle unghie corte, pulite, e il formaggio e l’istante in cui lo schiacciasti fra le dita e lo perforasti con le unghie. Vedemmo come il formaggio si disfaceva, la sua forma, e tutta la cellula, i nove che la componevano, non potemmo evitare qualche sguardo stupefatto, benché timoroso, impressionati dal tuo modo terribile di stringere.
Niente formaggio, niente latticini.
Potevamo consumare soltanto ciò che era necessario per i nostri fini. Non conveniva, così dicesti, arrendersi al cibo, farne una sede che finiva per nascondere l’impatto della fame. La fame, lo so, per te aveva una funzione. La fame, lo proclamasti, era una condizione che approfondiva il rigore e ci permetteva di svolgere un lavoro preciso e costante. Però mai, mai la sazietà, quella no, assicuravi, perché in quel modo si favoriva una sonnolenza che ci costringeva a posporre l’obiettivo. Odiavi la sonnolenza, preferivi, sia pure nel disagio, la fame. Io stessa dovetti constatarlo, accadde quando mi misi a esaltare gli alimenti, il loro eccesso di grasso. Tu lo odiavi, il grasso, il corpo grasso e il suo luccichio. Un corpo arrotondato da strati di un grasso liquefatto che suscitava quel languore che posticipava l’agilità, l’agilità che esigevi dalla cellula e, se questa non si conformava al tuo desiderio, dovevamo rifarla con altri corpi disponibili, affamati e pieni di energia. Ti guardo nel letto, ti vedo impegnato a scacciare la fame, la prima, quella ovvia che ti invade. Mangi senza censura, in una maniera che non può non sembrarmi fastidiosa. Diresti, se ti rimanesse un residuo di vigore, che la fame non potrebbe mai essere saziata dal riso, perché ti limiti a esaudire una semplice richiesta dell’organismo, del tuo, del tuo particolare organismo, ma non gli concedi il grasso che, a tuo giudizio, è l’unica sostanza che riempie e soddisfa.
Ti capisco.
Quella di Diamela Eltit (Santiago, 1949), cilena di origini palestinesi, è una delle voci più significative e audaci del panorama letterario latinoamericano. Tra le sue opere, Imposta alla carne (Atmosphere 2013), Manodopera (Alessandro Polidoro Editore 2020), Lumpérica (1983), El cuarto mundo (1988), Los vigilantes (1994), Fuerzas especiales (2013) e Sumar (2018).