Les nouveaux réalistes: Enrico Moretti

 

L’albero di natale

di

Enrico Moretti

1.

Il trabattello era stato piazzato tra il divano e il camino, al centro della stanza. Una presenza incongrua, soprattutto nella penombra del primo mattino. In quella luce crescente ricorda lo scheletro di una cattedrale gotica, le sue linee verticali senza confine. A terra le cose giocano una partita, conquistano una piastrella, attendono il proprio turno, si arroccano; a quell’altezza, seppur modesta, sottostanno ad altre leggi.

Alle otto in punto Pietro tira la prima martellata nel muro, l’intonaco inizia a staccarsi e a venire giù. La polvere in sospensione che sale lungo le narici lo riporta all’infanzia. Rivede suo padre che gli insegna il mestiere: muratore di terza generazione. Schiena dritta, peso su entrambe le gambe, sudore e fatica, poche parole, lealtà alla materia. Non c’è niente di più profondamente umano che costruire la propria casa. Mentre ricorda sferra la seconda martellata e l’aria attorno è latte in polvere.

Al terzo colpo il campanello sta già suonando. Salta giù dall’impalcato e va allo spioncino. Di là dalla porta la vicina settantenne in vestaglia è già sul piede di guerra.

  • Che succede?
  • Lavoretti – dice, aprendo la porta.
  • Sembrava venisse giù il palazzo. È lunga la faccenda?
  • Nel pomeriggio sarà tutto finito – dice, fissandola con il martello a mezz’aria e la testa dello scalpello che spunta dal pugno.
  • Avviserò l’amministratore – sbraita la donna rientrando in casa.
  • Come crede.

Pietro chiude la porta. Prima di tornare a lavoro, passa in cucina, apre il frigorifero, afferra una bottiglia dal ripiano e ingoia una lunga sorsata d’acqua fredda. Un rigagnolo cola lungo la guancia e bagna la maglietta che si fa trasparente. Monta nuovamente sulla pedana e riprende a martellare. È nato per costruire, ma niente gli dà pace quanto distruggere. Ogni colpo sferrato lo fa vibrare di piacere, lo stesso di quando da bambino al mare demoliva a calci il castello di sabbia lasciato incustodito. Il buco nella parete si allarga, un vuoto profondo, la sola macchia scura nel biancore dei teli di cellophane stesi a protezione dell’arredo e fissati con il nastro occultante. Va avanti tutta la mattina. Si ferma solo per incollarsi alla bottiglia, pisciare, rispondere e riattaccare all’operatore di un call center, aprire e chiudere youporn senza grande soddisfazione.

opere di Beniamino Servino

2.

Il muratore mangia a mezzogiorno, è una questione di credibilità. Pietro si concede una birra gelata e un panino mortadella e mozzarella. Nel frattempo scorre la lista che certifica la fine del suo matrimonio. La lavatrice e l’asciugatrice se li aspettava, erano regali dei genitori di Giulia. Ma l’albero di natale, no. Pensa a tutte le case in cui ha vissuto in precedenti relazioni, da cui è sempre uscito di scena senza portare via niente. Giulia evidentemente abbraccia un’altra filosofia. Con l’indice torna a scorrere la lista, due pagine dense fronte retro: gli asciugamani con le iniziali, il frullatore, lo sbattitore, l’estrattore, la spesa fatta da lei tre giorni prima di andarsene, una teoria sterminata di oggetti e ammennicoli di ogni genere e nessun conto. Ma quello che non può digerire è l’albero di natale. Lui odia il Natale. Da sempre, da quando sua madre, la vigilia di molti anni prima, li abbandonò, lasciando suo padre per suo zio.

  • Non voglio niente di questa casa. Non voglio niente che tu abbia toccato.

Avevano discusso forte, lui aveva provato a fare delle proposte di mediazione, ma Giulia non voleva sentire ragioni. Non intendeva portare via niente, tantomeno l’albero di natale: voleva i soldi che ci erano voluti per comprare tutta quella roba. Il prezzo pieno. A quella richiesta la lite si era fatta fisica e Pietro aveva letteralmente perso la testa.

Finito il panino torna in sala e libera l’albero dal contenitore di cartone. Ammucchia i rami di plastica sulla pedana, poco più in là i tubolari di supporto e la base d’appoggio in ferro. Monta sul trabattello e infila ogni pezzo con cura nel buco. In un secchio verde ha preparato la calcina. Con un po’ di forati inizia a ricostruire la parete. Il campanello suona insistente mentre ha già posato una decina di forati. Si affretta a tirare fuori rami, tubolari e base e li lancia nella scatola di cartone. Salta giù e recupera i pezzi finiti sul pavimento. L’incaricato dell’amministratore vuole vedere. Dal corridoio passano in salotto e restano lì ad osservare il buco, mentre la vicina aspetta sul pianerottolo.

  • Parete portante?
  • Scherza? Questa è casa mia – dice mentre con la coda dell’occhio scorge un ramo spuntare sghembo dietro la fila di forati.

Passano una decina di secondi di silenzio in cui rivede sua mamma salire in macchina dello zio. E’ l’ultima immagine che ha di lei. Poi l’incaricato dice:

  • Perché lo ha fatto?

Pietro sente la testa girare, perde l’orientamento, avverte un senso di nausea, poi risponde:

  • Una cassaforte. Voglio installare una cassaforte, per le cose di valore.

Sul pianerottolo l’incaricato gli ricorda che in futuro deve inviare comunicazione all’amministratore e affiggere un cartello a beneficio dei condomini. Poi sparisce alla vista, assieme alla vicina.

 

3.

Nel cuore della notte sogna la casa dell’infanzia, la casa al mare. L’aveva costruita suo padre pietra su pietra. Nel sogno sembra disabitata, lo si capisce dall’erba alta nel giardino. Varca la soglia ed entra. C’è aria di abbandono. Una scarpa da bambino orfana del suo paio è stata dimenticata sul pavimento, come materiale di scarto di un trasloco fatto in fretta e furia. Uno spesso strato di polvere avvolge tutto. Nel mezzo della stanza c’è un albero di natale. È triste, spoglio, senza addobbi. Si avvicina, lo tocca e le finestre scompaiano. Tutto intorno ci sono solo pareti cieche e rimane al buio, segregato. Batte con i pugni contro la porta di ingresso e contro i muri, ma non c’è modo di uscire.

Si sveglia di soprassalto, completamente sudato. Ci mette più di un attimo a capire dove sia. Nel buio mette le gambe fuori dal letto, con i piedi cerca le pantofole. Scende, va in bagno e si lava la faccia. Poi si dirige verso il salotto, accende i faretti ma li spegne subito, la luce fredda e bianca gli dà fastidio agli occhi. Tira via il nastro adesivo e i teli che proteggono le finestre. La luce del primissimo mattino accenna a rischiarare la stanza. Guarda la macchia scura alla parete che tra poco tinteggerà. La fissa. Come un test psicologico prova a tirarne fuori una figura, ma non gli viene niente. Dietro la macchia, in quella cassaforte virtuale, è murato l’albero di natale e la lista di Giulia. Gli sembra di riuscire a vederli, come se i suoi occhi potessero penetrare la materia, varcare il muro, radiografarne il contenuto. Sale sul trabattello, si volta e guarda fuori dalla finestra. Da quell’altezza scorge sopra i tetti della città la Cupola. Non sapeva che da casa sua la si potesse vedere, piccola e nitida. Si sdraia sulla pedana, chiude gli occhi e pensa a tutti i natali che non ha avuto con sua mamma, a tutti quelli che non avrà con Giulia. Poi si addormenta e cade in un sonno profondo, esausto, senza sogni.

Al mattino lo sveglia il campanello. Questa volta suona solo una volta. Scende dall’impalcato e dietro lo spioncino vede la vicina, ha qualcosa in mano.

  • Ho fatto un dolce. Ho pensato che di domenica fa piacere fare colazione con un dolce fatto in casa.
  • Non doveva.

La donna allunga il vassoio e Pietro lo accetta con una smorfia del viso che somiglia a un sorriso. Lo porta al naso, lo annusa: sa di buono, sa di infanzia, sa di casa.

  • Mi dispiace per ieri, sono stata aggressiva.
  • Non si preoccupi, non è successo niente.
  • Allora vado che tra poco arrivano i nipoti, facciamo l’albero, è una tradizione familiare. E lei, lo ha già fatto?
  • Sì certo e penso di averlo sistemato proprio bene.
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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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