La conversazione: Rossana Valle ( fu Anna Giuba )

a cura di

effeffe

 

 

 

 

Farsi un nome. Anna Giuba e Rossana Valle. Sorelle, amiche, separate dalla nascita, due nomi distinti di natura indistinta? Chi sono?

 Uno pseudonimo è una semplice maschera bianca e teatrale che s’indossa per essere liberi. Si può essere chiunque, qualunque personaggio. Anna per Anna Magnani e Giuba perché erano le sigarette di Montale. L’ho deciso nel 2009, all’uscita del primo romanzo, “Lettera scritta dagli occhi”. Ero libera e molto innamorata. Anna Giuba era consapevole del suo talento letterario, spavalda, sicura di sé come donna e come autrice, mentre io, Rossana, ero umilissima e sotterranea. Non si tratta di dissociazione, è un semplice travestimento che però, per undici anni ha funzionato. Ora Anna Giuba è qui, molte volte, grazie a te che hai sempre creduto anche in Rossana, Ora Anna Giuba è nell’armadio insieme ad altri scheletri.

Mai state sorelle, se mai antagoniste. Rossana come donna era uno zero, Anna camminava a testa alta, consapevole di ciò che produceva.

Mi racconti dell’atelier diretto dal tuo agente e che ti ha fatto tornare sui tuoi passi per riprenderti il nome?

Giovanni Lamanna (Gilam Agency), è un maieuta. Arrivavo da tre anni di cammino sulla strada della consapevolezza, lui e il suo corso mi hanno fatta rendere conto di quello che sono diventata. Ho voluto mettermi in un gioco totale che riguardava non solo lo stile o la tecnica, ma anche i contenuti., mettermi a confronto con lui e con gli altri, e Giovanni, con la sua cultura, l’umanità profonda e ironica, e la professionalità assoluta, una sera mi ha fatto avere un’illuminazione. Basta, mi sono detta, basta. Non ho più nulla di cui vergognarmi, neanche nelle capacità. Così Rossana ha messo via la maschera ingombrante, si è ritrovata sola e felice, serena nella solitudine letteraria, La vera scrittura è sempre sinonimo di solitudine, lo sai meglio di me. Giovanni mi ha donato uno sguardo nuovo. Anche nei confronti del mio “immenso archivio”, come hai detto tu nella recensione a “Ritratto di famiglia”, libro bruciato dal Covid.

Mi racconti del tuo doppio percorso formativo? Accademia delle belle arti, lettere?

MI fa male parlare di pittura, ferisce. Sì, per molti anni hanno convissuto, lei e la letteratura, ma per me la parola era sacra, intoccabile, e ho sofferto per 40 anni di bulimia bibliofila, dipingevo e leggevo, senza osare scrivere. Leggevo due libri a settimana, alcuni anche in una notte, soprattutto classici. Nel 1997 ho scritto una raccolta poetica. La pittura era la materia, l’immagine, la visione astratta, la letteratura e la Poesia sono della materia dei sogni, più impalpabili ma anche feroci nella loro verità. Era ciò che ho sempre cercato, la verità nelle cose, ed è quello che facciamo tutti. Forse anche quando dipingevo c’era la verità, ma non così profonda, almeno per me.

Mi parli dei ritratti di tua madre e tuo padre? C’è una grazia che supera la notevole tecnica con cui li hai eseguiti. Come è stato il passaggio da un’arte figurativa a un’altra molto più concettuale? Chi sono stati i tuoi maestri, accademici e assoluti? C’è un’opera classsica, contemporanea che riassume per te il senso dell’arte?

Ai miei sono legata da un cordone ombelicale assoluto, d’amore e di speranza, che neppure la morte ha potuto recidere. Quando si è figli, ma non si sono avuti figli, credo sia giusto che non ci si stacchi mai. La grazia che vedi nei quadri è amore, l’amore dell’isola di innocenza che ho mantenuto per tutti  questi 58 anni. Quello che mi ha fatto scrivere “Ritratto di famiglia”. Il passaggio dal figurativo all’astratto, dalla materia alle parole, è un cammino lungo ma naturale. Viene da sé, è una ricerca continua, come avere due miniere differenti da cui attingere argento vivo, ma poi una miniera si esaurisce, la ricerca svanisce e ti trovi solo, con le parole e basta. E lì ti scateni, vieni posseduto dalla Poesia, lei è la creazione, lei non perdona. Sei solo uno strumento ben accordato, per una voce, un pneuma, che vengono da un territorio indefinito. Tu lo sai bene.

I maestri? Nessuno di quelli dell’Accademia ha lasciato traccia, tranne Giacomo Soffiantino. I Maestri? Tanti, per finire con Rothko, Pollock e Burri. Dopo di loro, il baratro. Ci sono due opere che salverei dal pianeta in fiamme: Guernica e la Deposizione di Caravaggio. Per la letteratura sono talmente tanti che non posso enumerarli, ma il solo, unico amore immenso e sempre rinascente da sé, è Dostoevskij.

In un momento in cui il tuo lavoro d’artista veniva riconosciuto sei scomparsa. Niente più gallerie, mostre internazionali. Via da tutto e da tutti. Ti andrebbe di raccontare cosa è successo?

E’ una caratteristica, quella di deragliare quando raggiungo un obiettivo. Non so perché, succede e basta. Ricordo la mostra a Parigi  vicino agli Invalides, nell’arrondissement dei Ministeri, in Rue de Bourgogne. Stavo male alla vernice, ma lì mi aspettavano gli amici, e soprattutto, Bertrand, che amava i miei quadri e, dopo trent’anni, mi ha cercata e mi ha trovata. Voleva ringraziarmi perché nei trent’anni è diventato regista, e mi ha detto che è stato anche grazie a me, che gli avevo trasmesso il fuoco sacro per la pittura e i libri, e l’immagine. Non stavamo insieme, ma eravamo in simbiosi, Bertrand, parigino puro con un gran cespo di capelli ricci e neri e che sembrava un rom. E’ stato lui ad insegnarmi il francese e l’argot.

Di Parigi del resto ricordo poco, i due grandi amori norvegesi, che erano belli e selvaggi e naturali, anche nel fare l’amore. Poi, una sera di un novembre qualsiasi, fui caricata su un’auto di un neuropsichiatra parigino, perché ero in piena crisi euforica:
Arild, il norvegese numero due, era partito per Berlino per il dottorato in filosofia e mi aveva lasciata sola,e avevo rotto i ponti con la realtà, per la prima volta, a ventotto anni. Fui internata, ma il disturbo non mi lasciò più, è solo per questo che sono costretta a vivere a Torino. Arild, in seguito, divenne uno dei miei collezionisti più accaniti, ora mi ha anche proposto di tradurre in norvegese “Ritratto di famiglia”.

Poi c’è stato il matrimonio sbagliato, Arild era arrivato da Bergen per farmi da testimone al matrimonio. Sedici anni di miseria vera, quella che ti fa sbattere la testa contro il muro, quella che ti fa stare sveglio la notte perché i conti non tornano, e non è davvero possibile farli tornare. Ho fatto anche la badante, per sopravvivere, ho lavorato in otto call center. Ho fatto l’errore cieco di innamorarmi di un ultimo, non uno dei tuoi “Penultimi”, proprio un ultimo. E di rinunciare a tutto. Però avevo “la lingua salvata”, quella era mia, potevo plasmare le parole a mio assoluto piacimento, e l’ho fatto, da quando il processo di evoluzione, e non di involuzione, è cominciato. Così ho scoperto che riversando tutta la cultura nelle parole, con la fantasia e il talento che mi hai sempre riconosciuti, sono diventata quella che sono oggi.

Come hanno reagito i tuoi amici artisti, familiari a questa cosa?

Claudio Lolli cantava “vecchia piccola borghesia, la tua condanna peggiore è avere una figlia artista”. Attenzione, non un figlio, una figlia. L’hanno presa come l’ultima bizzarria di una povera scema piena di illusioni. Gli amici artisti, invece. Quando stavo smettendo di dipingere ho frequentato per due anni un gruppo di artisti concettuali molto importanti, gente da Biennale. Ero il fanalino di coda, con i quadri. Mi hanno incoraggiato con la scrittura, perché sapevano bene che avrei perso il treno, con la pittura. Ho fatto un’ultima installazione al Progetto Aut Aut, e insieme una lettura di racconti, questo è stato l’inizio dell'”immenso archivio” letterario. Nel 2009.

L’esordio in letteratura attraverso la poesia. Perché?

La poesia. Si fa presto a dire questa parola, troppo. Tutto, la perfezione della creazione, l’ego si rarefa e si smembra per diventare universale, quasi non esiste. E la senti, la senti e senti quella degli altri, quando è verità e bellezza, e il sangue in cui s’intinge il pennino. Ora è il culto dell’immagine, lo splatter totale, e l’immagine non basta, ci vuole ciò che scava contemporaneamente nell’anima e nella società, e nella storia. Credo sia veramente arrivato il crepuscolo dell’intimismo, e meno male. Lasciamolo a facebook.

Come vivi il rapporto tra arte e letteratura? Come ti senti artisticamente a Torino?

Da anni ormai faccio una sola cosa, scrivere. E’ giusto così, bisogna fare una cosa sola, e metterci il fuoco sacro, quello non manca. Torino è un cimitero culturale, ma per ragioni personali non posso trasferirmi altrove. Ho vissuto tre anni a Londra e tre a Parigi, oggi forse non avrei più l’energia necessaria per gettarmi in un’altra cultura. Ormai c’è una tale omologazione che una città vale un’altra. E poi avrei tanto bisogno di natura, non di metropoli.

Cosa desideri in cuor tuo?

Sono sola. E felice di esserlo. Lontana dalle ipocrisie, dalla competizione, dalla sopraffazione travestita da marketing dello spirito. Grazie, Francesco, per aver sempre avuto una fiducia così grande in me e nel mio talento.

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13 Commenti

  1. Bellissima confessione, pardon, intervista.
    Mi sembra chiaro che abbiamo una grande poetessa ma abbiamo perso una grande pittrice.

  2. Tuo padre era convinto delle tue capacità artistiche e si è dispiaciuto quando hai smesso di dipingere, anche se per la dolorosa situazione che si era creata tra di voi non voleva avere intorno tuoi quadri.

  3. Grazie, Giovanna, è vero. Spero che ciò che ho scritto per lui possa almeno essere una testimonianza d’amore.

  4. Ho conosciuto Anna Giuba, ho letto i suoi versi, ho ascoltato le sue parole, ne ho conosciuto onestà e coraggio.
    Ho letto le parole di Rossana Valle, ho scoperto cose che non sapevo o che non conoscevo così a fondo. Un’altra storia, nuovi sentieri da percorrere, pezzi di vita sconosciuti, ma
    l’onestà e il coraggio sono sempre lì.
    Grazie Rossana.
    Mirella

  5. Grazie Rossana, combattente e onesta fino in fondo. Conoscerti è un grande regalo della vita … Ti abbraccio forte Rosanna

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
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Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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