La “Bestia divina” di Mario Fresa (e i suoi fiori caduti nell’ansia di un labirinto)
di Prisco De Vivo
“Colui che farà ricorso ad un veleno per pensare
ben presto non potrà più pensare senza veleno.”
Charles Baudelaire
“La poesia è crudele e solitaria”, con grande icasticità ha sentenziato Valerio Magrelli nel suo saggio La lettura è crudele: così come spietata e crudele è l’estroflessione intimistica e controversa dell’ultimo libro di poesia di Fresa, Bestia divina (La scuola di Pitagora Editrice); un testo fondato sul dissidio di ciò che è naturale e ciò che non lo è.
Si avverte, qui, vivissima, una condizione di astenia della parola che si fa nervosamente informe e che si decostruisce di continuo tra veglia e sonno, tra lucidità e delirio. Ma, in fondo, il titolo di questo libro diventa con cognizione di causa un vero ossimoro; ché la bestia non può essere mai divina.
Così, emerge dalle pieghe del testo un monito apocalittico, un immaginario della fine dei tempi, un’umanità privata sempre più del suo Logos, del suo centro; e senza più il suo dio creatore (un dio che in questo libro sembra perfino rinunciare a un eventuale Giudizio Universale). Ne esce fuori una visione tormentosa, persa, e dispersa, tra le mobili (e, appunto, bestiali) pareti di un buio corridoio: quello di un continuo, divorante autorispecchiamento:
Allora il sosia si decide a mostrare sia la coda,
sia il bagaglio. Si butta dalla finestra ma prima
vuole un’abbondante colazione. Si annoierà soltanto
fino a Lunedì, per trasformarsi
in un Bianchino da naso; e l’ho legata stretta stretta
come succede nei libri;
come se fosse davvero un morso ciuco.
Dalle visioni deraglianti di questo libro emerge, quindi, una capacità segreta di costruzione e di decostruzione, un lucido nonsense che fa di Mario Fresa un poeta singolare; un poeta che, come un sarto ossessivo, disegna e ridisegna il corpo della parola, percependone la sua natura più profonda e disperata:
Avete visto com’è spettro e bicchiere, questo corpo?
Quando la noti, si fa destino intero;
viaggio di lingua e orrendo viso di terrore.
Il nostro colloquio s’apre come un insetto male
che ad ogni dolce notizia spara, dalla ringhiera, in due;
s’ingoia proprio tutto, stomaco e sogno:
fino al cervello celeste, possessivo.
Il duello concettuale fra una parola e l’altra è ben evidente nella raccolta; e sempre si percepisce quell’essenzialità che evoca e fa evocare il ludibrio teatrale della messinscena:
I domestici, vedi, hanno gambe
di morti. Le mosche
si aprono all’orecchio; portami via.
Anzi si spacca sul vetro fino, diresti,
a non essere più.
Ogni passaggio da un testo all’altro svela, per tagli e sottrazioni, una verità opaca che si assoggetta alla verosimiglianza di qualcosa che, di continuo, fluisce e si disperde; creando un’immagine caleidoscopica che si distanzia sempre da sé stessa (e dallo sguardo dello stesso osservatore).
Così, nel mostrare continuamente assenza e dispersione, diluizione e mancamento del soggetto, questa mirabile poesia diventa un fiore velenoso che si apre al lettore mostrando una natura ritrosa e ambiguamente accogliente, e offrendogli la possibilità di percorrere una strada sottilmente rischiosa: quella di confrontarsi con parole che possono diventare pericolose e perturbanti per chi le ascolti.
Dunque, parafrasando Laforgue, ci troviamo di fronte a “un magma incandescente sempre sul limite di esplodere e di sgorgare attraverso chissà quali passaggi”.
Tutto è intimo e tutto si sfalda nella poesia di Fresa, che ricompatta e sperimenta, con occhi e orecchi sempre nuovi, la tradizione; un orfismo onirico, febbrile, incandescente vive e si rinnova, rivive e si trasforma sempre nei suoi testi.
E l’immaginario della poesia di Fresa mi riporta senza mezzi termini alle visioni taglienti e provocatorie dell’artista belga Wim Delvoye, le cui decorazioni anarchiche e bizzarre vogliono, allo stesso tempo, divertire e turbare l’osservatore. Lo scopo è uno solo: quello di cogliere lo spettatore di sorpresa, quasi assalendolo con la tenera violenza di un sogno che d’improvviso ci stringe nel suo denso ragnatelo.
Chi legge, allora, continuamente lotta e gioca con (e contro) sé stesso, rispecchiandosi in una poesia misteriosa e respingente; lo stesso Delvoye ha confessato, a chi gli chiedeva di spiegare i suoi lavori: “sono un giocatore di tennis che gioca da entrambi i lati della rete, e ritengo che ciò valga per ogni cosa che ho fatto fino a questo momento”.