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Raccontare in forma di passage. Appunti sul Manifesto incerto di Frédéric Pajak: “una sorta di letteratura”

di Lucia Cariati

Il secondo volume di Manifesto incerto di Frédéric Pajak è stato da poco pubblicato da L’Orma editore. Vincitore del Premio di Saggistica “Città delle Rose” 2021 (e ancor prima di riconoscimenti quali il Gran Premio svizzero di letteratura 2021, il Prix Goncourt 2019 per la biografia e il Prix Médicis 2014 per la saggistica). Il libro riprende e porta avanti la vicenda umana, storica e intellettuale di Walter Benjamin già avviata con il primo volume, attraversando poliedricamente diversi generi letterari, dalla (auto)biografia, al saggio grafico alla poesia ma senza coincidere con nessuno di essi in particolare, aprendo il lettore a uno sguardo inedito su autori e luoghi noti e, soprattutto, alla possibilità di una narrazione rinata.

 

Theodor Adorno nel suo profilo di Walter Benjamin, e a proposito di quello che a suo avviso sarebbe stato il suo nucleo filosofico nascosto (che il pensatore francofortese rintracciava nel mito e nella cabala), scrisse che l’amico ‹‹non giocava quasi mai a carte scoperte›› (T. W. Adorno, 1972). La stessa considerazione potrebbe valere per Frédéric Pajak. Infatti è sin dalla primissima soglia del testo che Manifesto incerto ‘nasconde’, destabilizzando il lettore. Il titolo è, a ben vedere, un’espressione ossimorica: ciò che è (o dovrebbe essere) ‘manifesto’ è qui preliminarmente connotato come ‘incerto’. Perché?

L’opera di Pajak, pubblicata per la prima volta in Francia nel 2014 – e ora finalmente tradotta in italiano da Nicolò Petruzzella per L’Orma editore – è un’architettura narrativa complessa che intreccia l’autobiografia (dell’autore) con la biografia (di Walter Benjamin, ricostruita attraverso materiale epistolario, frammenti, opere edite e ritrovamenti postumi) e il saggio critico, l’esposizione alla poesia, sul doppio binario della scrittura testuale e grafica. Siamo di fronte a un (anti)romanzo nel tempo dell’ipermodernità che si dipana al modo del taccuino dove confluiscono diverse suggestioni: le immagini osservate, esattamente come durante un viaggio, ispirano pensieri che trapassano dal ricordo privato alla ripresa di concetti teorici, dalla storia letteraria a quella sociale. I disegni a china, inoltre, non si limitano a illustrare semplicemente il testo ma seguono un percorso spesso autonomo sebbene riferito a quello scritto. Per queste ragioni ha già visto accreditarsi una ricezione spuria, tra memoir e saggio critico, tra graphic essay e scrittura lirica. Tentato da un continuo travestimento di genere, si ‘nasconde’ in un  pastiche narrativo. Ma c’è anche altro.

Il libro sognato da Pajak a soli dieci anni (‹‹fatto di parole e immagini››, come forse inevitabilmente si concepisce la narrazione nell’infanzia), abbozzato e poi distrutto nuovamente a sedici – per divenire, da increato, progetto di una vita – questo libro ‹‹muore ogni giorno››, ci confida l’autore  nella Premessa al primo volume dell’opera pubblicato in Italia nel 2020 (Manifesto incerto. Con Walter Benjamin, sognatore sprofondato nel paesaggio, L’Orma, 2020, pp. 192).

Il Manifesto è incerto dunque per via della sua nascita singhiozzante, fatta di abbozzi e cancellazioni repentine. Sarà nel corso di uno degli svariati mestieri intrapresi dall’autore ventenne, cuccettista sui vagoni letto di un treno, che il libro tornerà a farsi strada, dopo una notte della prima metà degli anni Settanta trascorsa a parlare con un passeggero in preda all’insonnia. ‘Manifesto incerto’, in questo caso, sarebbe un sostantivo con aggettivo a indicare l’opera stessa, alludendo alla sua nascita per singulti, ma potrebbe anche essere una forma verbale dichiarativa in prima persona, con l’aggettivo in forma avverbiale (‘Io manifesto incerto’). L’incertezza dunque connota da subito l’oggetto con cui entra in relazione il lettore, ma forse anche la disposizione del suo autore. Allo stesso tempo è una condizione introduttiva ovvero una postura liminare necessaria quasi propedeutica al lettore per ‘sprofondare’, a sua volta, nel ‘paesaggio’ fisico e interiore attraversato dal protagonista. Ma è anche la cifra di una proposta narrativa in evidente collisione con i proclami ideologici acclarati e certissimi degli anni tetragoni in cui è stato concepito, prima che andassero a spegnersi nei rivoli privati e sfilacciati del cosiddetto riflusso.

La parola ‘manifesto’ alberga però in una zona storica più remota, tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento, secolo letteralmente scritto sui manifesti: da quelli propagandistici a quelli programmatici, dalle chiamate alle armi o al ripopolamento delle nazioni agli inviti all’organizzazione politica delle classi sociali oppresse, in uno scorrere di testi dalle diverse asserzioni e destinazioni, passando da manifesti della razza a (anti)manifesti dada, surrealisti o futuristi. E Walter Benjamin, protagonista dei primi due dei nove volumi che costituiscono il progetto grafico e narrativo di Pajak, è di questa storia (la storia della modernità, delle masse e di nuove forme di comunicazione ad esse destinate) una delle voci che più la rappresenta pur nella sua erratica divergenza.

Proprio alcuni manifesti scandiscono uno snodo temporale decisivo nel primo volume (p.141). Siamo nel 1933, a Berlino. Nel mese di aprile Benjamin, ‹‹in fuga dalla crescente ostilità del regime nazista››, torna per la seconda volta sull’isola di Ibiza (dove era già stato nel 1925) mentre, di lì a un mese, sullo scenario di Opernplatz (oggi Bebelplatz) sarà allestito un rogo con libri trafugati da biblioteche pubbliche, tra i quali anche quelli di Benjamin: libri in lingua tedesca scritti da un ebreo. La sequenza narrativa è sigillata dalla rievocazione delle parole riportate sui manifesti in quella nefasta occasione, così apprendiamo che ‹‹Sui manifesti stampati in caratteri gotici rossi si legge: “L’ebreo può pensare solo in quanto ebreo. Se scrive in tedesco, mente”››. L’illustrazione a china che precede il testo raffigura dei militari delle SA e due civili con addosso dei cartelloni denigratori (specie di manifesti, a loro volta).

Pajak non ci racconta la loro storia, ma si limita a ritrarre quella scena all’epoca immortalata in una foto – è anche così che Manifesto incerto allarga il suo scenario di figurae minori che lo attraversano, oltre i tanti personaggi coprotagonisti presenti. Da lettori si è perciò spinti a ricercare, a mettersi sulle tracce variamente disseminate nel libro, così possiamo scoprire che la foto originaria utilizzata come modello del disegno proviene dall’archivio Halton di Cuxhaven e risale al 27 luglio 1933. Oggetto di quello scatto sono un uomo d’affari ebreo, Oskar Danker, e la sua supposta amante ‘ariana’, Adele, messi al bando e condotti così per strada come modelli da non imitare. In questo caso, come nella gran parte delle pagine di Manifesto incerto, l’illustrazione non è didascalica rispetto al testo e innestandosi nella trama, sebbene su un nastro narrativo parallelo, genera un terzo luogo di senso. Le parole che furono appese a Oskar Danken recitavano: ‹‹Sono un giovane ebreo e porto sempre e solo ragazze tedesche nella mia camera da letto!››; quelle riferite ad Adele, invece, dicevano: ‹‹Sono degna del più grande porco e me la faccio solo con ebrei!››.

Pajak dunque, mentre ci racconta del rogo dei libri a Berlino non lo illustra, facendoci osservare invece il disegno delle vittime di una gogna pubblica tratto da una foto scattata altrove, mentre accade altro. È il montaggio dei due elementi a generare il terzo orizzonte di significato, per capirlo dobbiamo scorrere nuovamente le citazioni riportate sulla pagina. Il testo scritto riferisce di manifesti che affermano che l’ebreo, ‹‹se scrive in tedesco, mente››; il disegno a china ritrae degli autodafé imposti dal potere politico, ma sabotati dalla stessa premessa ideologica perché le frasi ingiuriose affisse su Danker e Adele sono scritte in tedesco dunque sono necessariamente false.

Si tratta di manifesti perentori che incrinano a vicenda il proprio statuto epistemologico ovvero  che con la loro tronfia certezza perdono la possibilità di accedere alla verità. L’osservazione critica che invece permette di intuire il vero si dà tutta nel cortocircuito scaturito da questo montaggio, esito di una esposizione testuale asciutta, quasi elencatoria, sulla quale si innesta la trasposizione grafica di una fonte storica fotografica. Alla pari delle citazioni testuali contenute nel libro ma non sempre esplicitamente dichiarate (provenienti da materiale saggistico o autobiografico), questa illustrazione costituisce a sua volta una citazione grafica in incognito – nella Premessa, Pajak prepara il lettore alla sua poetica citando Benjamin: ‹‹Le citazioni, nel mio lavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante››. Il lettore del Manifesto potrebbe felicemente restare un ‹‹ozioso viandante›› che, però, il cortocircuito tra linguaggio scritto e linguaggio grafico mira sottilmente a smuovere. Il libro infatti nasconde svariate citazioni infrattate e illuminate, allo stesso tempo, dalla predazione dell’autore. In generale, i riferimenti metatestuali, impliciti o espliciti, sono svariati e il lettore può scegliere di mettersi sulle tracce di questi riscoprendoli, iniziando così un proprio ulteriore viaggio antilineare.

La direzione narrativa di Pajak – direzione ad espansione continuamente rizomatica ed ellittica – si riconnette alla forma antisistematica con cui Benjamin aveva pensato il Passagen-Werk (ma si pensi anche alla struttura aforistica di Strada a senso unico, per esempio): ‹‹Questo lavoro deve sviluppare al massimo grado l’arte di citare senza virgolette. La sua teoria è intimamente connessa a quella del montaggio››, ci dice l’autore.  Una necessità narrativa, dunque, in cui fosse necessario ‹‹adottare nella storia il principio del montaggio. Erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi, ritagliati con nettezza e precisione. Scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo momento singolo, il cristallo dell’accadere totale››.

Manifesto incerto, sulle tracce di Benjamin, finisce col raccogliere una molteplicità di storie, note o anonime. La deriva narrativa verso elementi minori è affidata anche all’uso delle immagini, siano esse rievocate dal ricorso a una parola visiva o direttamente disegnate. Pajak, in sintesi, sceglie di raccontarci Benjamin attraverso il suo stesso dispositivo narrativo, il Denkbild ovvero l’immagine-pensiero, luogo di fusione dialettica tra eidos e logos, cellula di più ampie costruzioni discorsive o narrative (come accade in Infanzia Berlinese, per esempio) espansa attraverso la tecnica del montaggio di matrice surrealista (che già E. Bloch, nel 1928, aveva definito come ‹‹l’associazione del lontano con il vicino più prossimo, di miti in incubazione con la quotidianità più esatta››).

Il libro sembra, in questo senso, un’altra delle ramificazioni dei Passages, di quel ‹‹torso incompiuto›› di storia culturale di metà Ottocento (Eiland-Jennings, 2015) e in generale della variegata produzione di Benjamin, continuamente oscillante tra le forme del saggio culturale, della narrativa e dell’autobiografia. Rinuncia cioè a uno statuto di genere codificato, finendo per raccoglierle tutte in una sintesi che intreccia il rapporto di viaggio – a partire dalle rotte attraversate da Benjamin sulla nave Catania nel 1925 e nel 1932 – al racconto memoriale privato e che, a voler giocare con le definizioni, potremmo chiamare memoirtage (memoire e reportage) scritto e disegnato (Pajak rifiuta categoricamente l’etichetta di graphic novel o di libro illustrato) di un artista viandante a proposito di un pensatore errante.

Allo stesso modo, Pajak ci racconta di aver realizzato sui taccuini preparatori al Manifesto dei palinsesti fatti di appunti, immagini, glosse, dettagli ricopiati da foto, fantasie o paesaggi reali. Un archivio di immagini – come ci riferisce nella Premessa – abitate da un sentimento confuso. Animate da una frenesia intermittente e frammentata sono anche le parole buttate giù inizialmente in forma di appunti trascritti disordinatamente, che ‹‹si attaccano a nuovi disegni e insieme generano frammenti nati chissà dove, fatti di parole prese a prestito e mai restituite››.

I testi, le parole, i ritratti sono come territori abitati a tempo, sui quali approdare e dai quali prontamente salpare, esattamente alla maniera di un esule che abbia perso di vista una concreta possibilità del ritorno, o meglio che abbia sostituito quella necessità con il viaggio stesso. Ed è con gli occhi di un esule che Pajak guarda e racconta o anche soltanto allude ad altri esuli: oltre Benjamin, incontriamo Beckett, Van Gogh, Mondrian, Joyce, ma anche un quasi sconosciuto Raoul Alexandre Villain, rifugiatosi sull’isola di Ibiza dopo aver ucciso, alla vigilia della Grande Guerra, il leader socialista Jean Jaurès e detto ‹‹il pazzo del porto›› per via di alcune sue visioni mistiche (nel secondo volume compariranno André Breton, con il suo amore per Nadja, Hanna Arendt, Bertold Brecht e molti altri).

Tutte le vicende narrate sembrano dettate da traiettorie di fuga: si fugge dal cuore di una Europa sempre più nera alla vigilia della seconda guerra mondiale, ma in alcuni casi si fugge anche dallo stesso rifugio ibizenco. È quello che faranno, per esempio, la pittrice olandese Toet Blaupot ten Cate, amatissima da Benjamin (la quale abbandonerà l’isola dopo la loro storia d’amore appassionata ma fugace) e lo scrittore amico Jean Selz.

Benjamin e Selz si erano conosciuti nel 1932, a Ibiza. Il rapporto tra i due si interromperà bruscamente, sfumando in un ultimo incontro a Parigi nel 1934, dopo aver esplorato assieme territori reali e oppiacei. Delle ragioni di questa rottura Benjamin non parlerà mai esplicitamente, alludendo solo a vaghi ‹‹motivi pittoreschi›› probabilmente intervenuti nel corso di una notte smisuratamente ubriaca. Anche in questo caso, mentre il testo narra l’oscura vicenda dell’allontanamento tra i due, la parte grafica introduce un terzo personaggio ricorrendo sempre alla tecnica del montaggio di un’immagine non didascalica (p. 166). Il disegno a china è un inserto grafico extradiegetico, trattandosi della sagoma di un personaggio ignoto, e non è immediatamente chiara al lettore la ragione di questo richiamo. L’intera narrazione grafica del libro è ricca di presenze non identificate, periferiche, che concorrono a realizzare una dimensione corale e allo stesso tempo evocativa, quasi mitologica. Un’umanità molteplice e spesso anonima abita il dominio visivo, esattamente a riprodurre l’oggetto dello sguardo di un viandante al quale accada di osservare e posare l’attenzione su particolari apparentemente insignificanti o su volti sconosciuti. Ma volendo cercare di comprendere una possibile genealogia della rappresentazione, il lettore-ricercatore potrebbe risalire ad una foto del 1933 nella quale compaiono Jean Selz, Walter Benjamin, Paul Gauguin (nipote del celebre pittore) in barca accompagnati da un pescatore: Tomàs Varò, l’uomo con il cappello e il volto oscurato finito nel disegno a china e mai nominato. È lui, comprendiamo solo dopo questa ricerca, che si chiede a un certo punto che cosa sia successo tra i due amici la notte in cui, al bar Migjorn, Benjamin collassa ubriaco dopo aver accettato una sfida alcolica con una donna polacca.

(J.Selz, P. Gauguin, W. Benjamin e il marinaio Tomàs Varò – Baia di S. Antonio, Ibiza, 1933)

Esiste un legame possibile tra l’esistenza e le forme di scrittura? É forse la scrittura il tracciato di un approccio alla vita, ai luoghi stessi in cui abitarla o disabitarla? Pajak sembra dirci di sì.

Il primo volume del Manifesto incerto è fondamentalmente un libro sul viaggio ed è scritto con lo sguardo di un viandante più vicino alla frenesia dell’esule che all’ozio del flâneur. Man mano che il testo procede, si chiarisce la ragione interna: parlare di Benjamin à la Benjamin ovvero privilegiare, rispetto allo sguardo del romanziere, quello del narratore, di chi cioè racconta a partire dalla parola viva trasformando l’esperienza soggettiva in luogo archetipico, in un certo senso, eppure sempre diverso (il viaggio che qui prende forma non è che questo, da sempre). Narrare è come viaggiare perché la conclusione, se c’è, non è l’elemento focale. Il viaggio, quella grande sovrastorica metafora della vita, è il presupposto stesso del racconto: è nello spazio di una traversata, immaginiamo pure quella della nave Catania dove Benjamin si imbarcherà più di una volta, che le persone si narrano. Lo spazio di non appartenenza che si costituisce in mare – quel non essere più nel luogo di partenza, ma nemmeno ancora in quello di destinazione – è quello in cui riscoprire il tempo del racconto. Il viaggio lungo (non il mero spostamento dove l’identità non si scompone), come il viaggio per mare, ha direttamente a che fare con la memoria (la Gedächtnis benjaminiana). È il movimento che si fa luogo e dà luogo ai ricordi in quanto esperienza (Erfahrung che – sorprendente coincidenza – deriva dal tedesco antico irfaran, che significa ‘viaggiare’, ‘uscire’, ‘traversare’ e anche ‘vagare’), la vita accumulata inconsapevolmente poi richiamata dalla mémoire involontaire proustiana.

Se il primo volume di Manifesto incerto si compone prevalentemente intorno ai viaggi in mare di Benjamin, da Berlino a Ibiza, il secondo (Manifesto incerto. Sotto il cielo di Parigi con Nadja, Andrè Breton, Walter Benjamin, L’Orma, 2021, pp. 224) è centrato sulla sua fuga a Parigi (e all’inesausto  percorrerla) introdotta  dall’ente meccanico che più ha rappresentato la modernità del capitalismo urbano: il treno con la ferrovia: ‹‹Parigi inizia sempre da una stazione›› (e in Parigi capitale del XX secolo Benjamin osserva come l’integrazione del ferro nell’architettura urbana sia stato impiegato essenzialmente nella realizzazione a scopo di transito). Nel vortice dell’ibridazione di generi che compone il libro, questa volta entrano anche la storia urbanistica, la storiografia e la composizione in versi, propria o citata: Manifesto incerto diviene così sempre più un organismo letterario multiforme che fa dello sconfinamento la sua cifra poetica.

Nel titolo del secondo volume la parola ‘paesaggio’ è assente, ma il cuore delle vicende narrate è il paesaggio urbano, luogo esposto alle trasformazioni incessanti operate dall’uomo, oltre che alle erosioni del tempo, frutto di una precisa storia sociale dipanata nel corso dell’ottonovecento. Parigi, qui, è ben più che un semplice scenario: divenuta personaggio, ne seguiamo quasi le reazioni alla vicenda del protagonista, le sue risposte ai tentativi di lui di abitarla resistendo alla tentazione di fuggirla continuamente, provato dagli stenti o dalle non appartenenze ai gruppi intellettuali di riferimento. Non tutti gli amori sono generosi di reciprocità e così Benjamin si lega a Parigi senza esserne ricambiato. La città sembra a tratti respingente, quando non indifferente, alla sua vicenda umana e intellettuale tanto che la sua richiesta di cittadinanza avanzata nel 1938 non otterrà mai una risposta.

Se la narrazione grafica nel primo volume presenta soprattutto scorci di un tempo passato, privato o collettivo, secondo il montaggio détour che abbiamo osservato, la rappresentazione a china del secondo traduce invece la ripresa in soggettiva di un viandante, questa volta personaggio più flâneur che profugo. Le immagini, di volta in volta, fissano volti e fisionomie perse per le strade, sempre colte nel gesto di un attraversamento, spesso incuriosite dallo sguardo ricevuto al quale scelgono di rispondere con un’occhiata distratta o diffidente, quando non con un sorriso (‹‹A Parigi, come in tutte le grandi città, gli esseri umani sono costretti a guardarsi. Non ad ascoltarsi, ma a guardarsi, osservarsi, fissarsi››). Sono gli sguardi per le strade di una Parigi contemporanea, dove Pajak ricerca quella novecentesca esattamente come Benjamin vi aveva cercato la sua traccia ottocentesca. Parigi è come un organismo che cambia pelle, trasformandosi continuamente (‹‹La distruzione di Parigi non è uno scopo, è un’attività. Parigi, non è stata distrutta una volta per tutte perché la sua distruzione è ancora in corso. E tutto ciò che viene distrutto è subito ricostruito, e tutto ciò che viene ricostruito sarà distrutto prima o poi››), ma non è impossibile nelle strade contemporanee ritrovare resti della architettura moderna che ‹‹muore proliferando››. Questo libro di poesia e indagine ci porta anche nel cuore metamorfico della esuviazione dei luoghi, prima ancora che delle vicende umane.

Affratellati a Benjamin nell’erranza, André Breton e Nadja, personaggi tra gli altri, figurano nel sottotitolo di questo nuovo volume. Quando, nel pomeriggio del 4 ottobre 1926, Breton conosce Nadja le chiederà chi sia e la ragazza gli risponderà: ‹‹Sono l’anima errante››. A Nadja, di cui si innamorò, dedicò un libro fatto di parole e ritratti, disegni e immagini di Parigi città surrealista, città-inconscio per le cui strade lanciarsi a esperire il meraviglioso del quotidiano. Breton è stato  l’artista delle visite dadaiste prima e delle deambulazioni surrealiste poi alla luce delle quali, per esempio, place Dauphine si era rivelata essere ‹‹il sesso di Parigi›› per la sua conformazione triangolare e alberata. Più che l’immagine ipnotica, Benjamin cerca nella città, trovandolo, il paesaggio esattamente alla maniera del flâneur (‹‹Paesaggio, questo diventa la città per il flâneur›› – scrive nel Passagen-Werk), mentre per Pajak essa è luogo linguistico, luogo che è parola, da cui far ripartire il racconto memoriale attivato da un senso di mancanza. Viaggiare, camminare, esplorare – e raccontare – sono un andare per luoghi alla ricerca di ciò che manca: che manca allo sguardo meccanico e frenetico della quotidianità o allo sguardo dominante. Come Torino ne L’immensa solitudine (pubblicato in Francia nel 1999 e in Italia nel 2004) aveva raccolto e restituito le storie di Cesare Pavese e Friedrich Nietzsche in una chiave di ‹‹lunga fantasticheria›› (al di fuori, cioè, di una restituzione strettamente biografica o teorica), così Parigi qui racconta di Benjamin e André e Nadja e Brecht, ma anche dei tanti altri anonimi che, se non nominati, sono intravisti nei vari passages che serpeggiano sopra e sotto la città come a costituire un sistema venoso urbano.

Opera formalmente ibrida e plurima, dunque, questa del Manifesto incerto, ma anche narrazione di molteplici esistenze. I primi due volumi incrociano quelle dell’autore e del filosofo tedesco secondo criteri di simmetrie o inversioni. Così, se nel primo volume è l’infanzia di Pajak che preliminarmente ci sottrae all’urgenza del presente, riconducendoci in quella soglia temporale indefinita dove i contorni del racconto sfumano eppure allo stesso tempo prorompono, nel secondo sarà il Benjamin bambino ‘storto’ e maldestro a suggerirci come, infondo, successivamente egli ‹‹non guarirà mai dalla propria infanzia›› (e testimonianza ne sono le riflessioni ad essa dedicate in più luoghi, da Angelus Novus agli scritti raccolti in Ombre corte e Figure dell’infanzia, solo per citarne alcune).

Allo stesso tempo, se nel primo volume si alterna il racconto delle rispettive vicende personali immerse nel flusso carsico della storia sociale, nel secondo si intrecciano soprattutto i luoghi: siamo continuamente sbalzati dalla Parigi del Novecento alla Parigi contemporanea, dalla Berlino degli anni Trenta alla Berlino del 2013. La Venezia del presente, da dove parte il viaggio per Parigi di Pajak e con le immagini della quale si apre il libro, è luogo malinconico per eccellenza che predispone l’autore al racconto della Parigi del Novecento (ma anche della stessa sua Parigi) che era a sua volta osservata da Benjamin per indagare quella dell’Ottocento permettendo, nel confronto, di portare a galla un interrogativo attuale e necessario ovvero in che cosa consista la differenza tra l’essere viaggiatori e visitatori, differenza evidentemente segnata dalla modernità del capitalismo. ‹‹Viaggiatori non lo saremo più››, sentenzia amaramente Pajak. Ciò che non dice – sotteso come una consapevolezza troppo dolorosa e impronunciabile – è che la turistificazione di massa ha sottratto i luoghi agli sguardi possibili, avendoli ricondotti a esibizioni cosmetiche.

Manifesto incerto è letteratura che prova a rigenerare lo sguardo prima ancora della parola, facendo del viaggio la sua struttura poetica (libro in viaggio più che di viaggio): laddove la cosmetica dei luoghi conferma aspettative, qui si cerca di disattenderle attraverso l’immagine détourné e la discontinuità della narrazione frammentata. Per questo, ad esempio, quando si raccontano gli anni della militanza civile e del Fronte Popolare, non troviamo alcuna immagine che li rappresentino bensì illustrazioni di boscaglia e sentieri tra piante selvatiche. Quali suggestioni mira ad evocare Pajak? Anche in questo caso, non si tratta di semplici suggestioni liriche, bensì di un innesto che genera un terzo possibile significato come se, a un tratto, le immagini a china procedano autonomamente alla maniera di una macchina da presa in soggettiva. Quella radura potrebbe essere il paesaggio sotto gli occhi di chi si stia allontanando da un luogo urbano (un’altra possibile fuga dunque), infatti accompagnano il testo che riporta le riflessioni polemiche di Benjamin su Leon Blum e all’altezza di un’altra sua citazione (il Manifesto è libro di citazioni, ci ha allertati Pajak nella Premessa) tratta dalle tesi Sul concetto di storia in cui il filosofo tedesco si identifica con i monaci in quanto a sprezzo delle faccende terrene, accusando i politici antifascisti di aver tradito la causa. Ma le sequenze grafiche sulla radura incontaminata ci permettono anche, da lettori, di affrancarci dalle riproduzioni visive consolidate, da una certa saturazione dell’immaginario storico, per accendere una nuova immaginazione di quegli eventi; ci offrono cioè l’occasione di dare spazio – e ascolto – alla loro nuova narrazione, a un modo più laterale di pensarli.

È dalla rigenerazione dello sguardo che può emergere una parola nuova attraverso cui fare strada alla narrazione oggi, nel pieno di una sovrabbondanza di informazione e di visualizzazione. La rizomatica andatura del libro di Pajak sottende due coppie antinomiche in una contrapposizione dialettica novecentesca: informazione versus narrazione e attualità versus storia. La parola che narra, cioè, è anche parola capace di fare storia, di rendere giustizia ad essa: ‹‹Il linguaggio che si oppone alla barbarie deve discostarsi dal linguaggio della barbarie, e cioè quella della propaganda. La salvezza del mondo passa per la salvezza del linguaggio›› infatti ‹‹Benjamin resiste alle sirene dell’attualità e resta fedele al proprio mandato di sentinella della Storia sommersa››.

Rigenerare la parola oggi significa, secondo Pajak che guarda e ci narra Benjamin, riattivare il circuito del narrare. Il racconto frammentato ed ellittico è il pentagramma desultorio della narrazione, di quella azione – per dirla con il Benjamin del Narratore – che ‹‹passa di bocca in bocca››. Solo chi sia ancora capace di viaggio è portatore di narrazione, ovvero di quel racconto che si genera dall’esperienza.

Se la tendenza letteraria dominante consiste in un movimento che riconduce all’unità di autobiografia e immaginazione, autore e io narrante, Pajak con quelli che ha definito i suoi ‹‹racconti scritti e disegnati›› intraprende una direzione contraria. Con i continui decentramenti di personaggi e di genere (che non un’autocompiaciuta voce narrante racconta, bensì una quasi ossificata presenza che riferisce in prima e terza persona di sé e degli altri) ci sembra che voglia proporci, più che un’esperienza di assimilazione identitaria con quanto leggiamo, una occasione di fuoriuscita, di dispersione, facendo di ogni racconto un passage tra noi e il mondo che sotto gli occhi si squaderna con un andamento frequentemente spirale ed ellittico.

Ellissi, intermittenze, deviazioni e corrispondenze cercate o mancate. Tra un libro e l’altro è possibile ritrovare dei richiami. Così, per esempio, quando verso la conclusione del secondo volume apprendiamo della preoccupazione di Benjamin alla notizia dello scoppio della guerra civile spagnola che raggiunge l’isola di Ibiza, l’immagine (p. 200) che ritorna e illumina a ritroso è scelta ancora una volta senza una diretta corrispondenza didascalica essendo esattamente quella realizzata sulla base della foto databile almeno tre anni prima, che ritraeva Benjamin, Selz e il nipote di Gauguin con il marinaio oscurato in volto, solo rievocata nel primo volume (attraverso il ritratto del solo marinaio) con il quale quest’ultimo si riconnette come in una spirale memoriale. C’è però una variazione significativa in questa riproduzione di Pajak che diviene un’immagine-ricordo rielaborata alla luce del presente diegetico, à rebours: Benjamin, qui, è ridotto completamente a un’ombra, quasi che l’oscurità si sia estesa – come una nube in transito – dal marinaio a lui, contagiandolo. Oscurità del sentimento, nefasto presagio.

Nel secondo volume di Manifesto incerto i contorni del viaggiatore, del flâneur e del vagabondo spesso si dissolvono confondendosi. Benjamin fugge da Berlino e approda a Parigi da esule, qui vive quasi come fosse un viaggiatore, ma si trova spesso a fuggire dai suoi creditori finendo col ‹‹vagabondare›› per la città alla ricerca di letti di fortuna così come, non potendosi permettere di acquistare libri, finisce col ‹‹rovistare›› nella sala lettura della Biblioteca Nazionale. Egli è, da un punto di vista prassico e semantico, anche un vagabondo. E, mentre leggiamo, ci scorrono sotto gli occhi le immagini di clochard assiepati negli angoli di una Parigi contemporanea e di cani randagi i quali, forse, più che al suo nomadismo rimandano a quello dei parigini, categoria sociale sempre più meticciata (‹‹Escluso non solo dal mondo della letteratura, ma anche dalla vita cittadina in senso lato, Benjamin finisce per fraintendere, perlomeno nei suoi scritti, il carattere autentico dei parigini. Ma chi sono davvero?››).

 

In generale, al proletario eroico delle grandi narrazioni coeve, Benjamin contrappone il lumpen (sottoproletario), come anche il, flâneur, la puttana, il clochard; egli stesso si comporta come ‹‹il cenciaolo che alle prime luci dell’alba solleva col suo bastone gli stracci linguistici per gettarli nel suo carretto brontolando››. Infatti l’autore, ritornando allo stilema del saggio critico, sostiene che le citazioni per Benjamin sono la forma conferita agli ‹‹scarti di pensiero›› che, così, diventano il vero e nuovo centro propulsivo della riflessione che rinuncia all’architettura sistematica, si fa frammento per essere. Serve raccogliere stracci e rifiuti, sostiene Benjamin infatti, ma ‹‹non per farne un inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli››.

Pajak, allo stesso modo, raccoglie gli stracci – le esistenze ignote mancate allo sguardo di sempre come anche le parti di esistenze note ma taciute dalla storia ufficiale – facendone creature, destinandole a un’inedita creazione poetica. Ci restituisce un’opera letteraria con affluenti diversificati, come abbiamo visto, ‹‹una sorta di letteratura›› che è anche lavoro critico, fatta di stracci e poesia. Che ricusa i toni assertivi e perentori tornati a fare da battito percussivo della comunicazione al tempo dei social, tempo dominato dall’informazione che consuma e si consuma rapidamente a differenza della narrazione che, invece, richiede tempo per decantare passando di bocca in bocca, di parola in parola, di sguardo in sguardo. L’autore si fa viandante e parla, da viandante, di un esule ma per raccontarci anche molto altro. E così, navigando l’incertezza, unica zona esistenziale ed ermeneutica restata forse ancora sondabile, ci rammemora che siamo tutti un po’ apolidi. È dalla voragine dello spaesamento che è possibile osservare davvero il paesaggio e chi lo abita. Solo da questo territorio deterritorializzato possiamo farci a nostra volta esuli apprendendo una verità antica, la stessa che tanti secoli addietro aveva  indotto al pianto un esule del mito, Ulisse alla corte dei Feaci, ovvero che – sempre con le parole di Pajak – ‹‹è con lo sguardo degli altri che riusciamo a vederci meglio››.

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Addio addio, dottore mio

di Paola Ivaldi
Nel considerare, per un attimo, il processo di inarrestabile sgretolamento della Sanità pubblica, quella fondata nel lontano 1978 sui nobili principi di universalità, gratuità ed equità, senza avere più né la forza né la voglia né tanto meno la capacità di additare gli innumerevoli responsabili di tale sfacelo, inizio a giocare di immaginazione

La lettera

di Silvano Panella
Mi trovavo all'esterno di un locale improvvisato, tavolini sbilenchi sotto una pergola che non aveva mai sostenuto viti – non sarebbe stato possibile, faceva troppo caldo, davanti a me il deserto africano, l'aridità giungeva fin dentro i bicchieri, polverosi e arsi.

La sostanza degli arti mancanti

di Elena Nieddu
Il Ponte crollò mentre stavano costruendo la mia casa. In quel tempo, quasi ogni giorno, l’architetto e io andavamo a scegliere cose nei capannoni della valle, parallelepipedi prefabbricati, piatti e larghi, cresciuti negli anni lungo il greto del torrente, abbracciati da strade che nessuno si sarebbe mai sognato di percorrere a piedi.
davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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