La cartoleria
di Andrea Tinterri
Sfioro i quaranta, sono dei gemelli e non ho mai letto un oroscopo in tutta la mia vita, non credo nelle cospirazioni stellari.
Alle otto di mattina, dal lunedì al sabato, alzo la saracinesca della mia cartoleria in via Mazzini, 27.
I flussi cambiano come le economie, la clientela si sposta e il quartiere si trasforma in zona residenziale, un luogo scomodo in cui fermarsi e comprare. Non è un buon segno vedere tutti i giorni le stesse facce, non c’è riciclo, o lavori con loro o chiudi. Un’attività di famiglia, mio padre ha acquistato l’immobile cinquant’anni fa. Non ho mai ceduto al commercio online e tengo aperto per i pochi clienti del seminato, per i due uffici di commercialisti che ancora si riforniscono da me, per gli studenti dell’Università popolare che bazzicano da queste parti. Quando si vendeva parecchio avevamo una vetrinetta con stilografiche da collezione, noi le chiamavamo così, anche se i prezzi erano piuttosto contenuti: lauree, compleanni, anniversari: un regalo elegante e terribilmente banale. Adesso sono disponibili solo su ordinazione, ho un catalogo cartaceo che posso mostrare, quattro giorni per la consegna. I miei genitori sono andati in pensione, fortunatamente hanno visto solo parte del declino, ma sospettano la catastrofe e non vengono mai a trovarmi in negozio, credo sia una forma di rispetto nei miei e nei loro confronti. Dovrei chiudere, è quello che mi ha suggerito il commercialista, le mura sono mie, potrei provare ad affittare il locale e cercarmi qualcos’altro. Per ora rimango qua, ho qualche risparmio che mi tutela per almeno cinque o sei anni e soprattutto non ho voglia di mettermi in gioco, buttarmi sulla piazza e spedire curriculum in attesa di una risposta. Sono tranquillo, sono sempre stato un attendista, anche quando facevo sport, osservavo le mosse dell’avversario e mi muovevo di conseguenza. E non significa evitare di decidere, ma aspettare un segnale dalle condizioni esterne, da tutto ciò che ti circonda. Il negozio mi consente di lamentarmi, di votare continuamente contro, di giustificare la mia poca vita sociale e di mangiare, ogni mercoledì a pranzo, nel ristorante cinese qua di fronte. Ha inaugurato due anni fa. L’ho riconosciuta dal primo giorno, una delle tre cameriere, quasi sicuramente la figlia dei proprietari. Dovrebbe avere ventiquattro o venticinque anni, ha un viso allungato e i denti un po’ sporgenti, occhi scuri ed estremamente magra, credo al limite della patologia. Durante i due anni di permanenza ha migliorato il suo italiano, ma di poco, non credo apprenda molto facilmente e non credo nemmeno abbia amici con cui esercitare la lingua. Quando arriva al tavolo sorride, chiede l’ordinazione e accenna un inchino prima di congedarsi. Un rituale sempre uguale, ormai mi conosce e il sorriso, nel tempo, sembra aver acquistato una maggiore partecipazione. Mi attira la sua riservatezza, la sua sottomissione, la sua prevedibilità. Contraccambio il sorriso, aspetto qualche istante prima di ordinare, pochi secondi in cui i nostri occhi si trovano. Trattengo l’imbarazzo e lei fa lo stesso: un meccanismo che continua da più di un anno. Pochi secondi in cui le posso dire tutto, restando muto. Non sempre sono pensieri gentili, gli innamorati dovrebbero parlare sinceramente senza preoccuparsi delle conseguenze. Lo scorso mercoledì mi ha sorriso, io pure, l’ho fissata per quattro secondi prima di ordinare degli involtini primavera, serviti con una colla gelatinosa tendente all’arancione. Quattro secondi di silenzio, il tempo della nostra conversazione, come se lei potesse ascoltare il mio pensiero, come se in quel lasso di tempo fosse me. Le ho confessato che mi eccitava, che avevo sognato di scoparla nel mio negozio, che la leccavo ovunque e che lei urlava senza preoccuparsi della gente che passava davanti alla vetrina. Non so perché avessi deciso il mercoledì, ma sono abbastanza abitudinario e ho mantenuto la scadenza settimanale, come se ci fosse un motivo utile o almeno accettabile. È un’anomala forma d’appuntamento, casto e taciturno. Il ristorante cinese aveva sostituito una ferramenta: Ferrari e figli. Non so se avessero immaginato di proliferare con più costanza, ma si erano fermati al primogenito che, a differenza mia, dopo la pensione dei genitori aveva venduto tutto al miglior offerente. I nuovi proprietari avevano sventrato lo spazio, l’insegna era stata sostituita con un led rosso e blu: aperti tutti i giorni. In tre mesi una ferramenta era diventata un ristorante a basso costo, rifornito di pesce e carne surgelata ogni lunedì della settimana. Con Carlo, si chiamava così il figlio dei proprietari della ferramenta, da bambini giocavamo insieme, fino ai dodici o tredici anni. Poco dopo le nostre frequentazione andarono diradandosi, intorno ai sedici lui iniziò a fumare e farsi le prime canne, aveva un po’ di ragazze che gli giravano intorno. Ci salutavamo davanti al negozio, ma ormai eravamo due mondi separati, io nel frattempo avevo iniziato a nuotare, lo facevo seriamente, in maniera agonistica, prima della rottura del ginocchio e la sospensione definitiva. Carlo credo abbia avuto una bambina e si sia sposato, ma non ho informazioni precise e non mi interessa averle. Comunque preferisco il ristorante cinese e non solo per lei e il suo corpo magrissimo, ma perché mi libera dalla mia infanzia, dalla mia adolescenza, dal rituale del ricordo a cui non voglio sottostare. Non mi importa nulla della ferramenta che ha chiuso, della crisi dei piccoli commercianti e dell’ondata di ristoranti giapponesi, cinesi, dei bar che perdono la loro identità e cazzate varie. Io sono un piccolo commerciante che lentamente sta affondando, probabilmente fra pochi anni avrò terminato i risparmi e sarò costretto a vendere le mura del negozio. Ma perseguito nel mio attendismo e assisto al crollo simulando un malessere esistenziale e un po’ di rancore disseminato qua e là. Come fosse un contratto sociale a cui non credo, ma che rispetto. Nel frattempo spero che la cameriera, il suo nome non lo conosco ancora, non invecchi di un solo giorno, vorrei rimanesse giovane, di quella bellezza disallineata: credo piaccia solo a me, spero non sia fidanzata, spero sia ancora vergine. Vorrei vederla nuda e sottomessa. Non so dove avessero trovato i soldi per comprare e ristrutturare il locale, si erano fatti un viaggio di migliaia di chilometri per abitare un luogo che non conoscevano e nel quale non si sarebbero mai integrati. Visto dal negozio di fronte è pura follia. All’ingresso ti accoglie un manifesto incorniciato, un paesaggio con ideogrammi di cui ignoro il significato. All’interno della cornice un prato con al centro un fiume di piccole dimensioni, qualche albero e nient’altro. Un bancone con una tettoia che lo sovrasta, una sorta di pagoda/bar con in bella vista sakè, grappe e amari. Un acquario con qualche pesce che sguazza. Il ristorante non è molto ampio, piuttosto spoglio, il manifesto e l’acquario sono gli unici due poli d’attrazione. Sembra tutto finto, perché tutto è finto. Lei fa parte della stanza, non l’ho mai vista fuori da quel contesto, gambe magrissime, polsi sottili e bianchi, si vedono le vene scorrere, leggermente violacee. Porta sempre una gonna. I miei soldi, se la situazione rimarrà stabile, finiranno fra sei anni e due mesi. A quel punto sarò costretto a vendere, cercare un nuovo lavoro o aspettare che anche i risparmi intascati si esauriscano.
Prima di quella data non ho molti programmi, credo attenderò, sperando che non succeda niente.
Racconto interessante, disincantato e coinvolgente, entri in sintonia con la pacata rassegnazione del protagonista. Direi anche attuale perché rispecchia l’essere di molte persone, purtroppo anche giovani, che “tirano avanti” per forza d’inerzia e si adagiano, demotivati, alla situazione corrente che non offre rosee aspettative. È finita l’illusione, quella che ci manteneva vivi, anche se vana?