L’inferno di Taranto e di Genova

di Cosimo Argentina e Orso Tosco

(C. A. ha accettato di parlare della genesi di “Umè”, e O. T. di quella di “Bestïn”, i due reportage letterari dedicati rispettivamente all’incidente dell’Ilva di Taranto e al crollo del Ponte Morandi di Genova, riuniti nel volume “Dall’Inferno”, pubblicato questo mese da Minimum Fax)

Forse era la fine del 2016 oppure erano gli inizi del 2017. Ho scritto questo romanzo breve, Umè, con il titolo provvisorio di Alle teste di ferro. Il titolo provvisorio derivava da un gioco sinistro che facevamo da ragazzi, lì, nel quartiere, a Taranto. Se ad esempio ci trovavamo in gruppo, in uno sterrato, a un certo punto uno di noi afferrava un masso e lo lanciava in aria urlando “all’ cap’ d’ firr’” e tutti dovevano spostarsi in velocità per non prendere in testa il masso in ricaduta. Insomma, quel ricordo mi aveva fatto riflettere sulla condizione della mia città. A turno un po’ tutti hanno lanciato un masso in aria e non sempre i tarantini sono riusciti a spostarsi in tempo. Quindi scrissi il romanzo breve: 50 cartelle. Non doveva essere un’opera lunga, né brevissima, non un racconto, insomma. L’ispirazione questa volta veniva dalla pittura e non da romanzi dei grandi carnivori del passato (perché c’è sempre un romanzo ispiratore o un film). I quadri di Munch. I quadri tormentati di Van Gogh. Quelli feroci di Francis Bacon. Umè è venuto fuori come un urlo. Umè significa “il maestro”, ‘u mestr’, umè. È un richiamo. Se uno vuol richiamare qualcuno urla umè! Ce cazz’ ste face? Ho buttato giù le parole in uno stile espressionista. Ho dilatato ogni singolo cingolo della struttura narrativa e della fabbrica. Ne è venuta fuori una distopia in parte allucinata in parte fedele alla tribù alla quale appartengo.
Per la trama non ho avuto dubbi: non c’era e non doveva esserci. Semplicemente un uomo si presenta a uno degli ingressi per fare affiancamento nel suo primo turno di lavoro. È notte. Piove. E c’è stato un incidente forse mortale. L’uomo si muove in una fabbrica grande come una città di 350mila abitanti. Sembra girovagare a vuoto, ma in realtà sta compiendo un vero e proprio tour simbolico. Il siderurgico si mostra a lui sollevando i vestiti e mostrandogli le interiora.
Una volta finito di scrivere lo lasciai in un file del pc. Lo ritenevo ostico e di difficile pubblicazione. Poi la telefonata di De Gennaro che mi parlava di un’idea: unire due autori e far scrivere loro su due città che avevano subito ferite dolorose. Avevano pensato a Taranto per l’Ilva e a Genova per il ponte Morandi. Per Genova avevano pensato a un giovane autore che si era messo in luce con il romanzo Aspettando i naufraghi: Orso Tosco.
“Tu te la sentiresti di scrivere qualcosa del genere?”
“Sì. Ho giusto un lavoro che potrebbe essere utile”.
“Bene”.
Da allora sono passati quasi due anni e quando ci siamo risentiti avevo messo mano al testo snellendolo senza sacrificare le parti vitali della storia. E rileggendolo mi sembrava buono, ma ancora un tantino ostico. Lo slang, l’ambientazione, l’assenza di storie d’amore all’interno, il sapore della pioggia acida dalla prima all’ultima pagina, la lotta per la sopravvivenza mi sembravano ingredienti troppo duri da digerire. Ma c’era il risvolto civile. Per una volta rileggendo un mio scritto avevo pensato di essere andato oltre la storia pura e semplice.
Insomma, forse uno scrittore oltre a intrattenere la gente, i lettori, ha anche un compito: sputargli in faccia alcune realtà, sebbene deformate e ritorte dalla propria penna, che la letteratura ha la libertà di poter esibire.

Cosimo Argentina

 

Dal 2006 al 2015 ho vissuto a Londra. E la mia vita londinese era composta da pochi punti fissi, o nuclei centrali, o gnommeri, che al loro interno contenevano altre piccole azioni: c’era il lavoro – facevo il guardiano in un museo – e trattandosi di un mestiere per cui è sufficiente essere vivi e in orario, nelle ore che mi separavano dalla libertà, leggevo e scrivevo, e nelle postazione meno visibili, e dotate di uno sgabello, ne approfittavo per riprendermi un po’ del sonno che mi ero rubato da solo a causa dell’altro nucleo quotidiano, il bere: che al suo interno, come ogni sinfonia che si rispetti, conteneva vari movimenti: l’allegro era rappresentato dai pub, chiassosi, caldi, densissimi; l’adagio erano le birre sul canale, con le loro grafiche raffiguranti danzatori polacchi stilizzati, oppure api, goblin ghignanti; il minuetto erano invece le bottiglie di vino cileno delle festicciole casalinghe, le infinite bottiglie dentro le quali osservavo galleggiare sorridenti amici e amiche, fidanzate e quasi fidanzate, in attesa del finale, che generalmente coincideva con una successione piuttosto sghemba di piccoli disastri quotidiani che forse avevano anche un nome, ma non nella mia lingua dell’epoca.
Però, di tanto in tanto, per rifiatare, mi concedevo lunghe passeggiate. E durante queste passeggiate perdevo ore e ore dentro ogni tipo di negozietto di seconda mano in cui mi imbattevo. Fu in uno di questi negozi, credo fosse l’Oxfahm in Kingsland road, che mi capitò in mano un libro di Cosimo Argentina. Io Cosimo non l’avevo mai sentito nominare. Inizia a sfogliarlo per pura pigrizia, avevo mal di testa ed era l’unico libro nella mia lingua madre. Poche righe dopo mi accorsi di essermi fregato con le mie stesse mani: basta camminata senza una meta, basta gironzolare a caso, avevo soltanto voglia di trovarmi una sedia o una panca, e di starmene a leggere. C’era infatti qualcosa in quella scrittura che mi impediva non soltanto di lasciare lì quel libro, di riporlo in mezzo ai suoi amici anglofoni, ma anche di smettere di leggere. La letteratura di Cosimo è priva di quelle pose o civetterie inutili che spesso danneggiano anche i bravi scrittori, quando si compiacciono troppo, quando hanno lo specchio troppo vicino alla tastiera del computer.
Questo per dire che quando mi è stato proposto di partecipare a questo libro a due teste, “Dall’inferno” e che il mio compagno di viaggio sarebbe stato proprio Cosimo, ho avvertito da subito l’esigenza di giocare pulito. Si potrebbe dire, di giocare pulito nello sporco. Non volevo e non potevo permettermi scorciatoie, o trucchetti. Per rispetto nei confronti di un certo tipo di letteratura, e per rispetto nei confronti di un tema come quello della tragedia del Ponte Morandi a Genova. Mi è venuto in soccorso Orazio Lobo, il protagonista della mia storia, con la sua coerenza di acciaio matto, e con le sue regole assurde e ferree come quelle dei bambini che giocano senza giochi.
Il gioco e la morte, l’ambizione e il crollo, le voci e le visioni, sono i tasselli che legano la mia storia e quella di Cosimo, come una striscia di corallo che da Taranto disegna una splendida cicatrice fino a Genova, e forse, anche oltre.

Orso Tosco

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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