Quattro romanzi: Sorrentino, Teobaldi, Lobo Antunes, Camenisch
(quattro letture di fine estate, mentre il sole scompare dietro le nuvole settembrine. G.B.)
di Gianni Biondillo
Piero Sorrentino, Un cuore tuo malgrado, Mondadori, 147 pagine, 2019
Bianca, la protagonista di Un cuore tuo malgrado, è un’autista di autobus. Un lavoro come un altro; era il mestiere di suo padre, ora è il suo. Poi una mattina, complici una canzone ascoltata alla radio, qualche gabbiano che attraversa un cielo terso, un signore che fuma, insomma, complice una stupida distrazione alla guida e la sua vita cambia per sempre. Non solo la sua. Al risveglio in ospedale scoprirà come in pochi secondi abbia distrutto l’esistenza di una intera famiglia. Come puoi convivere con una tale colpa?
Fortunatamente Bianca non è sola. Sua sorella Margherita l’accompagna nella lunga riabilitazione, sia fisica che psicologica. L’autore decide di raccontarci come una donna qualsiasi possa attraversare il suo inferno privato. Lo fa scavando nella sua infanzia, nei ricordi estivi, nei giochi con la sorella al mare, fino al giorno della perdita improvvisa del padre. Ma non basta. Bianca non vuole lasciarsi alle spalle la tragedia che ha provocato. È alla ricerca spasmodica di un perdono. Decide, contro l’opinione della sorella, di scrivere all’unico sopravvissuto all’incidente.
La lingua di Piero Sorrentino è così lieve e precisa che riesce a farci entrare in risonanza con una protagonista che, guardata alla giusta distanza, tutto fa tranne che agire con ragionevolezza. Nelle mani di un altro autore sarebbe stata insopportabile. A ben vedere ogni sua mossa nel corso del romanzo è istintiva, irrazionale, egoista. Spesso crudele anche con chi le vuole bene. La scelta dell’autore di non identificare mai la città, i luoghi dove la storia di dipana mira a rendere universali i tormenti della protagonista. Potrebbe accadere ovunque. Bianca siamo noi. E come lei vogliamo che la nostra anima si salvi a prescindere dal male che siamo capaci di dare.
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Paolo Teobaldi, Arenaria, 148 pagine, edizioni e/o, 2019
Un nonno, che racconta alla nipotina, così giovane che neppure può capire il racconto, la vita di un luogo, i suoi abitanti, il passato che non deve essere dimenticato. Un dono, un testamento orale. Nulla di più. Non c’è altro da aggiungere alla trama di Arenaria. Trama che, appunto, non esiste. Eppure non si riesce a smettere di leggere le continue digressioni del racconto del narratore che saltabeccano, vagando con la mente e la memoria, da una definizione di una parola desueta al soprannome di una famiglia di contadini; dal racconto di una casa scomparsa nel mare a una montagna (che poi neppure montagna è) che perde pezzi in modo capriccioso. Come si diceva una volta: raccontando vita, morte e miracoli.
Sono due gli elementi di forza di questo romanzo, che, a ben vedere non è neppure un romanzo: è un monologo che potrebbe essere messo in scena già da subito. Il primo elemento che struttura il testo è la lingua. All’apparenza colloquiale, bassa, popolare. Ma nei fatti coltissima, capace di riflettere su se stessa, farsi malinconica, comica, tragica, nobile, mai nostalgica. Paolo Teobaldi è uno scrittore di parole. Sembra che assista, ogni volta che le scrive, ad un miracolo. Come se semplicemente dicendole abbiano la potenza di evocare mondi lontanissimi.
L’altro punto di forza è la scelta di non avere protagonisti. Non ostante la pletora infinita di personaggi, spesso solo accennati ma con tale precisione che sembrano vivi, nessuno di questi ruba la scena al vero protagonista dell’opera: il paesaggio. Arenaria è una (rara) narrazione del paesaggio. Racconta di una collina, pochi chilometri quadrati, fra mare e pianura. Un micromondo dove gioia e rabbia, fatica e speranza convivono. All’apparenza storie minime, dimenticabili, ma che viste con lo sguardo prodigioso dell’autore diventano un universo. D’arenaria.
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António Lobo Antunes, Lo splendore del Portogallo, 407 pagine, Feltrinelli, 2019, traduzione di Rita Desti
Non è affatto un libro semplice Lo splendore del Portogallo. È, a ben vedere, una sucessione di quattro voci monologanti, neppure ordinata, nel tempo e nello spazio. Quattro confessioni, flussi di coscienza, lavacri dell’anima. Antònio Lobo Antunes scombina la consecutio, il filo narrativo, la stessa punteggiatura. Per raccontarci cosa? L’intima sconfitta esistenziale di una vecchia madre e dei suoi tre figli, due maschi e una femmina. Ciò che resta di una famiglia di ricchi possidenti portoghesi in Angola e della loro vita oggi meschina, negletta, piena di false nostalgie per un’Africa dove erano trattati come esseri superiori, capaci di decidere la vita o la morte di un “negro” anche per un solo capriccio.
Questo romanzo, da leggere ad alta voce, per ammirarne la musicalità, già pronto a una trasposizione teatrale, è a conti fatti la dichiarazione di sconfitta, l’accusa cocente della coscienza critica di un intellettuale nei confronti dell’imperialismo colonialista occidentale e nello specifico portoghese. La vita sopra le righe dei possidenti europei, all’apparenza così profondamente timorati di Dio, poteva esistere grazie al sopruso, alla violenza, al profondo e radicato razzismo che giustificava ogni efferatezza. I quattro protagonisti, sconfitti dalla Storia e dalla vita, rammemorano il passato in un flusso continuo e indistinto di frammenti spesso incoerenti che durante l’appassionante, per quanto difficoltosa, lettura sembrano organizzarsi nel caos in un disegno unitario: la madre Isilde, moglie frustrata di un ingegnere dedito all’alcol, la figlia Clarissa, considerata dalla comunità dei benpensanti una sgualdrina, Carlos, il figlio illegittimo e meticcio, Rui, affetto da epilessia fin da bambino. Figure tragiche, simulacri perfetti di un’epoca tragica.
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Arno Camenisch, Ultima neve, 104 pagine, Keller editore, 2019, traduzione di Roberta Gado
Se il vecchio skilift non s’è ancora bloccato, uno dei più vecchi dei Grigioni, è grazie alla solerzia di Paul e Georg, che lo curano, lo mantengono, lo mettono in moto ad ogni stagione sciistica. Se poi qualcuno da lassù, molto in alto, volesse dare una mano ai due amici sarebbe meglio. Sono troppi inverni ormai che la neve si fa sempre più rara. Ma almeno la seggiovia funziona, così la gente di pianura saprà che la pista non è chiusa, che la volontà non manca, che insomma i due amici non demordono.
Solo che, dato ordine alla postazione, fatta manutenzione al tetto, catalogato i biglietti per età e sconti, cos’altro devono fare Georg e Paul tutto il giorno, mentra attendono senza posa l’arrivo di un qualsivoglia cliente? Così, fra giornate troppo assolate, rare spruzzate di neve, qualche banco di nebbia e qualche bicchiere di grappa, non resta che ricordare: ciò che era il ghiacciaio soltanto una generazione fa, oppure le leggende di chi ha avuto due funerali, o di chi scomparve per sempre. Vite di uomini, donne, di un paese, di una valle e di una lingua, il romancio, che viene parlato sempre meno.
Arno Camenisch in questo suo agile romanzo, Ultima neve, racconta cos’è la montagna, luogo dell’anima per eccellenza della letteratura svizzera, nel momento epocale del cambiamento climatico. Lo fa poeticamente, in un flusso ininterrotto di coscienza dei due interlocutori, con un testo all’apparenza discorsivo, mai enfatico, ma in realtà denso, colto, teatrale. Paul e Georg ingannano il tempo e il tempo (cronologico e atmosferico) inganna loro. In attesa dell’ultima neve, pazienti e rassegnati, non rimane loro che diventare, alternativamente, l’uno la Sharahzad dell’altro. E insieme, giorno dopo giorno, i due novelli Vladimiro ed Estragone contemporanei.
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(recensioni pubblicate su vari numeri della rivista Cooperazione durante il 2019)