Il gelo e la verità

di Sergio Pandolfo

Solo tredici chilometri, il romanzo scritto da Giovanni Accardo e Mauro De Pascalis (Edizioni alpha beta Verlag, p. 360), è uno di quei legal thriller che vorreste sempre leggere e portare con voi, sia che amiate il genere sia che siate dei lettori occasionali di thriller. La trama, lineare ma mai scontata, coinvolge fin dalle prime pagine, giovandosi di un’ambientazione da “gelo nordico”, quella delle strade innevate della Val Pusteria, in Alto Adige. È un gelo che accompagna costantemente il lettore, costituendo una cappa attorno alla verità; ma che pure chiede, implicitamente, di essere spezzato, affinché quella verità venga alla luce. La prosa di Giovanni Accardo – il quale ha dato forma a una storia realmente accaduta che ha avuto come protagonista l’avvocato Mauro De Pascalis – è nello stesso tempo concisa e sicura, ma anche evocativa e aperta ai dubbi esistenziali del protagonista che narra in prima persona: il giovane avvocato Marco De Vitis, le cui indagini costituiranno un vero e proprio apprendistato professionale. Non siamo di fronte a un eroe che non deve chiedere mai, a un uomo forte e sicuro di sé e degli eventi, (e per fortuna, mi viene da dire, ripensando ai tanti detective stereotipati che vengono propinati dall’industria culturale); De Vitis, invece, è un giovane avvocato che ancora deve farsi le ossa, e perfino capire che cosa significhi davvero, nelle aule dei tribunali, farsi le ossa. Fin dalle prime pagine, l’introspezione psicologica porta alla luce tutti i dubbi e le irrequietudini che travagliano la sua coscienza: «Stavo andando a incontrare un uomo di ventisei anni, dunque poco più giovane di me, accusato dell’assassinio di una ragazza di diciannove. Mi vennero in mente tutte quelle cene da studente in cui ti chiedevano, per curiosità sincera o semplice diletto, con quale spirito si potesse assumere la difesa di una persona che aveva commesso un grave reato. Ecco, appunto, io non ero sicuro che Martin fosse l’autore dell’omicidio di Johanna. Se durante il colloquio avessi avuto non dico la certezza, ma la sensazione della sua innocenza, sicuramente sarebbe stato più facile difenderlo. Lui naturalmente poteva mentire, ma io dovevo fidarmi. Dovevo? Le domande giravano in tondo. Forse perché ero alla mia prima, vera esperienza professionale. Certo che te lo chiedi se stai prendendo le parti di un efferato assassino o di un povero innocente, però allo stesso tempo devi rimanere entro i confini del tuo mandato, senza farti troppi scrupoli. Chissà se i principi del foro si pongono tutti questi interrogativi, mi dicevo, o se col tempo si diventa impermeabili ai dilemmi morali e alle emozioni.» (pp.31-32).
Tutto era cominciato in un pomeriggio d’autunno, quando dentro a un fosso, al margine di una strada di campagna veneta, era stato ritrovato il cadavere di una ragazza, poi identificata come Johanna Pichler: una diciannovenne austriaca residente a Sillian, un paesino appena oltre il confine sudtirolese, a pochi chilometri dalla Val Pusteria. La ragazza presentava chiari segni di strozzamento, i pantaloni abbassati e del nastro adesivo a foderarle la bocca. Le indagini svolte dagli inquirenti conducevano fino a un giovane di San Candido, Martin Scherer, con il quale Johanna aveva trascorso le sue ultime ore di vita. Fra i due paesi, Sillian e San Candido, vi sono soltanto tredici chilometri, e questo particolare ispira il titolo del romanzo. Il quadro indiziario a carico di Martin appariva pesante, al punto che il giovane era stato subito condotto in carcere. Marco De Vitis ha accettato di patrocinarlo, e si sta per l’appunto recando a interrogarlo.
L’incontro è di quelli che lasciano il segno. Infatti, il giovane si dichiara assolutamente estraneo all’omicidio: «Io credo nella giustizia» rivela, «perciò voglio uscire dal carcere solo quando sarà provata la mia innocenza, non prima. Faccia di tutto, avvocato, io ho pazienza e aspetterò. Tiri fuori la verità.» Per De Vitis si tratta di una vera e propria investitura, l’invito a indagare meglio di chiunque altro, a superare i muri dell’apparenza, del pregiudizio, della banalità e dell’ovvio. È l’inizio della sua carriera professionale, come dicevo più sopra, ovverosia la scoperta di un mondo che certamente è assai più sporco di quanto egli poteva immaginare. Glielo confermeranno anche le parole dell’avvocato Efisio Serra, docente di Procedura penale all’Università di Padova e patrocinatore più esperto di lui, che lo affiancherà nella difesa dell’imputato e al quale De Vitis chiede consiglio dopo aver commesso la leggerezza di far rispondere l’imputato all’interrogatorio di garanzia: «Marco, te lo dico per il tuo futuro, visto che sei ancora giovane: nel nostro mestiere bisogna saper essere anche cinici e non fidarsi di nessuno. La bontà, la generosità, la comprensione, lasciale ai preti.» (p.76).
E tuttavia, oltre alle strade del cinismo privo di misericordia e della ingenua fiducia nel prossimo, ve ne è certamente un’altra: quella della tenacia, della caparbia ricerca della verità, che l’avvocato De Vitis decide di imboccare, in barba a quei principi del foro che col tempo sono diventati impermeabili ai dilemmi morali e alle emozioni. Potremmo dire, con una parola che non deve sembrare fuori luogo, la strada dell’“amore”, se intendiamo l’amore non nel suo significato comune, bensì come tensione, come resistenza a un tutto più grande di noi, costituito dall’indifferenza degli uomini a ogni valore sostanziale e dal mero e freddo rispetto delle regole procedurali, che giocoforza, e per quanto sacrosante, possono talora arrivare a non tenere in conto quei valori. È una strada difficile da percorrere, ma credo che proprio a questo “Solo tredici chilometri” debba il suo fascino, e ritengo che la sua lettura non mancherà di toccare l’animo di quegli avvocati – forse sempre più rari, ma io spero di no – che ogni giorno combattono le loro battaglie nelle aule dei tribunali nutrendo la convinzione che la loro professione richieda, malgrado tutto, malgrado le scappatoie e i cavilli burocratici, malgrado le vie più comode e sicure, il rispetto non solo della deontologia professionale, ma, appunto, di principi di giustizia sostanziale che non è possibile calpestare. Perché ciò avvenga, perché si imbocchi questa strada, come dicevo poc’anzi, bisogna avere il coraggio di andare oltre i muri del pregiudizio, della banalità e dell’ovvio.
Questo è il viaggio che compirà l’avvocato De Vitis. Un viaggio in cui il rischio è quello di rimanere soli, giacché si vuole percorrere la strada più irta e accidentata, si vuole remare contro l’indifferenza e l’opinione comune, contro il mondo del “così si dice” e “così si fa”, certamente assai rasserenante, ma anche così pericolosamente al confine con quello di una “normalità” che costituisce, per usare una frase di Robert Musil, la media ponderata in cui si celano – e magari si giustificano anche – tutti i crimini che sono stati commessi. E dunque non stupisce che all’investitura ricevuta da Martin, al mandato di tirare fuori la verità, De Vitis risponda perseguendo questa strada accidentata. Non stupisce che egli faccia rispondere Martin all’interrogatorio di garanzia, reputandolo innocente; che senta, improvviso, l’anelito di recarsi sulla tomba di Johanna Pichler (constatando, non senza un filo di amarezza, che le uniche impronte che segnavano il percorso tra la chiesa e il camposanto erano le sue); che si dedichi a quel processo anche al prezzo di sacrificare il proprio tempo e di mettere a repentaglio i rapporti con la moglie Francesca; che interroghi, senza nulla tralasciare al caso, quante più persone possano essere informate dei fatti, cercando di superare le difficoltà che incontra, prima fra tutte, quella della lingua.
La questione della lingua, in effetti, colpisce subito il lettore attento. Ci troviamo in una terra di confine, dove si mescolano persone diverse, e tra parlanti tedesco e parlanti italiano sussiste già il rischio di guardarsi in cagnesco, di diffidare gli uni degli altri, di chiudersi nel guscio delle proprie cerchie e dei propri abiti mentali. Così, De Vitis si imbatte in quello che fin dal processo a Socrate era considerato il più pericoloso dei nemici: il pregiudizio della gente. Si noti come il gelo di Sillian, il paesino in cui viveva Johanna, faccia il paio con l’indifferenza e il “gelo” dei vicini di casa della ragazza: «Sillian era imbiancata dalla neve caduta copiosamente durante la notte. Anche per questa ragione passavano rare macchine e si sentiva unicamente lo scricchiolio dei miei scarponi […] Due donne mi guardavano da dietro i vetri, non appena feci loro un cenno di saluto, aprirono la finestra. Dissi che ero un giornalista del Sudtirolo, chiesi cosa pensassero della morte della loro vicina. Dapprima sembrarono non capire, poi una delle due mi disse che con la vita che faceva, non era strano che prima o poi le capitasse un incidente […] Improvvisamente arrivò un’auto. Ne scese un tizio con le buste del supermercato. Una delle due signore con cui stavo parlando gli disse che ero un giornalista italiano che cercava notizie di Johanna. Mi guardò con espressione ostile e poi mi domandò dove prendesse i soldi per l’affitto la ragazza […] Andando avanti con la conversazione, sia pure senza essere mai espliciti, capii che i tre insinuavano che Johanna si prostituisse. L’unica certezza che ricavai da quella chiacchierata fu che non era per nulla amata dai vicini. Mi stupì la loro ferocia, l’assoluta mancanza di pietà per una ragazza brutalmente assassinata.» (pp.89-90). Tutto suona così scontato, così normale, eppure nella banalità del quotidiano – simboleggiata da quell’uomo che torna coi sacchetti della spesa e guarda in cagnesco l’avvocato De Vitis – si annida, subdolamente, il male. L’indifferenza rende ciechi al dolore umano, il pregiudizio impedisce alle persone di aprire i propri occhi e il proprio cuore: Johanna conduceva un’esistenza disordinata, non lavorava, dunque viveva di espedienti e non poteva che appartenere a una classe sociale infima; con ogni probabilità si prostituiva anche, dunque è facile pensare che se la sia andata a cercare, che prima o poi le sarebbe dovuto capitare qualcosa. Dal loro punto di vista, queste persone non si rendono nemmeno conto delle motivazioni che spingono l’avvocato De Vitis a indagare. Infatti, perché spaccare il capello in quattro quando ci si potrebbe accontentare della soluzione più semplice, scivolando sopra l’involucro dell’ovvio? E in tal modo, è altrettanto ovvio che ognuno dei personaggi interrogati dall’avvocato si chiami implicitamente fuori dalla vicenda, quasi a non voler ammettere che in un mondo destituito da ogni vero afflato di solidarietà, e in costanza di quel “gelo” dell’indifferenza umana che ci avvolge, un profilo di responsabilità in realtà ce l’abbiamo tutti. Non far nulla, non muovere un dito, è già la colpa più grande, come diceva Elsa Morante, perché l’inerzia stessa delle nostre condotte contribuisce ad avallare il male.
Ma se le lingue corrono il rischio di dividere, se ci si imbatte nell’esistenza delle classi sociali e del pregiudizio sull’altro, c’è forse qualcosa che può andare al di là di tutto questo, che può accomunare e riuscire ad affratellare: la volontà di superare gli ostacoli mettendo in circolo l’amore per la verità. È forse questo l’unico modo per fendere il gelo dell’indifferenza e del grigiore del quotidiano, pur nella consapevolezza che in quel quotidiano siamo immersi, come l’orizzonte ineludibile delle nostre esperienze di vita. Non si tratta (e come sarebbe possibile, in fin dei conti?) di uscirne fuori; bensì di “trasformarlo”, ovverosia di innervarlo di significato nuovo. Soltanto se si pone in essere questo tentativo, soltanto se si superano le barriere interpersonali, le nostre parole e i nostri gesti non saranno quelli di automi o di marionette, ma acquisteranno forza e autenticità. Soltanto in tal modo sarà possibile attingere a una fonte di verità che estingua la nostra sete di giustizia.
A questo punto tocchiamo un altro nodo del romanzo, quello della distinzione tra una verità processuale e una verità reale. Già questa seconda, del resto, può non presentarsi – e spesso non si presenta mai, in sé e per sé – come univocamente determinata, ma è bensì prismatica, quasi che ognuno possedesse la “sua” verità. «Sapevo che la verità processuale non poteva corrispondere alla verità fattuale, a cosa era accaduto realmente la notte del 5 novembre 2000. Quello lo sapevano soltanto i protagonisti e ognuno certamente l’avrebbe ricordato e raccontato a modo proprio.» (p.132) Personalmente, aggiungerei perfino l’ipotesi in cui nemmeno i protagonisti sappiano davvero che cosa sia accaduto: un’ipotesi affatto lontana dalla realtà dei tribunali, nella quale è dato constatare veri e propri buchi di memoria nei ricordi di imputati e testimoni, nonché continui cambiamenti nelle loro versioni dei fatti. Non credo che, in fin dei conti, ciò debba stupire più di tanto: viviamo nei tempi in cui la coscienza è arrivata a dubitare di se stessa e delle proprie rappresentazioni. Due osservazioni, però, sono d’obbligo. La prima è che i fatti non possono perdere di “oggettività”. Se qualcosa è accaduto, questo qualcosa è andato in un certo modo, e non in un altro. Così, se i muri di un luogo in cui è avvenuto un omicidio potessero parlare, ci direbbero in maniera oggettiva chi è l’assassino. Già questa semplice constatazione giustifica in sé l’esigenza della ricerca della verità. È inoltre opportuno spendere qualche parola a proposito della verità processuale, affinché questa non venga confusa con una delle tante versioni soggettive della verità: a quel punto, infatti, verrebbe messa sul loro stesso piano; e come queste, patirebbe il rischio di poter essere comodamente delegittimata come una verità (opinione) fra tante. A scanso di equivoci, è bene affermare subito che essa non lo è, già per il semplice fatto che venga messa in moto l’intera macchina dell’amministrazione della giustizia: una macchina che, piaccia o no, nutre in qualche modo la pretesa di gettare una luce su come si siano svolti determinati fatti, e sulla qualificazione giuridica da assegnare loro. È ben possibile, però – purtroppo o per fortuna – che verità processuale e verità in senso “oggettivo” non coincidano. «Nel processo c’è tutto e il suo contrario. Proprio come nella vita. Può capitare che chi è dalla parte della ragione esca sconfitto solo perché non ha offerto al giudice idonea documentazione; oppure chi è colpevole viene assolto, per la superficialità delle indagini o per la bravura dell’avvocato.» (p.154) Sappiamo bene che quando ci è dato sperimentare questo scarto, quando sospettiamo che un provvedimento giurisdizionale tradisca la via della verità oggettiva accontentandosi di una verità “di facciata”, nasce nell’animo un’insoddisfazione, una sete, appunto di giustizia. Sembra che la macchina processuale abbia in qualche modo tradito se stessa, e noi stessi in quanto cittadini ci sentiamo traditi. Scopriamo così che se l’Amministrazione della Giustizia vuole mantenere credibilità agli occhi del cittadino, non può fare a meno di un valore sostanziale, un valore, appunto… di giustizia.
Appellarsi a un simile valore può forse suonare metafisico, in tempi come i nostri, ma a ben vedere non lo è affatto. Ciò non significa, infatti, che tutto potrà essere spiegato, che ogni domanda riceverà una risposta. Certe vicende si concludono «senza un autentico finale, come spesso accade nella vita» (p.352) constaterà l’avvocato De Vitis, e tuttavia, per quanto possibile, non bisogna desistere dal tirar fuori dai fatti la verità, soprattutto di fronte ai crimini più gravi. Lo sforzo in sé, la tensione, lo streben che muove De Vitis è già degno di nota. È quanto si può chiedere a un professionista onesto e ligio al dovere, visto che quella dei patrocinatori è pur sempre un’obbligazione di mezzi e non di risultato. Alla fine, se tutto non potrà essere spiegato, gli aspetti essenziali della vicenda verranno comunque a galla: il colpevole pagherà per le sue colpe, e giustizia sarà resa alla vittima, per quanto questo non possa riportarla in vita. Il ricordo, almeno, consentirà di non obliare l’accaduto, e di ricavare l’importante lezione che le barriere tra gli uomini – linguistiche, di classe sociale, di sesso o di razza – si presentano invalicabili soltanto nel gelo dell’indifferenza umana; ma una volta superate dalla tenacia e dall’amore si rivelano per quello che sono davvero: sottili e inconsistenti, come quella breve distanza cui fa riferimento il titolo del romanzo: «Vorrei andare sulla tomba di Johanna, mi porteresti?» «Ma certo», risposi. «Sono solo tredici chilometri.» (p.352)

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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