«L’OCEANO DELL’INFANZIA». SU “LINEA INTERA, LINEA SPEZZATA” DI MILO DE ANGELIS
di Carlangelo Mauro
Un dialogo con la morte e con gli spettri, una discesa nell’oceano dell’inconscio attraverso la forza del ricordo: «Ricordiamo, ricordiamo esattamente» (p. 35). L’ultimo libro di Milo De Angelis, Linea intera, linea spezzata, uscito per lo Specchio Mondadori, fin dal titolo, s’imprime nella mente del lettore per questo ‘spezzarsi’ della vita di ognuno di fronte al dolore, all’inesorabile destino. C’è chi decide, come i suicidi, di tagliare con il «rasoio» quella linea anzitempo. Se il titolo è tratto, come l’autore stesso ha spiegato, dall’I Ching (o Libro dei mutamenti, uno dei classici fondamentali della cultura cinese), viene spontaneo per un occidentale l’accostamento con la mitologia greca, con il filo della vita spezzato inesorabilmente dalla terza Moira, Atropo.
Fin dall’incipit della raccolta, Nemini, l’ombra della morte, con gli «spettri che corrono sulle rotaie del tram» e si presentano allo sguardo dell’io lirico, appare dominante. Così nella poesia 21 settembre (p. 20), alcuni elementi, come l’acqua, la barca, l’«isola» sulla cui «riva si affacciarono i morti», richiamano alla mente L’isola dei morti di Arnold Böcklin. A p. 47 troviamo un testo, A.D.E., che è fin dall’umoristico titolo ¬– in realtà si tratta di un garage dallo «“strano nome”» – una discesa nel regno dei morti analoga allo sprofondare nell’inconscio («scendo fino in fondo, scendo ancora»), dove il personaggio che dice io incontra il fratello, fissato per sempre in una epoca remota che richiama l’infanzia: «Oh Puia. Che gioia vederti sorridere! / Sì, fratellino, sorrido: questo è stato il mio tempo, / un tempo di dischetti e figurine, e qui resterò per sempre». In questa dimensione allucinata, in cui i gesti più semplici acquistano un senso ultimativo, anche gli incontri preludono ad un distacco: «fai con la mano un gesto / che sembrava un saluto ma è un addio», versi che sembrano un omaggio al Montale di Tempo e tempi («Ma in quell’attimo / solo i pochi viventi si sono riconosciuti / per dirsi addio, non arrivederci»), o della Bufera per il saluto di Clizia («qualche gesto che annaspa…/ Come quando / ti rivolgesti e con la mano, sgombra / la fronte dalla nube dei capelli, / mi salutasti – per entrar nel buio»). In Linea intera, linea spezzata si annullano i confini tra la vita e la morte e le care presenze, la donna amata, i compagni del liceo e di Università, una volta evocate rimangono per sempre sospese come sul foscoliano «limitar di Dite». Solo la parola esatta della poesia può riscattarle alla fine dal buio in cui sono sprofondate; se nella prima sezione eponima sono «senza nome «gli spettri» che «si aggregano nel corridoio / del liceo…» (Scrutinio finale), nell’ultima sezione del libro, Aurora con rasoio, dedicata ai suicidi, viene evocato con nome e cognome un compagno di liceo: “Gianni Hofer” (p. 95). Egli amava tradurre e ritradurre i testi greci («porta su questa terra i suoni antichi e perduti»), ponendosi fuori da ogni rapporto con la vitalità e il reale simboleggiati dalla corsa dell’atletico compagno che lo invita appunto «al Giuriati per correre insieme», mentre Gianni rifiuta, parlando solo del ricordo, gloriosamente libresco, di Filippide che corre ad annunciare la vittoria sui Persiani agli ateniesi per poi morire esausto.
Più che al modello della Commedia, come è stato fatto, per i personaggi di Linea intera, linea spezzata farei riferimento all’Antologia di Spoon River di E. L. Masters. Gianni Hofer, il folle, rimane fissato per sempre in una scena, in un solo definitivo discorso che si ripete all’infinito tramutato in silenzio («nella stanza più remota dei folli non disse più nulla»); il personaggio, amante della classicità, è relegato in un mondo lontano, in «quel simbolo personale», per usare le parole di Pavese a proposito del libro di Masters, che è «inchiodato per sempre all’anima». Così nel testo intitolato Pensione Iride, un albergo di giovani prostitute, , l’«antica compagna / di banco e di paure», Federica, dice all’io lirico che non uscirà più dalla stanza, ancorata per sempre a quel luogo; simmetricamente Lauretta rimane «per sempre» perduta tra i corridoi di qualche casa di cura (il cui ingresso segue ad un cortile con «lettighe ed ambulanze», p. 45). In Autogrill Cantalupa ritroviamo un’altra presenza cara che appartiene al passato («la prima creatura amata sulla terra») e che rimane «ferma in cima alle scale» in un oceano di silenzio in cui spazio e tempo si annullano, giunto il personaggio lirico all’incontro con «il calendario di se stessi». E al tempo, grande tema della lirica occidentale, sono dedicati diversi passaggi della raccolta laddove «la mano solleva la polvere dal vetro» e l’io entra nella dimensione del passato per guardare, con una tragica esattezza, le figure, i gesti, i luoghi perduti che rimandano all’infanzia (il panno verde del tavolo di biliardo in Sala Venezia è «come un prato dell’infanzia», così come per Saba «l’infanzia è un verde prato») o alla giovinezza. Non può mancare, come in tanta poesia di De Angelis, il gesto atletico, la concentrazione sull’evento sportivo che caratterizza tutta la forza e la vitalità della gioventù. L’importanza della disciplina del gioco, dello sport, sia esso il biliardo o il bowling o il calcio o la corsa, passa a significare l’essenza stessa della poesia nella sua esattezza di «dizione più precisa», di «numero sancito» (p. 14), soprattutto di rigorosa disciplina interiore cui è necessario un allenamento continuo per non pronunciare l’«accento sbagliato» (p. 15) perdendosi per sempre. Oltre all’ambito cui si riferiscono, i testi sportivi di De Angelis possono anche essere letti come metapoetici. La purezza di un gesto atletico è analoga alla purezza di un verso ed entrambe si legano alla suprema delle discipline, al morire; il «morire giovane» dei classici in Exodus (II) è paragonabile a quello del «poeta che ha dato tutto al primo libro» o al calciatore «sospeso nella rovesciata che onorò tutta la squadra». Certamente diversi altri testi, al di fuori dell’ambito sportivo, sono direttamente metapoetici. Come la poesia di p. 75, ad esempio, in cui le parole che non vanno via, «bussano alla porta» e «restano lì», chiedono di entrare nel processo di gestazione dei testi in cui si gioca la partita con il silenzio («L’accusa è sempre la stessa: il silenzio»). L’immagine rimanda ancora al Montale di Satura: le «rime» che «battono alla porta e insistono […] bussano ancora» (Le rime); bussano come i personaggi di Pirandello: in Tragedia di un personaggio (in Novelle per un anno) il narratore dice che è sua «vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi» delle novelle che scriverà e Udienza è proprio il titolo della poesia di De Angelis. In effetti lungo tutta la raccolta sono evocati personaggi che come fantasmi riemergono dal viaggio nell’inconscio con l’incontro e il dialogo che ne segue, il verso lungo – stilisticamente felice – e la teatralizzazione del testo: «“Mister, lei è ancora qui, nel campo a nove giocatori, / è ancora qui con lo stesso taccuino e la matita” / Sono sempre stato qui e ti aspettavo ragazzo». Memorabile in Strapiombo, proprio a metà libro (p. 51), anche l’incontro con Luigi Tenco in cui «l’ombra di ciò che abbiamo taciuto», colpevolmente aggiungerei, è «sempre più grande», può quindi arrivare a perseguitarci. L’Udienza di De Angelis rimanda a quello che l’autore in una intervista ha chiamato il «tribunale delle parole (Colloqui sulla poesia, La vita Felice, 2008), cui bisogna presentarsi. Nello stesso volume parla altrove dei pomeriggi passati ad discutere i propri versi davanti ad un giudice severo come Franco Fortini: una scelta di «un aggettivo sbagliato o banale» costituiva una grave colpa o «peccato» in una «dimensione da fine del mondo». Ed è proprio una dimensione tragica, da aula di tribunale, a caratterizzare la poesia di De Angelis, in cui, come è scritto nella conclusione della raccolta, Il penultimo discorso di Daniele Zanin, «ognuno attende la sentenza» (e i poeti per parte loro dovranno rispondere, soprattutto delle parole che dicono strappandole al silenzio). L’«arpione» che entra «nella bocca», toglie «la parola» è la morte, la cui oscura prefigurazione per il poeta è il non saper trovare le esatte parole, affondando in un balbettio, in una «lingua morta» (p. 97) una volta che si è asciugato «l’oceano dell’infanzia». Ma la fine del gioco e dell’infanzia equivalgono a quella della stessa creazione artistica, della scrittura: «balbetta una lingua morta nelle nostre mani calcinate / che ieri furono sorgente e primavera, foglio e inchiostro». Anche la narrazione del «doppio passo», la favola tragica dei due suicidi bambini, sembra conservare una allusione meta letteraria; alla fine la poesia non può che sfociare in un abbraccio di silenzio e di morte: «E allora facciamo silenzio, mio piccolo amore / […] scenderemo noi due, scenderemo noi soli».