Overbooking: Lucio Saviani
Nota di lettura
di
Cristiana Bullita
Nell’autorevole citazione che introduce il saggio di Lucio Saviani “L’esercizio della filosofia”, Jankélévitch invita i filosofi di professione a “rompere con le idee date” e a “percorrere cammini nascosti e abbandonati”. Ebbene, chi conosce e segue Saviani sa che da sempre le sue proposte teoriche sono connotate da audace e brillante originalità e che, nel percorrere i suoi temi più cari –il linguaggio, il gioco, il limite, l’Altro, cui qui se ne aggiungono alcuni più evocativi del dramma pandemico: incertezza, distanza, convalescenza- egli è costantemente sostenuto dall’originario spirito anarchico della filosofia, che gli fa preferire i percorsi in ombra e in salita della speculazione più ardua e meno battuta.
La filosofia risulta essere infatti, per Saviani, “azzeramento delle certezze quotidiane e neutralizzazione dei significati già dati”. Se compito della filosofia è anche quello di spogliare il mondo dei significati tradizionalmente attribuiti alle cose, ciò non vuol dire naturalmente che in esso il senso si dilegui. Come efficacemente scrive l’autore, resta intatto un “orizzonte del senso”, che è il silenzio che partorisce i significati, maieuticamente interpellato dalla filosofia. Dal fondo melmoso e silenzioso dell’essere la rete del linguaggio tira in superficie succose zolle di significato. Dall’orda materiale e muta della Realität insospettabili segni, fattisi parola, bucano la superficie dell’irrilevanza fattuale ed esplodono in significati inediti.
La riflessione di Saviani sulla filosofia, qui e altrove, è sempre molto densa e articolata. La filosofia è conciliazione di affettività e logica, desiderio, passione, verità, dissenso, è cura della distanza ma è pure, con Merleau-Ponty, “l’utopia di un possesso a distanza”. Come in Platone è “rinuncia, ascesi, impegno, pratica quotidiana. È esercizio”. Da qui il titolo di questo saggio.
Tuttavia la filosofia, resasi conto che le scienze particolari si sono appropriate dei suoi abituali oggetti d’indagine (l’uomo, la natura, la storia), ha risposto articolando il discorso filosofico in discipline particolari. Tale tendenza e la permanente indeterminatezza dell’oggetto della riflessione filosofica sono forse all’origine di alcune frettolose sentenze di morte della filosofia da parte di non addetti ai lavori (Stephen Hawking), ma pure di sconsolate meditazioni di esperti (Ortega y Gasset, Dilthey, Simmel). Al punto che Pareyson, ci ricorda Saviani, evoca il paradosso di una filosofia che “dichiara essa stessa la propria fine”.
Non sfugga, sempre a proposito del ruolo della filosofia, l’irritata considerazione dell’autore sulla “continua erosione” delle ore d’insegnamento della materia nei licei e nelle università, che fa il paio con “l’odierna a volte pervasiva presenza della filosofia” in ambiti non consueti, cioè a festival, caffè, salotti, passerelle ideali per intellettualoidi post moderni, per dirla con Corinne Maier.
C’è poi, nel saggio, un’interessante riflessione sugli intellettuali e sulla dissoluzione della loro funzione politica e sociale. È tramontata l’epoca che Derrida definiva della “tentazione di Siracusa”, che è la stessa dei Lumi che, presso le corti settecentesche, consentivano importanti riforme e avanzamenti sociali. Tra gli altri, Ocone e Patella, opportunamente convocati da Saviani, ci mostrano il servilismo degli intellettuali odierni verso il potere di turno e la loro irrilevanza sui processi decisionali della società.
Due colossi del pensiero filosofico novecentesco attraversano questo saggio da cima a fondo e lo permeano di sé: uno è il più volte citato Jankélévitch, l’altro è Gadamer. La figura di Hans-Georg Gadamer è certamente uno dei capisaldi della formazione filosofica e umana di Lucio Saviani. Nelle parole riferite al maestro riecheggiano sempre ammirazione e riconoscenza. Nel saggio Saviani affida proprio a Gadamer il suggestivo racconto delle origini della filosofia, lo interroga sui concetti di esperienza e di tolleranza e gli affida il richiamo al compito politico dell’ermeneutica.
Al riguardo, è importante segnalare la militanza umana e filosofica dell’autore sui temi dell’accoglienza e del dialogo (quando non improntato alla retorica del “parlare a turno” e della “par condicio”): la trama profonda del reale implica un confronto costante e una relazione reciproca tra gli individui, che non sono monadi irrelate ma hanno sempre bisogno gli uni degli altri. Giova pure segnalare il ruolo implicitamente affidato alle opere pittoriche e alla scultura comprese nel saggio: in una società preoccupata di ribadire in modo ossessivo la sua presunta purezza identitaria e terrorizzata da ogni differenza, l’arte agisce come leva che scardina il modello rigido e chiuso della realtà e fa saltare ogni certezza precostituita.
Il saggio presenta anche alcune riflessioni tratte da una lezione alla Galleria La Nuova Pesa di Roma sul mito di Orfeo, con preziose citazioni di Rilke e Blanchot.
I versi di Orfeo, un cantante, di Pasquale Panella, concludono il libro, mostrando con indubbia efficacia quanto sia vero ciò che scrive Saviani a proposito della possibilità, non contemplata dal pensiero occidentale, di fare filosofia “secondo il racconto”, e non “secondo il ragionamento”. Infatti, il racconto/intuizione in prosa, versi o musica, con il linguaggio precipuo e non inferenziale dei grandi narratori, poeti, compositori, può affiancare con piena dignità –e sublime piacere dei fruitori– il tradizionale ragionamento/Logos, sul medesimo piano della riflessione filosofica.
E tu cantavi l’aria…
ossia nulla… ovvero tutto…
Perché è facile la confusione tra gli opposti…
Cantavi tutto ciò che è nulla,
cantavi tutto ciò che non è vero,
ma, non essendo vero, è commovente…
È tutto quel che manca all’esistente…
e, non essendo vero, è, appunto, eterno…
(P. Panella, Orfeo, Un cantante)