Venezia 78_Il capitano Volkonogov è scappato
di Giulia Marcucci
Il capitano Volkonogov è scappato di Nataša Merkulova e Aleksej Čupov, in concorso alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia, si inserisce appieno in una tendenza che caratterizza anche la letteratura russa contemporanea: guardare al passato sovietico dal presente. Un tema dunque, quello del ritorno al periodo staliniano in particolare, di lunga durata, che viene spesso riraccontato da registi e scrittori (Prilepin, Jachina, Vodolazkin, Stepanova, Ulickaja e molti altri) per comprendere, ricordare e forse, anche, per riflettere da lontano e con meno rischi sull’oggi, come se quel passato non fosse stato abbastanza discusso né mai fosse davvero finito.
Il film è ambientato a Leningrado nel 1938: anno, per l’appunto, delle terribili purghe staliniane. L’ambivalenza storica, che contraddistingue tutta la pellicola, è tuttavia messa in risalto sin dalle prime inquadrature, in cui spicca il colore rosso delle tute dei muscolosi e femminei aguzzini dell’Nkvd, una divisa che non corrisponde a quella originale, bensì preannuncia la «realtà alternativa» ricreata dai due registi, secondo una definizione utilizzata da Anton Dolin nella sua recensione del film. Questa «realtà alternativa» disorienta lo spettatore: come se dal 1938 si scivolasse in un altro tempo e in un altro spazio (persino Leningrado evoca, al contempo, la Pietroburgo post-sovietica), mentre si costituiscono le basi per riflettere su quanto già preannunciato da Čechov quando scriveva che «la menzogna è come una foresta: più ci si inoltra nella foresta, più è difficile uscirne».
Nel film mentono più o meno tutti: mentono certamente quelli dell’Nkvd nel mascherare la loro identità a una ragazza da conquistare e mentono soprattutto nell’accusare degli innocenti, presunti nemici del popolo secondo l’articolo 58, ma mentono anche le vittime quando, pur di scampare alle torture effettuate «secondo metodi speciali», ammettono crimini mai commessi, inventando la verità che si vuole sentire dalle loro bocche. A questo punto la tortura finisce e i loro corpi esangui finiscono calpestati dagli aguzzini al ritmo di Poljuško-pole, famosa canzone sovietica sugli eroi dell’Armata rossa. La verità e la menzogna sono continuamente capovolte in un vicolo cieco dominato da violenza e orrore. E in questo feroce tritacarne ci può finire chiunque, come succede a uno dei compagni stessi del protagonista, torturato solo perché conosce meglio degli altri Volkonogov, il capitano scappato e ricercato. Il meccanismo perverso alla base di questo sistema è ben illustrato in una scena fortemente visionaria ambientata in una grande stanza cosparsa di fieno e dalle enormi finestre che lasciano filtrare una luce crepuscolare; qui, il maggiore spiega a Volkonogov che chi viene arrestato non è affatto colpevole, ma è «inaffidabile», quindi un potenziale colpevole da eliminare subito. Questa grande stanza vuota e isolata dal resto sembra una metafora della grande Russia, la cui grandezza è evocata sin dalle prime inquadrature con il primo piano dell’enorme dirigibile, che ha qualcosa di favoloso e di tragico al contempo: sta troppo in basso e rischia di cadere a terra distruggendo tutto. Un po’ come accade nell’inizio di Andrej Rublev di Andrej Tarkovskij con il volo mancato di Efim, che cerca invano di sollevarsi in alto su un rudimentale aerostato prima di finire morto a terra (e lo stesso destino tocca al protagonista del film di Merkulova e Čupov). E nel dirigibile si concentra d’altra parte il sogno, divenuto tuttavia del tutto separato dalla realtà, della grandezza giusta della Russia rivoluzionaria.
Il cognome Volkonogov evoca il proverbio russo volka nogi kormjat, alla lettera ‘il lupo lo nutrono le sue zampe’, ovvero, non gli conviene ‘restarsene con le mani in mano’. A interpretare questa parte è il bravo Jurij Borisov, l’attore russo del momento, a Venezia anche nel film Mama, ja doma / Mamma, sono a casa di Vladimir Bitokov, dove interpreta il ruolo di un figlio che ritorna per sostituirsi a quello vero di Tanja (Ksenija Rappoport), morto in Siria. Nel film di Merkulova e Čupov, Volkonogov capisce che presto la purga toccherà anche a lui, così scappa, iniziando un viaggio alla ricerca del perdono con lo scopo di guadagnarsi il Paradiso (viene in mente un altro viaggio compiuto da Borisov nel film della pietroburghese Aleksandra Streljanaja Nevod / La rete, alla ricerca di se stesso e di una ragazza di cui si è innamorato). E così, attraverso i parenti delle vittime da cui si reca per confessarsi, conosciamo da vicino le atrocità perpetrate durante il periodo del Grande terrore. Volkonogov incontra la figlia medica (Natal’ja Kudrjašova, premio Orizzonti come miglior interprete femminile a Venezia75 nel film di Merkulova e Čupov Čelovek, kotoryj udivil vsech / The man who surprised evryone) di un professore accusato di aver cercato di diffondere in Russia un’epidemia e che aveva tentato invano di sottrarsi all’umiliazione di abbassare i pantaloni prima di essere frustato e ucciso; un commovente operaio la cui moglie aveva commesso il crimine di raccontare al mercato una barzelletta tanto divertente quanto innocua; una bambina che sta bruciando i vestiti del padre «traditore», un padre da rinnegare, secondo la lezione impartitale dalla madre e a scuola. Il mondo dell’infanzia è costretto da subito a essere complice degli orrori del sistema, ad accettare come verità la menzogna in un sistema surreale di valori ribaltati, in cui il male e la violenza dominano su tutto e si accetta la menzogna travestita da verità nel tentativo di salvarsi. Da questo punto di vista, emblematico è Proiettile, figura perturbante che ricorda certi personaggi mostruosi di Aleksej Balabanov, il regista del film culto degli anni Novanta, il dramma criminale Brat / Brother, e di Gruz-200 / Cargo-200, ambientato alla vigilia della Perestrojka, e dell’autobiografico Ja tože choču / Me too, per citarne un paio della fase culminante della sua carriera. Con un colpo secco alla nuca, l’uomo dal grembiule nero uccide le vittime che, infagottate in giacconi grigi, si avvicinano inermi con il volto al muro. E a proposito degli echi del mondo cinematografico di Balabanov, occorre ricordare che la costumista del film di Merkulova e Čupov è Nadežda Vasil’eva, moglie e coautrice di Balabanov stesso.
La meccanicità della realtà si riflette anche a livello linguistico, nella comunicazione stereotipata dei membri dell’Nkvd, negli automatismi e nelle domande della povera gente che non trovano mai le risposte sperate, bensì si inanellano in una serie di rinvii senza via d’uscita. È il caso della donna che ripete di essere iscritta al partito dal 1918, di essere ammalata di tubercolosi, che il marito era un eroe di guerra e si chiede perché non le assegnino un alloggio diverso dall’appartamento in coabitazione in cui vive. Ci penserà l’ufficio apposito, le risponde secco il maggiore Golovnja (Timofej Tribuncev).
Il viaggio del capitano fallisce, nonostante l’abilità sorprendente di smarcarsi dalle situazioni più difficili: alla fine della sua corsa sfrenata, dopo aver confidato di non sentirsi degno del Paradiso, si butta da un tetto a testa in su e con le braccia aperte, morendo come un Cristo in croce.
La critica letteraria Natalia Ivanova, a proposito della marcata tendenza nella letteratura russa contemporanea di guardare al passato, ha scritto che alla società russa è mancata la possibilità di una discussione collettiva sulla storia passata e che per questo è ora costretta, come sotto ipnosi, a ritornare «nel luogo del delitto». La letteratura, spiega Ivanova, si muove di pari passo, anche se poi le sensazioni provate sono spesso opache e torbide. Merkulova e Čupov con il loro Capitano Volkonogov è scappato si inseriscono nello stesso solco, rielaborando il passato in chiave postmoderna, a suggerirci ancora una volta che nel presente è ora di districarsi dalla foresta a cui alludeva Anton Pavlovič. Di fronte a questo nutrimento, il fatto che il lupo a Venezia sia rimasto a bocca asciutta (di premi) non è così importante.